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Autore Discussione: PAOLO CIRINO POMICINO  (Letto 6548 volte)
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« inserito:: Luglio 17, 2008, 07:38:00 pm »

17/7/2008
 
Tremonti e il gioco della scure
 
 
 
 
 
PAOLO CIRINO POMICINO
 
Caro direttore,

la crisi dei mercati finanziari internazionali e in particolare di quelli americani legati ai mutui sub-prime determina nel sistema bancario perdite tanto gravi da richiedere frequenti salvataggi pubblici per evitare ancora più pericolosi effetti domino nell’economia mondiale. Un male necessario l’intervento pubblico, cui però deve far seguito un’inversione di marcia strutturale per la quale la finanza torni a favorire la produzione di beni e servizi e in cui il sistema dei cambi possa essere regolato da un nuovo serpente monetario simile a quello che aiutò le monete europee. Nella crisi internazionale spicca una crisi italiana. La produzione industriale crolla (-6,7 a giugno), l’inflazione galoppa riducendo drammaticamente il potere d’acquisto dei salari già ampiamente erosi, la crescita per il 2008 salirà poco sopra lo zero e per i prossimi anni intorno all’1-1,2%, molto al di sotto della media dei Paesi dell’euro. Il tutto aggravato da una stretta creditizia per la crisi dei mercati finanziari. Senza crescita, nessun risanamento strutturale dei conti pubblici potrà avvenire, così come è follia pensare che tagliando la spesa pubblica s’inneschi automaticamente lo sviluppo. È vero il contrario.

Con un tasso di crescita almeno pari alla media dei Paesi della zona euro di cui condividiamo il contesto economico e finanziario il rapporto deficit-pil italiano si ridurrebbe di ½ punto e il taglio della spesa pubblica sarebbe più agevole e meno traumatico sull’economia reale. Ecco il quadro economico nazionale, certo peggiore dei nostri partner europei, nei quali la crescita è rallentata, ma è ancora vicina al 2% e la produttività del lavoro non s’inabissa come da 15 anni in Italia. Tale differenza dimostra che c’è uno spazio notevole per l’azione dei governi. Chi dice il contrario cerca solo un modo per non assumersi le responsabilità di quanto accade nel silenzio complice di molti. Su questo ribollire di difficoltà il ministro dell’Economia Tremonti scarica uno tsunami di norme e tagli che non arresterà l’inflazione, non ridurrà la pressione fiscale, quindi non aiuterà famiglie e imprese, non rilancerà la crescita e rischia di non risanare i conti pubblici. Lo dimostra la stessa previsione del governo sul fabbisogno del settore statale nel secondo semestre di quest’anno. E la scure dei tagli sulla spesa della pubblica amministrazione, nonostante qualche ripensamento, metterà in ginocchio polizia e carabinieri, università e ricerca scientifica, tribunali e ospedali, le forze armate e gli investimenti pubblici. Ci sembra un taglio senza intelligenza: invece di eliminare gli sprechi, generalizza, penalizza il presente e rischia di annullare il futuro di un intero Paese (valga per tutti l’esempio dell’università e della ricerca il cui accesso viene di fatto bloccato ai giovani ricercatori). Basta passare per i corridoi di Montecitorio o di Palazzo Madama per ascoltare analoghe preoccupazioni dai rappresentanti della stessa maggioranza e anche da molti ministri. Che cosa mai sta accadendo? Un mistero non facile da spiegare. Tremonti, come disse in un’intervista a Giovanni Minoli, non si ritiene più un tecnico ma un politico. Se così è, non può non avere un disegno politico e, visti i suoi provvedimenti nei quali nessuno può mettere bocca, né Letta né gli altri ministri, dovrà pure spiegarne la sostanza. Tremonti sa che senza crescita il Paese si frantuma e se il valore di un sano bilancio dello Stato è fondamentale non si deve dimenticare che il bilancio è uno strumento al servizio della coesione sociale, dello sviluppo e del funzionamento della macchina pubblica in uno Stato di diritto. Se così non fosse sarebbe il Paese a decadere ulteriormente. Tremonti sa tutte queste cose ma forse sta giocando una partita politica personale i cui contorni ancora ci sfuggono e dimentica che una drammatizzazione sociale può aprire le porte a una stagione autoritaria peraltro già ampiamente avviata.

p.cirino_pomicino@tiscali.it

 
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« Ultima modifica: Gennaio 05, 2009, 11:16:48 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 10, 2008, 04:37:26 pm »

10/8/2008
 
Il Peronismo dietro l'angolo
 
 
 
