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« inserito:: Luglio 13, 2008, 06:10:08 pm » |
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Conflitti e tensioni in Cina, l’armonia è propaganda
Gabriel Bertinetto
Si chiamavano Mukhtar Setiwaldi e Abduweli Imin, cinesi dal nome assai poco «han». Membri della minoranza ujgura dello Xinjiang, sono stati fucilati mercoledì scorso a Kashgar poche ore dopo la sentenza a carico di 17 presunti separatisti del Movimento islamico del Turkestan orientale. Per gli altri pene da 10 anni all’ergastolo. Il giorno stesso la polizia ha annunciato l’uccisione di 5 ribelli «jihadisti», e, negli ultimi sei mesi, l’arresto di 66 e la distruzione di 41 campi di addestramento. Per Pechino il problema nello Xinjiang sta tutto lì: una piccola ma agguerrita minoranza eversiva armata. I dissidenti ujguri sostengono che le autorità centrali sarebbero in realtà interessate a soffocare ogni vagito autonomistico, nelle Xingjiang come in Tibet. L’avvicinarsi delle Olimpiadi diventa l’occasione propizia per denunciare piani terroristici di grande portata e scatenare una repressione indiscriminata. E a lanciare una martellante campagna sulle minacce incombenti di «gruppi illegali», che progetterebbero tra l’altro assassini di stranieri e cinesi impegnati nell’organizzazione dei Giochi. Quanto ci sia di vero o di esagerato o di pretestuoso in quelle quasi quotidiane denunce, è difficile dire. Ma certo questo clima di tensione non contribuisce ad avvalorare l’immagine di una società «armoniosa», che da qualche anno è il leit-motiv della propaganda ufficiale, e viene costantemente sbandierato come principale obiettivo dell’azione di governo.
L’armonia arriverà forse un giorno in Cina. Nel presente quell’ideale è contraddetto da conflitti di vario tipo, che sembrano preoccupare i dirigenti più ancora delle critiche che arrivano dall’estero per le violazioni dei diritti umani e democratici. «La Cina tiene all’applauso della comunità internazionale, ma questo viene solo dopo la stabilità interna, e se deve scegliere opta per la seconda», afferma Jiang Qisheng, cinese membro di Pen (associazione internazionale per la difesa della libertà d’espressione). Il fermento che, quasi sempre celato all’opinione pubblica mondiale, scuote lo Xingjiang, ha radici in parte simili a quelle della protesta che a Lhasa si ispira alla guida spirituale del Dalai Lama. Se si eccettuano le eventuali connessioni di alcune frange ujgure con l’eversione qaedista, il malessere sociale in entrambe le province ha una doppia natura, culturale ed economica. Sono infatti due delle aree meno sviluppate nel Paese, dove l’etnia indigena, ujgura o tibetana, musulmana o buddista, lamenta di essere emarginata a vantaggio dei cittadini “han” di antica o nuova immigrazione. L’accusa di perseguire l’indipendenza con metodi violenti non risparmia il Dalai Lama, benché quest’ultimo abbia sempre chiaramente detto di aspirare per la sua terra all’autonomia e abbia sempre condannato l’uso delle armi. Le proteste soffocate con la forza a Lhasa in marzo, hanno dimostrato quanto fossero diffusi i risentimenti anti-cinesi fra i locali, benché da anni il governo sostenesse che i progressi economici in Tibet avevano creato un vasto consenso e l’ostilità verso il potere centrale riguardava solo minoranze sovversive. Secondo notizie diffuse dall’agenzia Xinhua, negli incidenti di marzo morirono 19 persone, 42 sono state condannate a pene che variano dai 3 anni all’ergastolo, e 116 sono in attesa di processo. La resistenza fornisce cifre molto più elevate. Le vittime sarebbero state più di cento.
La rivendicazione di libertà religiosa, che è solo una componente nella mobilitazione ujgura e tibetana, è l’elemento chiave nell’attività della setta Falun, diffusa in tutto il territorio nazionale. Gli aderenti erano forse 80 milioni quando scattò l’ondata repressiva lanciata dall’ex-presidente Jiang Zemin nel 1999 contro «un culto che instilla superstizioni fra la gente». In realtà i leader cinesi erano spaventati dalla rapida diffusione di un movimento fondato solo nel 1992, ma ispirato ad antiche tradizioni di esercizio fisico e spirituale per il miglioramento individuale, i cui adepti non avevano peli sulla lingua nel criticare gli errori e gli abusi del potere. Difficile dire quanto sia forte oggi in Cina la Falun. Certo è ancora temuta se Pechino la menziona specificamente tra le organizzazioni sospettate per «attacchi terroristici e atti di sabotaggio» e promette ricompense a chi ne denuncerà le attività.
Ha favorito il formidabile proselitismo della Falun il coraggio nel denunciare le malefatte della burocrazia. Tema a cui sono molto sensibili i cinesi, quello delle prevaricazioni di un potere spesso impermeabile alla giustizia comune. Ne derivano frequenti scoppi di rabbia popolare che qualche volta assumono l’aspetto di rivolta. Alla fine di giugno ha avuto larga eco internazionale l’assalto di diecimila persone infuriate ai commissariati di Wengan, nella provincia dello Guizhou. La gente era esasperata perché la polizia aveva archiviato come suicidio la morte di una ragazza stuprata e uccisa dal figlio di un notabile locale. Talvolta la verità si impone attraverso la mastodontica evidenza delle catastrofi. Com’è accaduto in Sichuan con il terremoto di maggio e le sue oltre 70mila vittime. Delle quali 9mila sono alunni e docenti sepolti sotto le macerie di scuole costruite con materiali di scarto perché i funzionari locali si erano intascati l’85% dei fondi. Le famiglie hanno manifestato pubblicamente chiedendo provvedimenti contro i responsabili. E come spesso accade, chi si è esposto maggiormente, l’attivista per i diritti umani Huang Qi, è finito in manette. Lo strapotere dei dirigenti e la corruzione sono spesso all’origine di quelle che vengono rubricate in Cina come «proteste di massa». Il loro numero, secondo Pechino, è diminuito rispetto al picco toccato nel 2005 con 87mila episodi di maggiore o minore rilevanza, ma sono comunque ancora numerosi. Il problema è che nonostante l’intrepido dinamismo di singoli attivisti, la maggior parte delle iniziative hanno carattere locale. Manca un coordinamento, anche perché la crescita della libertà economica nella Repubblica popolare non ha portato con sé alcun pluralismo politico. Dorothy Solinger, sinologa americana, rileva che «frammenti insoddisfatti della popolazione, dalle ong ai frequentatori di internet, dagli intellettuali ai contadini che si ribellano all’inquinamento (provocato dall’industrializzazione selvaggia) e agli espropri di terre, sono troppo dispersi geograficamente per costituire dei movimenti ampi e influenti».
Proprio per questo, un canale spesso seguito per sollevare un problema di qualunque genere, dalle fabbriche in cui si lavora il doppio delle ore previste dalla legge senza garanzie sindacali e di sicurezza, alla censura, alla corruzione, all’arbitrio della casta, è l’inoltro di una petizione. Ufficialmente incoraggiata dal governo, la denuncia scritta e sottoscritta rischia però di ritorcersi verso il promotore. Ne sa qualcosa Liu Jie, che sei mesi fa è finita in un campo di rieducazione subito dopo avere presentato alle autorità la proposta di abolire proprio quel tipo di detenzione che Mao riservò agli avversari politici.
Pubblicato il: 13.07.08 Modificato il: 13.07.08 alle ore 7.56 © l'Unità.
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