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« inserito:: Settembre 07, 2008, 10:33:47 am » |
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Paolo Conte: «Sotto le stelle del jazz oggi c'è il gelo»
Silvia Boschiero
È uno spazio rutilante di personaggi, avventure, romanticismi e luoghi immaginari. È un quadro dalle tinte forti, niente pastelli. Stavolta Paolo Conte ha steso le tempere con mano pesante, ha usato i colori primari, incendiandoli in una tela che porta il nome di "Psiche", il suo nuovo disco di inediti in uscita internazionale il 19 settembre. È a Parigi per presentarlo, in una piovosa giornata che anticipa sorprendentemente l'autunno, a un passo dall'Arco di Trionfo e dalla sala Pleyel, che lo attende per l'anteprima dell'album; la prima parte con la band, aperta da "Hemingway" e il brano più pop del cd "Il cerchio", e la seconda, avviata da "Psiche" e il classico "Dancing", accompagnato dall'Orchestre National Ile-de-France diretta da Bruno Fontane. «Fanno sempre le cose in grande qui. Però l'esperimento può essere ripetibile anche altrove, a patto che si trovino spazi adatti», sorride sornione. Intanto sarà in tour in Italia (14-19 ottobre allo Smeraldo di Milano, 18-23 novembre al Sistina di Roma).
"Psiche" è l'ennesimo viaggio immaginifico del nostro Kipling della canzone d'autore. È popolato di un'umanità varia: pellerossa, trasformiste slave del circo, casanova, lampade arabe, donne misteriose inseguite o che fuggono sinuose. E soprattutto c'è musica e arrangiamenti che non ci aspettavamo: poco, pochissimo jazz, e un nuovo esperimento con l'elettronica.
Ci sorprende signor Conte... «È stata una scoperta tardiva la mia, devo ammetterlo. Mentre tanti lo facevano molto tempo fa, ero scettico. Ora invece anche nella gomma ho trovato qualcosa di poetico e mi sono buttato con spensieratezza nei suoni sintetici, neutri, artificiali».
Lei mette da parte il jazz in un momento in cui in Italia questo genere vive una grande rinascita. Lei lo ascolta? «No, anche perché mi sto interrogando se questo di cui parliamo sia jazz o meno. Il jazz che amo non è quello che sento oggi. Sicuramente sono migliorate le condizioni organizzative (ai miei tempi si cercava disperatamente una cantina per suonare davanti a quattro gatti), sicuramente ci sono degli ottimi strumentisti, molti dei quali vengono dal Conservatorio (ai miei tempi invece eravamo tutti dilettanti), così come si sono sviluppati questi festival cosiddetti di jazz che poi stanno in piedi grazie a qualcos'altro. Ma... è finito qualcosa, lo spirito con cui il jazz è partito. È come se si fosse voluto combatterlo, combattere il suo romanticismo fino a farlo diventare freddo, gelato e con un vizio. Quello di voler affermare continuamente se stesso».
Venerdì esce il cd «Conte plays jazz» che ripesca le sue scorribande nel jazz da ragazzo assieme anche a Bruno Lauzi. Che jazz facevate? «Di che disco parla? Ah, non ne ero al corrente! Queste case discografiche hanno sempre qualcosa da tirar fuori al momento giusto! Comunque non è che facessimo jazz. Lui in una session registrò degli standard e mi chiamò a suonare il vibrafono. Era molto tempo fa»
Perché «Psiche»? «Psiche come interiorità del nostro pensiero. Nella canzone omonima, quasi tutta strumentale, ho cercato di immaginare la psiche che illumina la mia scrittura, difatti l'ho paragonata ad una lampada araba. Araba perché mi riferisco all'influenza di grandi pensatori come Averroè ed Avicenna».
C'è una regia, un canovaccio dietro alle storie e ai personaggi? «No, sono un compositore vecchia maniera, non studio nulla a tavolino, non faccio strategie. Poi però, stranamente, i personaggi che disegno finiscono per imparentarsi senza che me ne sia accorto. Il fatto è che tutte le mie canzoni sono una sorta di affreschi pittorici, sono immagini...»
Come sempre nei suoi dischi, non c'è aderenza esplicita con l'oggi, il presente. Del futuro invece non parla mai? «Credo che noi artisti siamo già proiettati per nostra natura nel futuro. Ma non credo sia necessariamente una qualità. Anzi, talvolta può essere sbagliato arrivare un attimo prima».
In Italia ai cantautori (a patto che possa chiamarli così) non si perdona mai la «non-appartenenza» politica. A lei sì. Come lo spiega? «Ce ne ho messo a convincerli... Alla fine hanno capito che ero in buona fede, che ciò che mi interessa è il rispetto per l'arte. L'arte non va accesa con altre fiamme, perché l'arte stessa in modo invisibile già comunica i suoi significati».
Nell'album ci sono canzoni d'amore spassionato (come l'intensissima «L'amore che», scelta per la scaletta del concerto sinfonico) o l'enigmatica e altisonante «Leggenda e popolo». Sembra che lei, signor Conte, abbia perduto qualche inibizione... «È vero, stavolta mi sono lasciato andare. Mi son detto: perché contenermi sempre? Ed ecco ad esempio "Leggenda e popolo", un pezzo sulla donna, o sulla madonna, o sulla patria, non so, ma sicuramente un pezzo esagerato, così come è esagerato il romanticismo di "L'amore che.."»
C'è anche un brano dal titolo «Danza della vanità». Conte, lei è vanitoso? «Non lo escludo. Ogni tanto una bella cravatta o un buon profumo me li concedo. Ma è per sedurre me stesso, allo specchio».
Pubblicato il: 06.09.08 Modificato il: 06.09.08 alle ore 9.19 © l'Unità.
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