 
 
PAOLO CIRINO POMICINO
 
Caro direttore, l’analisi di Emanuele Macaluso di qualche giorno fa sull’attuale quadro politico italiano è largamente condivisibile, così come il suo scetticismo, che riprende quello di Luca Ricolfi, sulla possibilità di un dialogo concreto sul terreno delle riforme istituzionali. A quella analisi, però, vorremmo aggiungere qualche altro tassello che meglio può aiutarci nel riprendere il bandolo di una politica smarrita. Piaccia o no, gli avvenimenti del ’92-’93 hanno avvelenato i pozzi della democrazia italiana e l’hanno sostituita con una liturgia sulla presunta modernità di un bipolarismo da trasformare, anche con la forza, in un bipartitismo anglosassone. Naturalmente senza gli anglosassoni.

Una truffa «culturale» per pure ragioni di potere, dimenticando che l’Italia repubblicana aveva già da quasi 50 anni due grandi partiti di massa, che insieme raccoglievano oltre il 65% degli elettori. Quei due partiti, la Dc e il Pci, si alternavano alla guida degli enti locali (nel 1975 solo Bari e Palermo tra i capoluoghi di Regione non passarono al governo socialcomunista) mentre se ciò non avveniva nel governo nazionale era per esclusiva responsabilità del Pci, la cui proposta politica finiva per essere inaccettabile dalle altre forze democratiche e dalla stragrande maggioranza del Paese. Insomma la democrazia «imperfetta» era frutto della politica e non di un sistema elettorale inadeguato. Chi pensò il contrario o non aveva capito niente o mentiva. La fine del comunismo internazionale, infatti, non innescò in Italia l’auspicabile evoluzione socialista del vecchio Pci che cominciò a ricercare quella terza via di un partito nuovo che andasse oltre la cultura socialista europea, protraendo così quell’anomalia tutta italiana dell’assenza di un partito socialista di massa.

La confusione è sotto gli occhi di tutti. L’affannosa ricerca di quella terza via politicamente inesistente spinse, poi, a cercare nel sistema maggioritario un alibi culturale per poter governare a prescindere dall’identità di ciascuno. E fu il disastro. Fu messo in soffitta il sistema proporzionale, fu introdotta, anche se solo per il 25%, la lista bloccata insieme ai collegi uninominali maggioritari che riducevano pesantemente il costume democratico del Paese perché in almeno il 70% di quei collegi si sapeva fin dall’inizio chi avrebbe vinto e senza alcuna partecipazione del cittadino. E come se non bastasse fu introdotto quel premio di maggioranza che è un vero imbroglio democratico, che non esiste in nessun altro Paese occidentale e che ha un disdicevole precedente nella Legge Acerbo di mussoliniana memoria, per cui da 15 anni i governi, compreso l’ultimo, sono maggioranza in Parlamento ma minoranza nel Paese. Partiti senza più culture politiche di riferimento e con un crescente stampo lideristico hanno trasferito, così, nelle istituzioni quell’autoritarismo che ha raggiunto il limite della tollerabilità con l’abolizione del voto di preferenza e con la «nomina» di deputati e senatori. E già si vedono i contraccolpi anche nella pratica dirigistica dell’ultima azione di governo.

Questa breve descrizione di ciò che è successo in questi 15 anni serve solo per dire che o si riprende il bandolo di una cultura politica e democratica di cui sono stati svuotati partiti e istituzioni o il dialogo sarà solo per piccoli interessi di potere tra gruppi dirigenti sempre più ristretti e sempre più autoreferenziali che non reggerà all’urto dei drammatici problemi di questo Paese. Il compito di invertire la direzione di marcia spetta innanzitutto al Partito Democratico e al cattolicesimo politico che dovranno recuperare nel più breve tempo possibile quel tanto di identità e di democrazia in grado di contagiare il centrodestra nel quale una crescente visione bonapartista sta mettendo a dura prova non solo la Lega Nord ma anche frange di quel partito che ancora non c’è e che pur si chiama Popolo della Libertà. La proposta di Macaluso di eleggere un’assemblea costituente con metodo proporzionale separando l’azione di governo e riforme costituzionali può anche essere utile, ma solo dentro questo schema. Fuori di esso, infatti, e al di là della stessa volontà dei protagonisti c’è solo un sistema peronista che poco o nulla ha a che fare con le democrazie occidentali. E a questo tipo di democrazia seguono sempre il disastro economico e lo sfaldamento della coesione sociale come purtroppo già oggi si comincia drammaticamente a vedere.
p.cirino_pomicino@tiscali.it 


