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Autore Discussione: Walden Bello. Lo Tsnumani di Wall Street  (Letto 2786 volte)
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« inserito:: Ottobre 03, 2008, 03:20:47 pm »

Lo Tsnumani di Wall Street

Walden Bello


Molti asiatici recepiscono quanto sta accadendo a Wall Street con un misto di déjà vu, scetticismo e «te l’avevo detto». Per molti la crisi negli Usa è una replica, sia pure su scala molto più grande, della crisi finanziaria asiatica del 1997 che mise al tappeto le economie «calde» delle tigri dell’Est.
La traumatica assenza di regole a Wall Street fa tornare in mente tristi ricordi.

Come l’eliminazione delle misure di controllo sui capitali da parte dei governi asiatici messi sotto pressione dal Fondo Monetario Internazionale e dal ministero del Tesoro degi Stati Uniti. L’iniziativa scatenò uno tsunami di capitali speculativi sui mercati asiatici che svanirono quando i prezzi altissimi della terra e dei titoli cominciarono a diminuire.

La gigantesca operazione di salvataggio dei malridotti titani di Wall Street ad opera del ministro del Tesoro Paulson, ricorda alla gente dell’est i miliardi che il Fondo Monetario Internazionale pretese con il pretesto di aiutare gli asiatici - denaro che fu invece utilizzato per salvare gli investitori stranieri.

Pertanto i governi e gli operatori finanziari asiatici sono scettici sulle intenzioni di Washington di regolamentare il settore finanziario e, sebbene le loro banche centrali e i loro “sovereign wealth funds” abbondino di liquidità, temono di essere risucchiati dal vortice di Wall Street. Tra i fondi ufficiali dell’Asia, solo il Temasek di Singapore e la China Investment Corporation hanno immesso liquidità sui mercati. Temasek ha investito oltre quattro miliardi di dollari nella Merryll Lynch alcuni mesi fa, ma solo dopo una dura trattativa. La China Investment Corporation ha investito cinque miliardi di dollari nella Morgan Stanley lo scorso dicembre, ma ha respinto la recente, disperata richiesta della banca di investimenti di incrementare la sua partecipazione azionaria. Vista sulle prime come potenziale salvatrice, la Korean Development Bank ha respinto le aperture della Lehman Brothers una settimana prima dello storico fallimento della banca americana.

Migliaia di miliardi di dollari di denaro pubblico e privato asiatico vengono investiti in società e proprietà americane tanto che i cinque principali investitori asiatici detengono la metà del debito estero americano. I fondi asiatici sono diventati un propellente chiave della spesa pubblica americana e dei consumi del ceto medio degli Stati Uniti che sono dventati il motore dell’economia americana. Considerato che gran parte della ricchezza asiatica poggia sulla stabilità dell’economia americana, non è il caso di prevedere una fuga precipitosa e affrettata dai titoli di Wall Street e dalle obbligazioni del Tesoro americano.
Sul fronte interno, tuttavia, crescono le preoccupazioni e le organizzazioni dei consumatori, le Ong e gli studiosi chiedono maggiore trasparenza in ordine all’esposione del sistema bancario locale nei confronti dei pericolosi titoli di Wall Street. Nelle Filippine alcune associazioni di cittadini chiedono la mesa al bando dei derivati, il ritorno alle misure di controllo dei capitali e la rinegoziazione dell’enorme debito estero ora che le banche internazionali sono in una posizione di debolezza.

C’è inoltre in tutta l’Asia rassegnazione sulla inevitabilità di una grave recessione negli Stati Uniti e sulle sue conseguenze sull’Asia: gli Stati Uniti sono il primo destinatario delle esportazioni cinesi, mentre la Cina importa materie prime e semilavorati da Giappone, Corea, sud-est asiatico e li trasforma in prodotti finiti per il mercato americano. Sebbene qualche mese fa si sia parlato della possibilità di sganciare l’economia asiatica da quella degli Stati Uniti, secondo la maggior parte degli osservatori queste economie sono tutte anelli di una stessa catena, quanto meno sul breve e medio periodo.

Una maggiore integrazione regionale è considerata da più parti un efficiente antidoto conro l’integrazione globale che è sfuggita di mano. Alcuni elementi di cooperazione economica regionale già sono operativi, in particolare la cosiddetta «Asean Plus Three» che unisce l’Associazione delle Nazioni del sud-est Asiatico a Cina, Corea e Giappone attraverso un meccanismo che facilita gli scambi bilaterali di fondi in caso di crisi finanziaria. Non è escluso che da questo possa nascere un vero e proprio fondo monetario regionale.

