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Autore Discussione: Giovanna Quaglia. "Non voglio morire nel deserto"  (Letto 3020 volte)
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« inserito:: Ottobre 01, 2008, 10:22:59 pm »

1/10/2008 (8:13) - DOCUMENTO

"Non voglio morire nel deserto"
 
Giovanna Quaglia, 52 anni, dirigente Unicredit: è l'autrice di questo diario
 
Il diario di Giovanna, dieci giorni da prigioniera: “Penso alla mia mamma: spero che non crolli”

GIOVANNA QUAGLIA

TORINO

Dieci giorni sotto la minaccia dei mitra, nel calore insopportabile del deserto. Giovanna Quaglia, torinese, 52 anni, dirigente Unicredit, li ha raccontati in questo diario tenuto giorno per giorno.

Venerdì 19 settembre
Ho paura. Oggi è successa una cosa terribile. Ci hanno sequestrati. Dalle quattro e mezzo del pomeriggio siamo nelle mani dei banditi. Saranno poco meno di una quarantina, non sono riuscita a contarli bene. E neppure i miei compagni di viaggio, Mirella, Lorella, Walter e Michele. Più altri cinque tedeschi, otto egiziani e una ragazza rumena, sposata a uno dei tedeschi. Meno male che ci sono gli egiziani. I nostri carcerieri non parlano inglese. Conoscono solo l’arabo e il linguaggio delle armi. Hanno mitragliette, bazooka e chissà cos’altro. Ci hanno rapiti mentre le nostre jeep, tre in tutto, erano impantanate nella sabbia di una duna. Stavamo cercando di tirarla fuori con le piastre, quando abbiamo visto arrivare quattro jeep. «Sono i soldati, vengono ad aiutarci» ho pensato. Ma appena ho visto che ai piedi avevano sandali invece che scarponi ho capito tutto. Il resto l’hanno lo hanno fatto le mitragliette contro di noi. Non credo siano terroristi. Vogliono soldi e non ci hanno chiesto di fare di dichiarazioni da spedire a Al Jazeera o ai nostri Paesi d’origine.

Sabato 20 settembre
A parte la fatica di razionare il cibo e l’acqua, abbiamo girato tutto il giorno senza capire dove stavamo andando. Ci hanno tolto tutto: telefonini, bussole, Gps. Sicuramente siamo diretti al sud, ma chissà dove. Ieri, quando ci hanno rapiti, eravamo a 56 km al confine con il Sudan: ci eravamo appena fatti una foto vicino al palo con l’indicazione. Ora chissà in quale punto del deserto siamo. Ma non è questo che mi spaventa. Non capisco perché stasera ci hanno affidato a una nuova banda di predoni. Perché questo scambio? Vorranno davvero solo dei soldi? Ibrahim, il proprietario dell’agenzia turistica egiziana, è l’unico che ha il permesso di telefonare alla moglie con il satellitare. Lei è tedesca e gli ha detto che per ora sul nostro rapimento c’è il silenzio stampa. Lui dice che è un buon segno: vuol dire che al massimo entro 48 ore saremo liberi. Ma allora perché ci hanno consegnato a un’altra banda?

Domenica 21 settembre
Il caldo è insopportabile. Ci saranno 50 gradi. L’unico modo per trovare un po’ d’ombra è stare sdraiati sotto le jeep. Un sollievo: mai avrei pensato che il mio panorama preferito del deserto sarebbe stato l’avantreno di un fuoristrada. Quanto alla paura, quella non molla mai. Per vincerla prego: Dio ci salverà. Per fortuna ci trattano bene. Io e le altre donne stiamo molto attente a non dare nell’occhio: sempre a testa china con il velo sulla testa e sul volto. Serve anche a ripararci dalla sabbia e dal vento.

Lunedì 22 settembre
Sono sfinita. Dalla paura, soprattutto. Da oggi anche a casa sanno del nostro sequestro. Povera mamma, speriamo che non crolli. La moglie di Ibrahim è all’ambasciata del Cairo: gli ha detto che dobbiamo stare tranquilli, che c’è una trattativa in corso e che presto saremo liberi. Cosa vuol dire presto? Il tempo non passa mai. Chiacchieriamo tra di noi, circolano pure due libri in italiano. Sono due thriller di Michele. «Per carità, il thriller lo stiamo già vivendo noi» gli ho detto. Vorrei tanto una cosa leggera, stile Liala.

Martedì 23 settembre
I carcerieri sono calmi ma sempre attentissimi. Quando siamo fermi, pochi restano accanto a noi. La maggior parte, mitra spianato, fa da sentinella sulle rocce. Sono tutti giovani, tra i 20 e 30 anni, tranne uno che ne avrà una cinquantina. Sembra il leader. Hanno la pelle molto scura, sono forse del Ciad? Hanno il turbante, occhiali scuri, lunghe tuniche o pantaloni mimetici. Da lontano si confondono con le rocce, tanto che insieme ai compagni ho escogitato un gioco. Li guardiamo e ci chiediamo: sono loro o sono pietre? Sbagliamo quasi sempre».

Mercoledì 24 settembre
L’acqua scarseggia. Non ci laviamo mai e non la usiamo neppure per cucinare la pasta. Ne abbiamo più o meno un litro e mezzo a testa ogni giorno. La beviamo a piccoli sorsi, con il cucchiaio. I rapitori mangiano solo la sera: siamo in pieno ramadan, e loro pregano insieme agli ostaggi egiziani. A forza di stropicciarlo tra le mani sto consumando la copertina del passaporto. Ma è l’unico modo per farmi coraggio: mi ricorda che appartengo a uno stato libero e democratico. Il nostro governo non ci abbandonerà.

Giovedì 25 settembre
Un funzionario dalla Farnesina mi ha chiesto il nome del gatto di mio nipote Mattia: Luna. È una prova per dimostrare che sono viva.

Venerdì 26 settembre
Dalla Farnesina mi hanno detto che la mia risposta è risultata giusta. Mia madre, mio fratello, mia cognata e Mattia sanno che sono viva. Ma quando torneremo a casa?

Sabato 27 settembre
I sequestratori sembrano agitati: sta per verificarsi qualcosa di decisivo per la nostra sorte?

Domenica 28 settembre
Siamo finalmente liberi! Ci hanno appena abbandonati nel deserto, tutti e 19 su una jeep senza ruota di scorta. «Go, go» ci hanno spronato. Li abbiamo convinti a concederci un Gps: siamo diretti 28 gradi a nord. Speriamo di incrociare presto qualcuno. Sento che succederà, grazie a Dio.

da lastampa.it
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