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« Risposta #2 inserito:: Settembre 15, 2008, 04:49:32 pm »

15/9/2008
 
Alitalia, la vera italianità
 
 
 
 
 
PAOLO CIRINO POMICINO
 
Caro direttore,
non sappiamo come si concluderà la vicenda Alitalia, ma quel che è certo è che quella storia non racchiude solo gli interessi di migliaia di lavoratori e del nostro servizio di trasporti aereo ma anche una visione sul ruolo del nostro capitalismo in una economia di mercato. Il Leitmotiv degli ultimi mesi è stato «l’italianità» della nostra compagnia di bandiera. A chi, come noi, negli anni dell’ubriacatura privatizzatrice a tutti i costi sosteneva l’idea che il capitalismo italiano avrebbe dovuto trovare un proprio protagonismo nel più generale riassetto del capitalismo europeo, quell’appello all’italianità è sempre suonato un po’ peloso. Funzionale, cioè, più a una polemica politica contingente che non a una visione strategica di fondo.

Mai come nel trasporto aereo, infatti, l’internazionalizzazione è una condizione essenziale per le grandi economie di scala che determina e per la crescente concorrenza delle compagnie low cost. Un’internazionalizzazione che è qualcosa di più e di diverso degli accordi commerciali. È un’integrazione societaria, capace di ridurre i costi finanziari, industriali e commerciali. Fu questo il motivo per cui ci schierammo con una specifica mozione parlamentare a sostegno della scelta di Air France come partner internazionale. Tentammo invano di spiegare, però, a Tommaso Padoa Schioppa che quella scelta, industrialmente saggia, aveva bisogno di un correttivo.

La proposta Air France era un’Ops (offerta pubblica di scambio) accettando la quale il Tesoro, azionista al 49% di Alitalia, sarebbe diventato un azionista con il 2% della nuova compagnia Air France-Klm-Alitalia. Troppo poco per poter essere accettata. Se si fosse fatto prima un aumento di capitale sottoscritto da soggetti pubblici e/o privati per almeno 1 miliardo di euro l’integrazione con Air France avrebbe portato il nostro capitalismo a essere un azionista del 6-7% nella più grande compagnia aerea del mondo, il cui primo azionista rimaneva lo Stato francese con il 16%. E sarà questa la sponda alla quale si approderà se l’attuale trattativa dovesse concludersi positivamente. La scelta del nuovo governo Berlusconi, infatti, ha spaccato in due quest’idea, correndo però il rischio di avvitarsi. Ha messo sulle spalle dello Stato i vecchi debiti di Alitalia con fornitori e obbligazionisti (la bad company) per offrire alla cordata Colaninno una società libera da gravami finanziari e industriali.

La prima fase, se mai si raggiungesse l’accordo, sarà quella del trionfo dell’italianità garantita «contrattualmente» per almeno cinque anni, ma inevitabilmente, e molto prima di questo tempo, scatterà la seconda fase, quella dell’integrazione societaria con un partner internazionale. Che nessuno possa reggere soltanto sul mercato domestico lo dimostra lo stesso destino di Air One che è il vero «salvato» dalla proposta governativa. «L’italianità» di Alitalia insomma sarà molto più garantita da un ruolo di forte azionista del nostro capitalismo in una compagnia internazionale che non in una società piccola e nazionale. Se la comune responsabilità dovesse prevalere il governo dovrà sostenere, con il proprio peso, l’integrazione societaria della nuova Alitalia con un partner internazionale quale che sia, se non si vuole trovare di qui a qualche anno o dinanzi a un altro disastro o a una precipitosa fuga in tempi brevi di una cordata che annovera tra l’altro il meglio del capitalismo italiano.

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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 11, 2008, 11:06:08 am »

11/12/2008
 
Questione morale arma letale
 
PAOLO CIRINO POMICINO

 
Ancora una volta riemerge il volto ipocrita della famosa questione morale, il principale strumento di lotta politica nelle società moderne in decadenza o non evolute. La denigrazione di un intero movimento politico per colpe di pochi è diventata negli ultimi decenni la più letale tra le armi per abbattere questo o quel partito, questo o quel governo. E quasi sempre la morale c’entra come il cavolo a merenda mentre c’entrano, eccome, una visione autoritaria della società e stringenti logiche di potere. In una democrazia liberale la questione morale attiene alla coscienza e alle responsabilità dei singoli e fossero anche centinaia gli amministratori macchiati da comportamenti illeciti, per altro tutti da verificare, mai potrebbero coinvolgere l’identità, la speranza e l’impegno di milioni di elettori e militanti che si identificano con questa o quella forza politica. Dunque la questione morale collettiva non c’è e quando viene brandita è solo per una resa dei conti o per colpire chi non si riesce ad abbattere con le armi della politica.

