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Autore Discussione: Nella "Morte a Venezia" di Mann il virtuosismo dell’introspezione  (Letto 4285 volte)
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« inserito:: Agosto 13, 2008, 10:54:27 am »

13/8/2008 (7:45) - UN CLASSICO IN 100 RIGHE

L'eros al tempo del colera
 
Nella "Morte a Venezia" di Mann il virtuosismo dell’introspezione


GIAN ENRICO RUSCONI


Un attempato scrittore di successo tedesco, Gustav von Aschenbach, a Venezia perde la testa per un adolescente aristocratico di nome Tadzio, in una afosa estate dell’inizio del secolo scorso. La morte a Venezia di Thomas Mann racconta questa storia fatta di emozioni, fantasie, divagazioni biografiche e filosofiche; attese, ammiccamenti, ansie che alla fine travolgono lo scrittore-protagonista sino all’improvvisa morte al Lido.
La morte come autodissoluzione? O come culmine del riscoperto nesso intimo tra eros e thanatos?

Che senso ha (ri)leggere oggi un libro come La morte a Venezia, in questa nostra stagione di volgarità esibita e di frenesia mediatica? Non si rischia di declassare una sofisticata costruzione letteraria a una semplice storia di omoerotismo o di innamoramento omosessuale? Che sfiora la pedofilia?

In effetti il racconto merita un’operazione di disincantata rilettura intellettuale, «di testa», prima ancora che un coinvolgimento emotivo. Senza perdere con questo il piacere di una scrittura lussureggiante, strabordante, ma anche tortuosa, ossessivamente introspettiva. Alla nostra sensibilità può apparire qua e là persino esagerata nella sua enfasi. In taluni passaggi la nostra timidezza di fronte ad un conclamato «classico» della letteratura mondiale non ci trattiene dal sorridere - forse anche a motivo di traduzioni diventate obsolete.

La morte a Venezia è un romanzo dell’eros. Ma lo scatenamento delle fantasie erotiche che descrive ci appare assolutamente pudico rispetto all’esibizione senza mediazioni, che ci offre molta letteratura odierna. Non è una storia di sesso, ma un’ansiosa ricerca di bellezza. La bellezza di un corpo efebico di contro ad un corpo senile vissuto con ripugnanza. La bellezza (maschile) segue lo stereotipo del mito classico. «Il volto pallido e gentilmente assorto, di Tadzio, incorniciato dai capelli biondo miele, la linea schietta del naso, la vezzosa bocca, l’espressione soave e divina di gravità, ricordavano le sculture greche dell'epoca aurea».

Di contro la reazione di Aschenbach, quando l’adolescente gli sorride, è di panico. Quando sussurra «ti amo», «lascia cadere le braccia, riverso, sopraffatto, assalito da ricorrenti brividi. Era la formula stereotipa del desiderio: assurda in quel caso, grottesca, turpe, ridicola e tuttavia sacra e venerabile».

Nel racconto è esplicito il modello della bellezza e dell’amore della classicità greca. Al punto culminante della vicenda è evocato Socrate, maestro di bellezza, di virtù, di verità, ma anche «scaltro corteggiatore» che a Fedro dice: «l’amante è più divino dell’amato perché dio è nel primo, non nel secondo».

Il narratore sente il bisogno di interpolare la frase di Socrate con la precisazione che questo «è forse il pensiero più dolce e canzonatorio che mai sia stato pensato, traboccante di tutta l’astuzia, dell’arcana voluttà del desiderio» Sullo sfondo c'è Venezia che è molto di più del palcoscenico su cui si dipana la vicenda. È la co-protagonista, o la metafora dell’intera vicenda. Alla città lagunare «regale e pitocca» il racconto riserva pagine penetranti e cattive. «Bellezza adescatrice ed equivoca: città di fiaba e trappola per forestieri, aura viziata che un giorno aveva permesso all’arte di fiorire opulenta e che ai musicisti ispirava morbide melodie di voluttuosa ninna-nanna». Ma ora il morbo che la minaccia (il colera) esaspera i suoi tratti negativi: «un certo rilassamento di costumi negli infimi strati della cittadinanza, un rigoglio di istinti tenebrosi e antisociali che si traduceva in licenza, in inverecondia e in aumentata criminalità». È evidente la ripresa dell’antico motivo letterario della «peste» come evento morboso che scatena gli istinti peggiori dell’umanità. Ma qui è aggiornato con tipici temi veneziani. Le gondole (il mezzo turistico per eccellenza, un po’ kitsch) sono «nere come nere al mondo sono soltanto le bare; lo strano segno evoca alla nostra mente tacite, delittuose avventure nel mormorio notturno delle acque; e soprattutto evoca la morte stessa, il feretro, il corteo nero, il silenzio dell'ultimo viaggio».

Nella fase culminante e finale della vicenda ritorna il dialogo tra Socrate e Fedro. E disvela la chiave di lettura dell'esperienza dello scrittore-intellettuale protagonista. «Tu credi forse che chi allo spirito si avvia attraverso il dominio dei sensi riuscirà a conquistare saggezza e autentica dignità dell’uomo? Noi poeti non possiamo percorrere la via della bellezza senza trovarvi eros che ben presto ci impone la sua guida. Noi possiamo anche, a modo nostro, essere eroi e disciplinati guerrieri, ma la passione è ciò che ci esalta perché soltanto all'amore c'è dato aspirare».

Insomma dentro al dramma della passione erotica di Aschenbach ne La morte a Venezia si consuma in realtà il dramma della «vocazione artistica» come tale, con il suo «primordiale inviluppo di disciplina e sregolatezza».

È così che dietro al protagonista Aschenbach, artista in preda ad una mortale passione liberatrice, si sente l’autore stesso del romanzo, Thomas Mann. Con un istrionesco paradosso. Lo scrittore superprofessionale, che ha costruito con grande disciplina e metodo la sua immensa produzione letteraria ci vuol far credere che soltanto l’abbandono alla passione erotica ci salverà. Proprio lui che la passione l’analizza accanitamente, la viviseziona, l’inventa.

È il paradosso de La morte a Venezia: l’eros quale risultato di un tormentato processo autoriflessivo, che soltanto un sofisticato professionista dell’introspezione come Thomas Mann poteva ottenere.


da lastampa.it
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