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Autore Discussione: Giuseppe De Rita Scuola senz’anima  (Letto 2974 volte)
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« inserito:: Settembre 10, 2008, 04:38:35 pm »

Scuola senz’anima


di Giuseppe De Rita


Chi a diverso titolo guarda ai problemi della formazione e della scuola prova la spiacevole sensazione di non riuscire a contenerli in una interpretazione ben focalizzata, cosicché tutto gli appare scontornato, fluido, sfuggente. Ne parliamo e ne scriviamo tutti, ma non riusciamo almeno a mettere ordine su una crisi ormai profonda, anche perché ha almeno tre grandi motori di spinta. Il primo è dato dalle incertezze sull'assetto strutturale del sistema: ne sono prova le polemiche sulla fruibilità della scuola materna; sulle scelte dei docenti nella scuola elementare (maestro unico e no); sull'incapacità di creare nel periodo dell'obbligo quello «zoccolo di competenze di base» di cui ragioniamo da Lisbona in poi; sullo squilibrato andamento delle scelte fra licei classici ed istituti tecnici; sulla interminabile vicenda della riforma della secondaria superiore; sul fallimento della riforma 3+2 nell' università, ecc..

Le tante parole spese su questi temi non rendono meno confuso il quadro, che vede in azione un secondo motore di crisi: la disaffezione soggettiva. Sia quella degli allievi, con episodi e logiche di pericolosa decostruzione sociale (si ricordino il bullismo, gli abbandoni entro gli anni dell'obbligo, ecc.); sia quella di una parte del corpo insegnante con episodi e logiche (di impiegatizzazione e di segmentazione corporativa) di pericoloso impatto sulla qualità del rapporto educativo. Senza contare in terzo luogo che la scuola soffre moltissimo al suo esterno l'evoluzione delle altre agenzie formative: la crisi di funzione educativa della famiglia; la crescita di importanza delle nuove tecnologie di comunicazione che fanno apparire inadeguati ed obsoleti i percorsi scolastici; l'impatto della televisione e degli eventi collettivi sulle emozioni, sugli atteggiamenti culturali, sull'identità dei giovani. Aver messo in elenco le tre grandi componenti della crisi della scuola permette di dimostrare quanto essa sia profonda e sfuggente, non più padroneggiabile da vecchi canoni di interpretazione e di azione. Per questo si mostrano ogni giorno più irrilevanti i nobili richiami degli opinionisti e dei politici, le tabelle statistiche e i rapporti di enti nazionali ed internazionali, le raffiche delle tante proposte di riforma, le pressioni sindacali e le lotte del precariato.

La crisi della scuola italiana è profonda perché è in crisi di ruolo e di anima: di ruolo perché non è più attuale la sua originaria funzione di formazione collettiva a una cultura, una lingua, una coscienza nazionale; e d'anima, perché non sappiamo più quali fondamenti valoriali di base la scuola è tenuta - ed è capace - di dare alle giovani generazioni. Se così complessa è la crisi, per affrontarla bisogna avere una strategia del dove si comincia, altrimenti si resta nell'indistinto in cui oggi ci perdiamo. Può apparire una indebita semplificazione, ma l'ipotesi che sembra più viabile è quella di «cominciare dal basso». Dobbiamo far sì che i nostri figli o nipoti non restino prigionieri della successione delle tante emozioni ma siano aiutati a condensarle in una progressiva hillmaniana «educazione dei sentimenti»; non restino prigionieri del disordinato accavallarsi dei messaggi a loro indirizzati ma siano educati a saperli ordinare e sintetizzare; non restino a galleggiare sulla eterodiretta confusione intellettuale di cui tutti noi soffriamo,ma siano aiutati a sviluppare un po' di progressivo senso di responsabilità; non restino spersi nel vuoto spinto tipico della attuale cultura di massa, ma siano aiutati ad apprezzare la piccola virtù della serietà.

Se vogliamo far questo dobbiamo ricominciare dal basso, dalle fondamenta del sistema: da una buona scuola dell'infanzia, naturalmente rinforzata per diffusione territoriale e per qualità delle persone; e da una scuola elementare profondamente ricentrata sulla sua primordiale funzione di formazione dei sentimenti, della sintesi personale, del senso della responsabilità, della serietà del comportamento. Il ritorno all'insegnante unico non deve in questa luce scandalizzare, ha un senso profondo, anzi andrebbe gestito con maggiore concentrato coraggio: solo una personalizzazione forte e continuata del processo formativo iniziale può garantire ai giovani di possedere un solido «tondino di ferro» su cui agglomerare i successivi input formativi. Cominciare dal basso e rifare le fondamenta del sistema. Immagino che si tratti di un'opzione troppo drastica per una politica scolastica attraversata da centinaia di altre idee, proposte, interessi, poteri. Ma se non si fa questa scelta si rischia che si accentui la confusione ai piani superiori del sistema; e che la scuola ci sfugga sempre di più, come componente del nostro vivere insieme.