Fu Enrico Berlinguer agli inizi degli anni '80 che parlò di questione morale con riferimento ai socialisti nel tentativo di arrestare gli effetti devastanti dell’ineluttabile sgretolamento del comunismo internazionale già all’orizzonte, che rischiava di ricomporre la vecchia scissione di Livorno sotto la guida degli odiati fratelli socialisti. A seguire, la questione morale fu brandita da un noto intreccio di potere agli inizi degli anni ‘90 per abbattere quei quattro partiti che il 5 aprile ‘92 ancora una volta raccolsero il consenso del 51% degli elettori, mai più raggiunto nei successivi quindici anni da nessuna coalizione di governo. In quel tempo due erano le questioni politiche aperte. La prima era il macigno di una cultura ipocrita e perbenista che vedeva in ogni finanziamento alla politica, anche se alla luce del sole, la premessa di uno scambio corruttivo piuttosto che una risposta ad un’esigenza democratica, come avviene nei paesi anglosassoni (vedi le centinaia di milioni di dollari raccolti da Obama). La seconda questione era l’anomalia italiana di un grande Partito Comunista sempre più privo di orizzonti culturali e politici. Non si vollero affrontare quelle due questioni politiche vere ed il gruppo dirigente del Pci, pur continuando a ricevere dall’Italia e dall’estero finanziamenti mai dichiarati, riempì il suo vuoto strategico rifugiandosi nella questione morale. E così fu poi nei riguardi di Berlusconi e del suo movimento politico. La questione morale ritornò ad essere centrale nella lotta politica della sinistra salvo poi rincorrere lo stesso Berlusconi sulla nuova idea di partito leggero, di stampo leaderistico e di una democrazia maggioritaria con inevitabili venature autoritarie. Di qui le contraddizioni di una sinistra che non vuole neanche più definirsi tale e del suo maggiore erede, il Partito democratico.

Oggi sembra arrivato il suo turno e molti sono tentati di aggredirlo con le stesse armi moralistiche, mentre sul tappeto c’è la grande questione politica su cosa sia effettivamente il Pd, quale la sua collocazione internazionale e la sua idea di democrazia. La questione morale in una società democratica non può mai minare un’intera cultura politica o economica. Non lo può per il capitalismo nonostante le degenerazioni che sono sotto gli occhi di tutti, non lo può per i partiti politici e per le loro culture di riferimento. Al contrario, una questione politica può avere risvolti morali quando si aggrediscono, annullandoli, i diritti fondamentali dell’uomo (la libertà, la guerra, la povertà) ma restano al fondo pur sempre questioni politiche e come tali vanno affrontate e risolte. Mai come ora il paese non ha bisogno di rifare i tragici errori del passato e deve respingere con forza l’uso della questione morale come arma impropria della politica che produce quasi sempre macerie istituzionali e approdi autoritari e populistici.

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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 31, 2008, 12:19:52 pm »

31/12/2008
 
Una strada per salvarci dai debiti
 
 
 
 
 
PAOLO CIRINO POMICINO
 
La gara tra ottimisti e catastrofisti non ci appassiona perché senza volerlo il discorso sulla crisi economica italiana viene fuorviato. Una crisi finanziaria internazionale ha innescato una crisi dell’economia reale che interessa tutti i Paesi, anche quelli emergenti che ci avevano abituati a tassi di crescita annuali tra l’8% e il 10%. È il mondo in crisi. La gente ha meno soldi per consumare, le imprese producono sempre meno, gli Stati hanno meno soldi per le opere pubbliche e sono oppressi da richieste di più forti ammortizzatori sociali. Questo stato di cose è figlio d’una cultura scellerata che ha confuso l’economia di mercato con una grande prateria dove si può cacciare di tutto e senza alcuna regola. Con grande ritardo i governi ne hanno preso atto e tentano di porvi rimedio con interventi per dimensioni e qualità senza precedenti secondo la naturale scaletta che vede in fila il sistema del credito, quello delle imprese, le opere pubbliche, le famiglie.

