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« inserito:: Ottobre 06, 2007, 12:07:04 am » |
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La lezione di Anna
Walter Veltroni
Nella prefazione all’edizione italiana di uno dei libri di Anna Politkovskaja, Adriano Sofri racconta un suo immaginario funerale, all’indomani di quel tragico 7 ottobre di un anno fa. Fin dalle prime ore del mattino, nonostante la pioggia battente, una folla innumerevole si raccoglie sul luogo della cerimonia. Un milione di persone almeno. Le strade di Mosca chiuse al traffico e prima dell’alba già piene di fiori, soprattutto rose, e di candele accese. Le autorità russe, nonostante il timore di contestazioni, presenti al completo. Ad assistere anche Kofi Annan, alla scadenza del suo mandato all’Onu, e una delegazione delle Madri di Beslan, affiancate in una tribuna speciale dalle Madri cecene e dall’associazione delle Madri dei soldati russi. Un silenzio commosso, rotto soltanto dalla musica dell’orchestra da camera di Mosca, dalle note di Šostakovic e di Rossini.
Questo il racconto di quel giorno. Un racconto immaginato, inventato, pensando a ciò che sarebbe dovuto essere, a quel che sarebbe stato giusto. Ma il mondo va spesso alla rovescia, e ai funerali di Anna Politkovskaja non c’erano né capi di Stato, né premi Nobel, né picchetti d’onore. Di madri di Beslan, cecene e dei soldati russi sì, probabilmente ce n’erano. Di sicuro col pensiero e col cuore erano in tante, strette alle duemila persone raccolte a rendere omaggio a una persona che avevano sempre sentito vicina, alla quale volevano bene. Anna Politkovskaja è stata una donna coraggiosa e soprattutto, ed era questa la cosa a cui più teneva, una giornalista. Una vera giornalista, libera e autorevole. Del suo modo di esserlo, del suo modo di scrivere, diceva che non amava i commenti, perché le ricordavano le opinioni imposte nella sua infanzia sovietica, e perché pensava che i lettori sapessero interpretare quel che leggevano, senza aver bisogno che qualcuno lo spiegasse loro. Si riteneva una persona che descriveva quel che succedeva a chi non poteva vederlo. «Io vivo la mia vita», disse una volta, «e scrivo di ciò che vedo».
Era un particolare tipo di giornalista. Quelli che sentiva essere i suoi doveri di cronista, li rispettava con una precisione delle informazioni e una cura dei resoconti davvero uniche. Ma andare a vedere e scrivere diventavano tutt’uno, per lei, con lo stare dalla parte delle vittime, dei più deboli, degli oppressi e degli sfruttati, e per quel che poteva, con il portar loro un concreto sostegno. Era una testimone straordinaria perché partecipe, non spettatrice.
A Groznyj, sotto i bombardamenti, a portare aiuti umanitari ai civili e a fare in modo che gli anziani riuscissero a lasciare la città. Con gli ostaggi nel teatro Dubrovka di Mosca, a tentare inutilmente una mediazione prima che tutto finisse in una carneficina. A raccogliere il dolore e le parole dei familiari della tragedia di Beslan, dove non era riuscita ad arrivare in tempo, perché come è noto lungo il viaggio era stata vittima di un avvelenamento. A opporsi quotidianamente alla corruzione e all’arbitrio, a richiamare l’attenzione del mondo sui diritti negati nella Russia di oggi.
A denunciare le sparizioni, i trattamenti inumani e le torture perpetrate nelle prigioni segrete cecene dagli uomini di Kadyrov: gli ultimi appunti lasciati sulla sua scrivania, l’aveva annunciato lei stessa nel corso di una trasmissione a Radio Svoboda, due giorni prima di essere uccisa, servivano proprio a questo. Per un articolo su una vergogna per fermare la quale era pronta a testimoniare anche in tribunale. Erano appunti presi non solo per l’oggi, diceva. Dovevano servire per il futuro, e per questo erano così minuziosi, ricchi di particolari, di tutti i particolari possibili. Per lasciare traccia della vita delle vittime innocenti.
