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Autore Discussione: Silvano Andriani. La finanza dai piedi d'argilla  (Letto 2183 volte)
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« inserito:: Ottobre 07, 2008, 04:25:23 pm »

La finanza dai piedi d'argilla

Silvano Andriani


Chi finanzierà la finanza? A questo paradosso siamo arrivati alla fine di un ciclo economico e finanziario trentennale che ha conosciuto un mutamento della natura dell’attività finanziaria, tanto che molti di quelli che erano chiamati Istituti di credito si sono trasformati in Istituti di debito. I sistemi finanziari, per anni ritenuti il pilastro della stabilità dell'economia mondiale, sono diventati la principale causa di crisi ed ora, dopo la madre di tutti i salvataggi decisa dal governo Usa, anche i governi europei si accingono a venire in soccorso delle banche.

Il crollo delle borse ci dice che sta svanendo l’illusione che la crisi finanziaria possa risolversi in un ridimensionamento degli “eccessi” della finanza senza influenzare più di tanto l’economia reale. Tale illusione aveva portato le borse a sfidare la legge di gravità ed a mantenersi vicino ai livelli massimi mentre sprofondavano i prezzi di tutti gli altri asset. Oggi ciò che più dobbiamo temere è che si inneschi un circolo vizioso tra recessione e crisi finanziaria: che la crisi finanziaria aggravi la recessione e che quest’ultima peggiori la crisi della finanza.

Questa crisi non nasce esclusivamente la finanza. Gli “eccessi” della finanza non sarebbero stati possibili senza la crescita esponenziale dell’indebitamento pubblico e privato a livello mondiale. E poiché nel modello di sviluppo dominante era il mondo anglosassone - Usa, Inghilterra, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda - ad indebitarsi con il resto del mondo, al punto da assorbire la quasi totalità dei flussi mondiali netti di capitale, gran parte dell’“innovazione finanziaria” è stata diretta ad alimentare questo gigantesco processo di indebitamento.

Ma non si tratta solo di questo. L’ideologia alla base del modello di sviluppo dominante negli ultimi trenta anni, il cosiddetto «Washington consensus», non è nato dalla finanza, ma dalla politica, dal pensiero della destra liberista. Da lì proviene il dogma della piena razionalità dei mercati e della loro capacità di autoregolarsi; da lì lìidea che tutta la crescita di valore delle imprese debba tradursi in “valore per gli azionisti” cioè per il capitale finanziario; da lì la convinzione che l’unico problema per la governance delle imprese sia l’alleanza fra capitale finanziario e management che ha poi dato luogo agli incentivi perversi al management stesso che sono in gran parte causa dell’attuale sconquasso ed alla crescita incredibile del divario dei compensi dei manager rispetto agli altri lavoratori.

Vale la pena di ricordare che i fallimenti ed i grandi scandali societari negli Usa e non solo, non sono cominciati nella finanza, ma nelle grandi imprese industriali all’inizio di questo decennio. E hanno mostrato una generalità di comportamenti sostanzialmente truffaldini e tuttavia consentiti dalle leggi, l’infondatezza degli assunti del “pensiero unico” ed il fatto che la finanziarizzazione non riguardava solo la finanza, ma la generalità delle grandi imprese Usa e non solo che ormai traevano profitti più dalla gestione finanziaria che dall’attività industriale. Dopo gli scandali del 2001 ci sono state negli Usa alcune condanne, ma la lezione non è servita e le cose sono continuate come prima. Berlusconi ha affermato che “dobbiamo riportare l’etica nella finanza” ma sa bene che quello dell’etica è un problema che riguarda tutto il mondo degli affari.

Se diventano più frequenti i richiami alla crisi del 1929 è perché negli ultimi trenta anni sono prevalse le idee della destra liberista che furono alla base dello sviluppo e della globalizzazione nella seconda metà dell’Ottocento e perché non siamo di fronte ad una semplice crisi finanziaria. Oggi come allora la crisi finanziaria, come quella energetica e quella alimentare, segnalano l’esplosione di squilibri accumulati nell’economia reale e che anche allora si tradussero in un eccesso di indebitamento. Allora come ora al centro della crisi sono gli Usa o meglio ancora il mondo anglosassone che ha poi infettato l’intera economia mondiale.

Un intervento pubblico era certamente necessario per evitare la catastrofe, ma il piano di risanamento proposto dal governo Usa è il peggiore possibile e gli emendamenti imposti dal Parlamento lo hanno migliorato, ma non ne hanno mutato la natura. Il peggiore in quanto, acquistando con i denari dei contribuenti i titoli spazzatura, fa un regalo agli azionisti ed ai manager delle imprese finanziarie responsabili dei dissesti. Ed in quanto potrebbe risultare in buona misura inefficace: esso eviterà probabilmente il tracollo del sistema finanziario che si stava profilando, ma non risolverà il problema della sottocapitalizzazione della banche e non le metterà perciò in grado di rilanciare l’attività creditizia per sostenere l’economia reale. Altra cosa sarebbe stato un piano che avesse indirizzato i fondi pubblici nei capitali delle banche, che avrebbe risolto il problema della loro ricapitalizzazione e dato alla Stato un potere di comando sulle imprese per rinnovarne la direzione ed il controllo ed avere maggiore possibilità di recuperare i fondi pubblici erogati. Ma evidentemente non si è voluto cambiare gli assetti proprietari delle banche e punire chi è responsabile della crisi.

Siamo di fronte al fallimento del sistema di regolazione e delle autorità di controllo; la regolazione va sostanzialmente cambiata e qualche riflessione andrebbe fatta anche sul modo di essere delle autorità di controllo. Si tratta di sapere chi deve farlo. Stupisce che a proporre i piani di salvataggio ed a discutere sulla regolazione siano i responsabili della crisi. Il ministro del Tesoro Usa è un uomo della finanza e sono i banchieri centrali che discutono del nuovo sistema di regolazione. Il sistema di regolazione definisce il rapporto tra Stato e mercato, devono deciderlo forse i banchieri?

Assistiamo al silenzio della politica: Bush è apparso in televisione come semplice speaker del mondo degli affari; i quattro governi europei riuniti a Parigi hanno subito respinto il tentativo di Sarkozy per un piano comune di intervento sui sistemi finanziari. Alla fine la proclamazione enfatica della volontà di salvare le banche non seguita dall’adozione di un piano di intervento europeo sostanzialmente diverso da quello statunitense ha finito con l’aumentare la preoccupazione dei mercati. Di fronte al pericolo di una spirale perversa recessione/crisi finanziaria occorrerebbe una politica di riduzione sostanziale dei tassi di interesse e di rilancio anche attraverso la spesa pubblica. Bisognerebbe insomma riscoprire il piano Delors che, oltre un piano di rilancio degli investimenti da parte della Ue, delineava gli elementi di un diverso tipo di sviluppo e di società.

Nulla di tutto ciò si intravede all’orizzonte, sicchè non ci resta che sperare che l’analogia con il 1929 si avveri anche per un altro aspetto e che, come allora dalla crisi venne fuori Roosevelt e il new deal, la vittoria di Obama ponga le condizioni per una svolta che consenta di avviare un nuovo ciclo economico molto diverso da quello che si sta chiudendo con questa crisi.

Questo è quanto possiamo sperare concretamente mentre restiamo in attesa di conoscere cosa ne pensano di tutta questa storia il Partito Socialista Europeo e il Partito Democratico italiano.

www.silvanoandriani.it


Pubblicato il: 07.10.08
Modificato il: 07.10.08 alle ore 8.45   
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