L’Italia ha chiara la scaletta degl’interventi ma si è fermata a interventi piccoli ancorché utilissimi. La social card di 40 euro mensili, l’estensione a molti lavoratori, precari compresi, degli ammortizzatori sociali, bonus una tantum per famiglie bisognose e tante altre piccole misure, sono un insieme di provvedimenti che danno sollievo alle fasce più deboli ma non sono quella manovra anticiclica che la situazione richiederebbe. Negli ambienti dell’economia si dice che il macigno del debito pubblico ce lo impedisce. Bisogna smettere con l’alibi del debito del passato perché governi di colore diverso hanno avuto ben 17 anni (un’era geologica in politica) per ridurlo e invece è cresciuto rispetto al 1991. Se un Paese non cresce aumenta il proprio disavanzo annuale e il debito. In questi 17 anni la guida dell’economia italiana è stata posta sempre nelle mani di tecnici e professori e l’Italia è scesa all’ultimo posto in Europa per debito accumulato e per tasso di crescita. Se aspettando la ripresa internazionale riuscissimo a ottenere almeno uno dei due obiettivi, quello del risanamento dei conti pubblici, noi apprezzeremmo convinti l’inazione di Tremonti. Purtroppo accade il contrario. Non investiamo perché abbiamo il debito pubblico, l’economia va in recessione in maniera ancora più grave (per il 2009 rischiamo di raggiungere il meno 2), le entrate tributarie crollano più delle spese tagliate, il disavanzo aumenta e con esso il debito.

Come si vede recessione e disavanzo vanno di pari passo. Nel 2008 in ogni trimestre è sceso il Pil e aumentato il disavanzo che si attesterà intorno al 3% a fine anno (nel 2007 era 1,9%) e nel 2009 sarà al 3,5%. Chiunque abbia sale in zucca, dovrebbe scegliere una strada diversa, quella d’incominciare a crescere investendo in quella scaletta prima descritta (sistema creditizio, imprese, opere pubbliche, famiglie) per invertire il ciclo e avviare così anche il risanamento della finanza pubblica. Giustamente Tremonti non vuole ulteriormente indebitarsi ma una strada ce l’ha e non può non conoscerla. Vendiamo alla Cassa depositi e prestiti, che ha cento miliardi di liquidità, e ad enti previdenziali privati (notai, commercianti, medici, giornalisti) immobili utilizzati dallo Stato per almeno 15 miliardi di euro offrendo rendimenti di mercato (tra 5,5% e 6%). Immettiamo questi 15 miliardi, che non aumentano il debito pubblico, nell’economia reale secondo un saggio equilibrio tra imprese, famiglie, opere pubbliche e vedrete come l’Italia ricomincerà a crescere con un circuito sempre più virtuoso capace di raggiungere quanto prima il pareggio di bilancio. Diversamente aspetteremo attoniti il Godot della ripresa internazionale e quando essa arriverà non saremo in condizioni che di prendere solo un pezzetto di coda perché in 15 anni il Paese non ha saputo affrontare quei nodi strutturali che ancora lo strozzano e che l’hanno sempre più relegato tra gli ultimi in Europa. L’Italia ha ancora benzina da utilizzare come lo scarso indebitamento delle famiglie e un buon risparmio nazionale. Restare fermi è da suicidi a meno che non si voglia drammatizzare fino all’estremo una situazione già difficile per un’operazione politica di unità nazionale che non riuscirebbe e che sarebbe pertanto rovinosa.

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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 28, 2009, 03:16:30 pm »

28/1/2009
 
La scommessa dei titoli pubblici
 
PAOLO CIRINO POMICINO
 

Gira per i palazzi del governo lo spauracchio di una mancata sottoscrizione di qualche asta di titoli di Stato. Nel 2009 l’Italia dovrà rinnovare circa 200 miliardi di euro di titoli di Stato che vengono a scadenza: il 13-14% dello stock del debito e che giustamente desta preoccupazione al ministero dell’Economia anche perché il mercato obbligazionario 2009 sarà molto affollato. Tutti i governi europei emetteranno bond per centinaia e centinaia di miliardi di euro per far fronte alla recessione internazionale. Altre decine e decine di miliardi saranno emesse da emittenti private a cominciare dalle grandi banche per far fronte alla crisi di liquidità. La ricchezza finanziaria privata è ancora in grado di soddisfare l’offerta dei titoli del debito pubblico anche perché impieghi alternativi e sicuri come i titoli di Stato dei vari Paesi non ve ne sono molti. Anzi nessuno. La crisi delle Borse sta allontanando sempre più piccoli e grandi risparmiatori che puntano ad avere sicurezza nella tutela del proprio capitale. L’affollamento dei mercati obbligazionari si limiterà a una più forte competitività tra gli emittenti, Stati o privati, con un naturale aggravio dei costi del servizio del debito pubblico. Specie per Paesi come l’Italia, afflitta da un debito pubblico che da 17 anni i vari governi non sono riusciti a contenere nonostante gridassero contro gli Anni 80 nei quali Pantalone pagò la sconfitta dell’inflazione a due cifre e il terrorismo brigatista.

