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Autore Discussione: NIALL FERGUSON Nei primi cento giorni al potere non ripeta i pasticci di Clinton  (Letto 2413 volte)
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« inserito:: Novembre 08, 2008, 09:19:02 am »

IL COMMENTO

Nei primi cento giorni al potere non ripeta i pasticci di Clinton

Le doti richieste al presidente: ispirazione, temperamento, organizzazione

di NIALL FERGUSON


Ci sono momenti —la caduta del Muro di Berlino, la liberazione di Nelson Mandela — in cui la storia compie un balzo, e lo stesso fa il cuore. Dopo secoli di discriminazione e pregiudizi inflitti agli afroamericani, l'idea di un uomo di pelle scura eletto come quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti mi è parsa un vero miracolo. Al mio arrivo negli Stati Uniti, nel 1981, il pregiudizio razziale era imperante. Nelle strade violente di New York erano all'ordine del giorno le angherie dei poliziotti di origine irlandese ai danni di giovani afroamericani.

La parola nigger aveva ancora libero corso tra molti bianchi negli Stati del Sud. In televisione, agli attori neri erano sempre riservati ruoli di buffoni o delinquenti (basti pensare all' imbarazzante Huggy Bear di Starsky and Hutch). Se all'epoca qualcuno mi avesse detto che nel 2008 un nero sarebbe stato eletto presidente, avrei pensato che si fosse appena fatto di crack comprato da Huggy. E' vero, ce n'è voluto di tempo, ma finalmente è successo. E dopo il commovente discorso di Obama a Chicago, martedì notte, alla notizia del trionfo elettorale, le parole del preambolo alla Dichiarazione di Indipendenza suonano più che mai veritiere: «Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali e dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità».

Ovviamente, quando Thomas Jefferson scrisse questa frase immortale, era anch'egli proprietario di schiavi; in totale, ne possedeva circa duecento, e ne liberò solo sette. Persino quando i coloni ribelli dichiararono il loro diritto alla libertà, sancito da Dio, circa un quinto della popolazione totale della nuova repubblica era costituito da schiavi di origine africana. La schiavitù è stata, a dire di molti, il peccato originale degli Stati Uniti d'America. Nella sua autobiografia, citata anche nel monumento marmoreo sul Mall di Washington, Jefferson sembra rinnegare la «peculiare istituzione» sudista. «Nulla è scritto con più chiarezza nel libro del destino», si legge, «che questa gente (gli schiavi, ndt) deve essere libera». Ma proseguiva— cosa che gli scultori del memoriale hanno preferito tralasciare—che «le due razze» erano divise da «linee indelebili di separazione». Il significato concreto di quelle «linee indelebili » mi è stato ricordato senza mezzi termini proprio poche settimane fa, quando ho visitato a Stratford, in Virginia, il luogo di nascita di Robert E. Lee, il più grande generale della Confederazione durante la Guerra civile.

Oggi la piantagione di Lee è il monumento toccante, nella sua crudezza, alle ingiustizie del Sud: da una parte la splendida villa della famiglia Lee, dall'altra le miserabili baracche dove alloggiavano gli schiavi. La vittoria nordista nella Guerra civile pose fine alla schiavitù negli Stati Uniti, ma non alla discriminazione legale nei confronti degli afroamericani. Fino al 1945, ad esempio, trenta Stati avevano ancora leggi che proibivano i matrimoni misti; dieci di questi erano arrivati addirittura ad inserire nella costituzione il divieto di «miscegenation», o incrocio razziale. Tali divieti figuravano ancora nelle legislazioni di sedici stati quando vennero aboliti dalla Corte Suprema nel 1967. Barack Obama è generalmente definito «nero» o «afroamericano », ma così dicendo si elude il suo reale significato storico.

Egli stesso è nato da un matrimonio misto tra un'americana bianca e un keniota. Fa impressione pensare che, all'epoca della loro unione nel 1961, matrimoni di questo tipo erano ancora illegali in un terzo degli Stati americani, compresi alcuni che questa settimana hanno assegnato a Obama la sua schiacciante vittoria elettorale. Nel lento incedere della storia, quattro decenni non sono un lasso di tempo molto lungo. Eppure in soli quarant'anni l'America è passata dall'assassinio di Martin Luther King Jr. al trionfo di Barack Obama e per questo c'è senz'altro motivo di rallegrarsi. Tuttavia, non è solo per queste ragioni storiche che negli ultimi sei mesi ho deciso di schierarmi con Barack Obama. Dai primi anni '70 — se non addirittura dai primi anni '30—gli Stati Uniti non attraversavano una crisi finanziaria di questa portata, un’emergenza che richiede competenze completamente diverse da quelle mostrate da John McCain in campagna elettorale. In una crisi come quella attuale, ci si aspetta tre cose da un nuovo Presidente: un discorso inaugurale ispirato come fu quello di Franklin Roosevelt nel 1933; un temperamento che non si surriscaldi sotto pressione; e un'organizzazione disciplinata e focalizzata per far sì che il nuovo governo, nei suoi primi cento giorni, non combini i pasticci che combinò l'amministrazione Clinton.

In questa campagna, che ha abbinato un'eccezionale oratoria a un sangue freddo sovrumano e a una gestione impeccabile, Obama ha dimostrato di avere tutte e tre le qualità del leader. Quelle di McCain, invece, sono state date per disperse. La tragedia — il termine non è esagerato — è ovviamente che il primo presidente nero erediterà un tremendo dissesto finanziario. Le promesse di Obama (tagli alle tasse e aumenti degli investimenti) sono in effetti più contenute di quelle di McCain (un altro punto a favore del primo), ma la verità è che il nuovo presidente non dispone più del trilione di dollari con cui destreggiarsi per i prossimi quattro anni. Molto semplicemente, i soldi sono già stati spesi dal Ministro del Tesoro Paulson per foraggiare il più grande salvataggio del traballante sistema bancario. Se si sommano tutte le misure prese negli ultimi quattordici mesi dal Tesoro e dalla Federal Reserve, si scopre che la passività del governo è balzata da 7,5 a quasi 12 trilioni di dollari. Nel Congresso, già si sentono i democratici esultanti reclamare investimenti cospicui, e questo significa prestiti ancor più ingenti. La prima grande sfida del nuovo presidente sarà quella di trovare un ministro del Tesoro capace di resistere a queste pressioni. Perché se Obama dovesse cedere, il mercato obbligazionario internazionale potrebbe chiedersi se i titoli del Tesoro americano sono davvero l'investimento più sicuro al mondo. E i dubbi a questo proposito potrebbero rivelarsi fatali. Alcuni tra i più illustri fantasmi del passato americano aleggiavano su Chicago martedì sera. Accanto a Jefferson e Martin Luther King c'erano Lincoln e i fratelli Kennedy che guardavano verso il basso con stupore. Anche Franklin Roosevelt osservava la scena, e si domandava per quale crudele scherzo del destino il primo presidente nero debba confrontarsi con una probabile seconda Grande Depressione.

(Traduzione a cura dello Iulm)
08 novembre 2008

da corriere.it
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