10 settembre 2008

da corriere.it
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Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Settembre 17, 2008, 08:34:59 am »

17/9/2008
 
La scuola più povera
 
 
 
 
 
MERCEDES BRESSO*
 
In vestire sulla scuola significa investire sul nostro futuro. La qualità della scuola, dall’infanzia all’Università, è specchio della qualità di una società e del suo possibile sviluppo o declino: qualità della vita, del lavoro, della salute. Questo è un assioma, un concetto ritenuto valido a qualunque latitudine, in qualunque cultura. Nella scuola italiana, l’ha ribadito l’Ocse, s’investe poco (chiedere agli insegnanti che di tasca propria acquistano materiali scolastici), gli stipendi sono bassi, le elementari costituiscono il segmento più forte. Trovo quindi sia un controsenso occuparsi della reintroduzione del grembiule, dei voti al posto dei giudizi, della cancellazione nei fatti del tempo pieno alle elementari e addirittura pensare che si debba ridurre l’orario scolastico. E, per niente secondario, trovo che tutte queste decisioni siano tanto più illogiche quando ad assumerle è uno Stato che ha già deciso che il prossimo anno la materia, salvo che per i principi generali, passerà alle Regioni.

Dalle dichiarazioni e dai provvedimenti annunciati in queste settimane possiamo intravedere all’orizzonte: destrutturazione della scuola attraverso un impoverimento economico massimale, per poi passare tutto alle Regioni ma con fondi insufficienti (non sono stati sufficienti per lo Stato sino a oggi, dovrebbero esserlo per le Regioni da domani?). È il contrario del federalismo. Non solo del federalismo che vogliamo, ma del concetto stesso di federalismo. In questo modo, lo Stato avrà recuperato fondi per «altro», il servizio scolastico offerto sarà peggiore a meno di rendere disponibili a pagamento - ecco, forse, uno degli obiettivi reali - parte dei servizi. Com’è possibile pensare di cancellare, perché ovviamente questo accadrebbe con il maestro unico, il tempo pieno invece che estenderlo a tutta Italia? Come si può parlare di aiuto e appoggio alle famiglie e poi agire con l’aggiunta di costi per le famiglie (grembiule, servizi che non saranno più garantiti, «doposcuola» privatizzato...) e scelte che penalizzano gravemente le donne lavoratrici? Non ci sono risposte che facciano pensare alla valorizzazione dell’istruzione, alla crescita della nostra società, a un futuro migliore.

Sono d’accordo, si deve fare efficienza, ma intervenendo per potenziare il servizio, non per distruggerlo. Ad esempio, intervenendo sui costi di gestione: pensiamo agli sprechi in campo energetico. Ma molte altre sarebbero le azioni possibili. Si deve anche razionalizzare l’utilizzo del personale docente, sapendo però che questa è la principale risorsa per la scuola e, di conseguenza, per il nostro futuro. Ci vogliono programmazione di almeno tre-cinque anni e progettualità: la razionalizzazione possibile deve essere accompagnata - direi quantitativamente sovrastata - da investimenti sulla formazione e l’aggiornamento, dagli aumenti necessari sui salari, con incentivi che premino la disponibilità e la qualità. Insomma, dobbiamo rivalutare la figura dell’insegnante e della scuola ad ogni grado, riconoscerne il ruolo chiave per la società. Sono anche per l’introduzione di un lavoro serio, costante e approfondito da parte degli «ispettori», che oggi vengono utilizzati in casi rarissimi: io ho insegnato per 40 anni e non ricordo di avere avuto un’ispezione. La semplice «soddisfazione del cliente» in un caso come quello della scuola credo possa fare più danni che risultati utili: anche perché il cliente non è l’adolescente di oggi, ma il cittadino di domani.

Insomma, la scuola, la formazione, la preparazione sono la chiave per dare un futuro roseo all’Italia. Vedere queste voci come un «costo» da tagliare e non una opportunità su cui investire, una risorsa da potenziare al massimo - ripeto: anche razionalizzando - significa non occuparsi del Paese.

*presidente della Regione Piemonte
 
da lastampa.it
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