L’attuale affanno del ministero è comprensibile, ma non può rinviare troppo una manovra di sostegno all’economia più forte dei provvedimenti approvati. L’immobilismo crea ulteriore disavanzo e accresce lo stock del debito. Sei mesi fa da queste colonne lanciammo l’allarme spiegando come la manovra triennale di giugno avrebbe accentuato recessione e disavanzo. È quello che è avvenuto e continuerà ad avvenire se non si volta pagina. L’Italia è stato l’unico Paese dell’eurozona a chiudere il 2008 con una crescita negativa di 0,5-0,6 e nel 2009, secondo stime prudenti di Bankitalia, arriveremo a un Pil negativo del 2%. Nel frattempo il disavanzo del 2008 è cresciuto di quasi un punto solo perché si nasconde il debito sommerso delle pubbliche amministrazioni centrali e periferiche che non pagano più i fornitori, mentre quello del 2009 supererà i 3,5 punti di Pil con un aumento del debito di quasi 50 miliardi di euro. Il rapporto debito/Pil arriverà al 110% a fronte del 104,1 alla fine del 2007.

È forse questo il quadro economico e finanziario che può lenire l’affanno del governo, o è piuttosto la scorciatoia per drammatizzare lo scenario politico del Paese? Non c’è bisogno di essere un Nobel per sapere che un Paese che vede aumentare a un tempo deficit, debito e recessione non avrà alcun appeal sui mercati finanziari. Sappiamo bene che l’uscita dal tunnel della recessione è in larga parte legata a un diverso ciclo economico internazionale. Sappiamo, però, bene che una specificità tutta italiana da 15 anni ha fatto del Paese la cenerentola d’Europa per tasso di crescita, e che va assolutamente rimossa con una politica fiscale e d’investimenti diversa dal passato. L’aumento dei fondi per gli ammortizzatori sociali è sacrosanto, ma è spesa corrente assistenziale che tutto farà tranne che sollecitare sviluppo e crescita per sostenere i quali le risorse possono essere trovate senza aggravare i conti dello Stato. Il tempo è poco e se non si interviene con rapidità saremo travolti a primavera da uno tsunami recessivo che metterà a rischio la coesione sociale del Paese il cui governo non ha alternativa.

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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 24, 2009, 11:20:41 am »

24/2/2009
 
Portiamo Lampedusa in Libia
 
PAOLO CIRINO POMICINO
 

La rivolta dei clandestini ammassati nel centro di Lampedusa è un’ennesima occasione per accuse reciproche tra centro-destra e centro-sinistra. Un’infinita e drammatica telenovela iniziata con la Bossi-Fini criticata dagli uni ed esaltata dagli altri.Eintanto il numero dei clandestini che sbarcano aumenta. Ognuno quando è all’opposizione promette ciò che una volta al governo non sembra essere in condizione di mantenere. Ciò che si stenta a comprendere in questa lunga stagione politica è che ci sono problemi difficili da affrontare e da risolvere per chiunque sia al governo. Il rinfacciarsi responsabilità non serve se non a nascondere ciò che si poteva fare e non è stato fatto. Va insommariscoperta una più forte cultura di governo.

Ma torniamo ai clandestini e ai continui sbarchi a Lampedusa. Questi barconi partono dalle coste di Tunisia e Libia. Con quei paesi bisogna stringere intese forti di tipo nuovo. Dopo anni di accordi, risultati poi quasi sempre inutili, bisogna chiedere a Libia e Tunisia la costruzione e il mantenimento di alcuni centri di accoglienza nel proprio territorio. Questo consentirebbe di trasferire ad horas chi sbarca sulle coste italiane nei centri tunisini e libici, il cui finanziamento per il personale, il vitto, la manutenzione e tutto ciò che occorre sarebbe a totale carico nostro. Saranno le autorità di quei paesi a rimpatriare i clandestini una volta accertatene la provenienza. Un’operazione che costa come costa il mantenimento dei nostri centri di Lampedusa e quelli sparsi nel resto del territorio italiano.