D’altro canto Ong e movimenti sociali, pur favorevoli all’integrazione, non si fidano di un processo monopolizzato dalle elite di governo che considerano inaffidabili. La partecipazione attiva della società civile - insistono - deve svolgere un ruolo centrale nella creazione di queste associazioni.


Walden Bello è professore di sociologia presso l’università delle Filippine
© The Nation, 2008
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto



Pubblicato il: 03.10.08
Modificato il: 03.10.08 alle ore 8.28   
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 03, 2008, 06:04:26 pm »

SALVATAGGI

La Ue non segua il modello Usa

Gli stati entrino nel capitale delle banche


Non è giusto usare i soldi dei contribuenti per salvare le banche che hanno fatto lauti profitti in passato e banchieri che hanno ricevuto bonus milionari. Questo argomento, che ha spinto l'Amministrazione Bush a lasciar fallire la Lehman Brothers ai primi di settembre e poi molti membri del Congresso Usa a votare contro la prima versione del piano di salvataggio del sistema bancario americano, sembra non fare una piega.

Eppure è sbagliato.

Diversamente da qualsiasi altra azienda, quando fallisce una banca ci rimettono non solo gli azionisti, i dipendenti e i manager, ma anche i clienti e le altre banche che hanno prestato a quella banca. Si produce così un effetto di contagio al resto del sistema finanziario, tanto più forte quanto più importante è la banca che fallisce.

In una situazione di incertezza come quella che stiamo attraversando, il timore che possa fallire una banca, anche di dimensioni non sistemiche, rischia di scalfire la fiducia e di indurre i depositanti a ritirare i loro risparmi, anche se ciò non è giustificato dalla situazione patrimoniale del sistema finanziario. Le stesse banche perdono fiducia l'una nell'altra e non si prestano più a vicenda. Non c'è più mercato. D'altra parte, chi ha guadagnato speculando al ribasso contro una banca che è fallita si mette ad attaccare altre banche, in una sequenza simile a quella dei dieci piccoli indiani di Agata Christie.

Il fallimento di una banca innesca un effetto domino che colpisce tutto il sistema finanziario e l'intera economia. A quel punto l'intervento di politica economica per evitare contraccolpi sull'economia reale diventa molto gravoso per i contribuenti. È quello che è successo negli Stati Uniti dove, poche ore dopo il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers l'ondata delle vendite ha cominciato a colpire altre banche e assicurazioni e l'Amministrazione statunitense ha dovuto cambiare impostazione e accettare di finanziare il salvataggio della compagnia di assicurazione AIG. Per arrestare la crisi di fiducia è stato necessario predisporre un piano di intervento pubblico di ben 700 miliardi di dollari. La prima bocciatura del piano da parte del Congresso americano ha a sua volta provocato il panico, che ha determinato una sua revisione e approvazione pochi giorni dopo.

La lezione da trarre dagli eventi di questi giorni è che, quando si verificano tensioni sui mercati finanziari, l'intervento pubblico per rassicurare i risparmiatori e gli operatori di mercato deve essere immediato, massiccio e senza esitazioni. Più risorse vengono messe a disposizione subito per contrastare la speculazione, meno onere ci sarà successivamente per il contribuente. Vale lo slogan: «Più spendi, meno spendi».
Rimane aperto il problema dell'azzardo morale: l'intervento pubblico rischia di premiare comportamenti spregiudicati dei manager e non sufficientemente prudenti da parte degli azionisti. Perciò l'intervento pubblico non deve mirare a riacquistare titoli spazzatura dalle banche, come nel progetto americano iniziale. È preferibile invece intervenire sul capitale, come è stato fatto ad esempio con la banca belga Fortis nell'ultimo fine settimana. Diventando azionista della banca lo stato può rimuovere il management e il consiglio di amministrazione, se li ritiene responsabili delle difficoltà attraversate dalla banca. Dopo il salvataggio e la ristrutturazione, la banca può essere rimessa sul mercato e, dati i prezzi attualmente in vigore, si potrebbe anche generare una plusvalenza. In questo modo non vengono penalizzati né i contribuenti né i risparmiatori.

Questa è la strada da seguire per salvaguardare l'integrità del sistema finanziario. In Europa, l'intervento deve essere coordinato per evitare trattamenti diseguali.


Lorenzo Bini Smaghi
03 ottobre 2008

da corriere.it
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