Così aveva fatto per anni, raccogliendo informazioni e divulgando notizie che di tanto in tanto, grazie alla sua ostinazione, riuscivano a squarciare il silenzio, a denunciare le violazioni dei diritti umani compiute dall’esercito del suo paese ai danni del popolo ceceno, martoriato da una guerra ignorata, prima ancora che dimenticata. Anche grazie a lei nessuno potrà dire, un giorno, di non aver saputo. Anche grazie a lei è ancora viva la possibilità, se ce ne sarà la volontà politica, di fare qualcosa per la Cecenia.
Per la Cecenia e più in generale per rompere la regola che facciamo così fatica a cambiare: quella per cui in alcuni casi i diritti umani sembrano - per fortuna - poter essere davvero inviolabili, mentre in altri casi sono violabili, violabilissimi. La democrazia e la libertà vanno difese e affermate ovunque. In Iran come in Cina, in Colombia come a Cuba, in Iraq e nella Birmania di Aung San Suu Kyi e dei monaci che manifestano contro il regime militare. Quando in gioco sono i diritti fondamentali degli uomini e la loro libertà, non possono esserci differenze, non può esserci alcuna incertezza o reticenza, né pesi e misure diverse a seconda dei casi, dei paesi e dei governi coinvolti.
Era questa la stella polare che Anna Politkovskaja seguiva nel suo lavoro, nella sua vita. Una vita appassionata ma certo faticosa. Sapeva quali erano i rischi. Aveva messo in conto quel che sarebbe accaduto. «La mia vita è difficile, certo, ma è soprattutto umiliante», disse una volta. «Non ho più l’età per scontrarmi con l’ostilità e avere il marchio di reietta stampato sulla fronte. Non parlerò delle altre ’gioie’ del mio lavoro - l’avvelenamento, gli arresti, le minacce di morte telefoniche e on-line, le convocazioni settimanali nell’ufficio del procuratore generale per firmare delle dichiarazioni su quasi tutti i miei articoli. Vivere così è orribile. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo, ricevere ogni giorno in redazione persone che non sanno dove altro andare».
Lo stesso spirito, la stessa tenacia, con cui un’altra volta aveva risposto, a chi le domandava se non avesse paura: «Quando scegli la tua strada la vivi, anche perché c’è molta gente che conta su di te». Quella strada si è interrotta un giorno di ottobre, un sabato pomeriggio, mentre rientrava nel suo appartamento al settimo piano di un palazzo di Mosca, con in mano due buste della spesa. E vengono in mente le stesse buste, la stessa semplice grandezza, di quel ragazzo senza nome, animato solo dal suo coraggio e dalla sua voglia di libertà, di fronte ai carri armati su Piazza Tien An Men. Appena entrata nell’ascensore, Anna Politikovkaja viene raggiunta dal suo sicario, sicuro di sé, convinto della sua impunità, tanto da presentarsi a volto scoperto, da non preoccuparsi di lasciare tracce e delle telecamere dell’edificio che lo riprendono, da allontanarsi con tutta calma dopo aver assolto al compito affidatogli.
Un delitto annunciato, cosa che ha reso, se possibile, ancora più forte il dolore, perché l’ha unito alla rabbia, ad un terribile senso impotenza. Ma ha ragione il direttore di Internazionale, il giornale che qualche mese fa ci ha proposto di intitolare ad Anna Politkovskaja una via di Roma e che qui in Italia non ha mai smesso di parlare di lei, di farla parlare attraverso i suoi articoli: quando uccidono una giornalista è per farla tacere.
E allora, la risposta migliore che abbiamo è quella di continuare a darle voce. Per questo oggi siamo qui con la figlia Vera, idealmente con il figlio Ilja, e con Zoja Eroshok, giornalista della Novaja Gazeta, il suo giornale. Siamo qui per legare indissolubilmente il nome di Anna Politkovskaja alla nostra città. È quello che possiamo fare. È quello che sentiamo di fare dal profondo del cuore e con la più grande convinzione. Non dimenticare. Non dimenticare le cause per cui si batteva. Non dimenticare lei, la sua passione civile, il suo amore per la verità e per la libertà. Lasciare per sempre un segno, perché chiunque passi di qui sappia chi era, e per che cosa ha speso la sua vita, Anna Politkovskaja.
Pubblicato il: 05.10.07 Modificato il: 05.10.07 alle ore 8.43 © l'Unità.
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