Un accordo di questo genere, però, non potrà bastare alla Tunisia e alla Libia che chiederanno qualcosa in più. Che dev’essere uno o più centri di addestramento professionale per garantire, in maniera privilegiata, a centinaia di libici e tunisini un ingresso legale con una possibilità di rapida occupazione. Se riuscissimo in questa intesa a far partecipare in parte anche l’Unione europea, potremmo garantire un flusso immigratorio legale per migliaia di libici e tunisini. Non sfugge a nessuno che da un lato l’immediato rimpatrio di clandestini sbarcati in Italia nei centri libici e tunisini e dall’altro un flusso ordinato e legale attraverso uno o più centri di formazione professionale non renderebbe più conveniente il crimine della clandestinità. Conosciamo bene gli arabi e la loro capacità negoziale per cui se a questa reciproca convenienza dovrà essere aggiunto qualcosa, nessuno si tirerà indietro.

L’idea di un pattugliamento congiunto delle coste lascia il tempo che trova perché è più nella logica repressiva che sinora non ha portato a nulla piuttosto che nella direzione di fare emergere congiunte convenienze per risolvere il problema. I ministri dell’Interno e degli Esteri hanno tutti gli strumenti per portare a casa un accordo di questo genere, sanando una ferita nella quale si mescolano problemi di sicurezza, di solidarietà, di lavoro e di accoglienza che insieme costituiscono una miscela esplosiva che spinge le forze politiche a urlare, accusandosi reciprocamente. L’immigrazione clandestina nasce da un crimine e sull’onda di quel crimine diffonde insicurezze d’ogni tipo. Va estirpata per difendere innanzitutto quei disperati che cercano solo di sopravvivere sognando un lavoro in una società più giusta. La direzione indicata da noi coniuga diritti e doveri degli individui e degli Stati, offrendo a ciascuno una convenienza e un obbligo.

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« Risposta #7 inserito:: Marzo 21, 2009, 11:51:02 am »

21/3/2009
 
Le banche tra bond e dispetti
 
PAOLO CIRINO POMICINO
 
Il rischio maggiore in una crisi economica e finanziaria di così vasta portata come quella che stiamo vivendo è la mancata collaborazione tra le istituzioni. Ed è quello che purtroppo sta avvenendo in Italia. Andiamo con ordine. L’obiettivo di ricapitalizzare le banche per evitare crisi di liquidità e restrizioni del credito è possibile raggiungerlo in mille modi diversi, ma sarà difficile farlo con i bond sottoscritti dal governo (i cosiddetti Tremonti-bond) il cui costo per le banche parte dall’8,5% e arriva in qualche caso fino al 15% annuo. A quali tassi le banche dovrebbero poi finanziare le imprese visto che il costo dell’approvvigionamento è quasi da usura? Forse sarebbe meglio che le obbligazioni emesse dalle banche con una cedola intorno al 5-6% venissero offerte al mercato limitando l’intervento dello Stato alla garanzia del capitale investito per questa speciale sottoscrizione di obbligazioni che concorrerebbero, per la loro specificità, ad aumentare la patrimonializzazione degli istituti di credito (il famoso core tier 1).

Lo Stato risparmierebbe, le banche pagherebbero meno la raccolta di nuove risorse, i risparmiatori sarebbero felici. Ma c’è ancora un altro modo per aiutare le banche senza le quali tutta l’industria va a picco. Se nessuno, giustamente, trova scandaloso che un fondo sovrano libico sottoscriva quasi il 5% di Unicredit apportando così risorse fresche all’istituto di Piazza Cordusio, perché sarebbe pericoloso l’ingresso in alcune banche di un soggetto pubblico, ad esempio la Cassa depositi e prestiti che ha per legge una raccolta a tassi vantaggiosi del risparmio postale, per un periodo di 3-5 anni e quindi con un put obbligatorio? Come si vede vi sono diverse modalità per sostenere il nostro sistema bancario certamente meno disastrato degli altri. L’uso dei Tremonti-bond a quei prezzi ci sembra il meno utile per tutti. A meno che non si voglia, nei momenti di difficoltà, trasferire risorse dalle banche allo Stato come avverrebbe con quei tassi d’interesse sproporzionati. In questo caso, però, ci troveremmo dinanzi ad una precisa scelta politica che non ha né testa né coda e che non vogliamo neanche aggettivare.

Altra questione sul tappeto è il mantenimento del flusso del credito alle imprese. Obiettivo giusto, naturalmente, ma che non può prescindere da quel giudizio di merito creditizio che appartiene esclusivamente alle banche. Nessuno ama le banche, ma immaginare che ci possa essere qualcuno o qualcosa che si sostituisca ad esse nella decisione del credito non è un rigurgito statalista del ventennio, è solo una sciocchezza. Alla stessa maniera, se è giusto il controllo sugli intermediari finanziari (banche, assicurazioni, società finanziarie), abbiamo Bankitalia e Isvap che hanno le professionalità adeguate sia a livello centrale che periferico per svolgere questo compito in maniera egregia. Ed entrambi fanno parte, insieme con la Consob, di quel comitato del credito presieduto dal ministro dell’Economia che ha tutti gli strumenti per sollecitare direttive, vincoli e sanzioni proprio attraverso le autorità di controllo. Non suoni offesa per nessuno, ma immaginare che i prefetti possano sostituirsi a Bankitalia e all’Isvap per il controllo delle erogazioni del credito (e presumiamo delle polizze) ci sembra più l’espressione di un «dispetto», o se volete di un contrasto, tra le istituzioni che non una scelta saggia nell’interesse del Paese. Ritornare sui propri passi è sempre difficile, ma è proprio lì che si misurano gli statisti. In tempi di crisi così gravi la collaborazione delle istituzioni è un imperativo categorico ed è il presidente del Consiglio, nell’autorevolezza della sua funzione, a doverla innanzitutto garantire.
p.cirino_pomicino@tiscali.it

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« Risposta #8 inserito:: Novembre 01, 2009, 10:29:05 pm »

La lettera

L’alta velocità e i partiti del passato


Caro direttore,

Non può che riempirci di soddisfazione la prossima conclusione del percorso dell’alta velocità che partendo da Roma ci farà raggiungere Milano in poco meno di tre ore. Lo diciamo senza sciocca sicumera ma ricordando che da ministro del Bilancio del governo Andreotti, insieme al compianto Guido Carli ministro del Tesoro e a Rino Formica ministro delle Finanze, finanziammo, con non poco contrasto, quest’opera di ammodernamento delle nostre ferrovie.

In poco meno di due anni dall’avvio dell’iniziativa arrivammo alla fine del 1991 a firmare i contratti con i “ general contractors” ( Iri, Eni, Fiat). Uno degli artefici di questa fondamentale conquista fu Lorenzo Necci sulla cui misteriosa morte ( in verità poco misteriosa) nessuno ha voluto indagare. Necci fu accompagnato in questa vicenda da un grande funzionario pubblico, l’Ing. Ercole Incalza. Erano gli anni in cui ci veniva detto da alcuni autorevoli politici che poi arrivarono al governo dopo il 1992 che l’opera era costosa e inutile. Superammo le difficoltà di questi amici e di molti tecnici mentre la coppia Necci- Incalza resistette anche quando il nostro governo non c’era più. Oggi tutta Europa ha puntato e punta ancora sull’alta velocità nel mentre noi, per quelle strumentali resistenze che altro non erano che lotte di potere, abbiamo perso molti anni a cincischiare.

Sappiamo bene che la sola alta velocità non modernizza il sistema di trasporto su ferro in Italia ma lo sciagurato abbandono della “manutenzione” del Paese a partire dal 1994 conseguente alla riduzione della spesa in conto capitale passata dal 3,2% del Pil del 1990 al 2,1% dal ’95 in poi, si è spalmata su tutti i settori, ferrovie comprese. E come ci dimostrano i dati della Banca d’Italia, dopo 15 anni il Paese è in uno stato di abbandono mai visto prima nel mentre quel debito che puntualmente ci viene messo sulle spalle è aumentato ad oggi di 12 punti ( dal 98% del ’91 al 115% di quest’anno) nonostante 15 anni di manovre finanziarie, 160 miliardi di ricavi per la vendita di aziende pubbliche e tre punti in più della pressione fiscale. A quell’epoca, in verità, c’erano i partiti con un folto gruppo dirigente e non solo i leader carismatici e la società di quel tempo non veniva continuamente sondata a mò della matrigna di Biancaneve ( dimmi, dimmi specchio delle mie brame…) ma governata. Bene o male lo dirà ciascuno in piena libertà ma certamente il Paese non veniva lasciato a se stesso. Non è nostalgia ma solo il riconoscimento dello sforzo e della tenacia di uomini come Necci ed Incalza primi fra molti, e della necessaria lungimiranza che un governo di un grande Paese deve sempre avere anche quando ciò che fa non riscuote un consenso popolare.

La visione mediatica della politica, infatti, è la sua decadenza ed ecco perchè oggi nelle nostre orecchie risuona ossessivo il grido ciceroniano, quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?

Paolo Cirino Pomicino
01 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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