Admin
Utente non iscritto
|
|
« inserito:: Luglio 15, 2008, 10:24:06 pm » |
|
E Pasolini mi disse: sarai Nannina
Adele Cambria
Un giorno, era il 1960, Pier Paolo Pasolini mi venne a trovare a casa portando sotto braccio una sceneggiatura dalla copertina rossa. Il titolo era «Stella». «È la sceneggiatura del mio primo film», mi disse, timidamente. Sapevo della sua travagliata vicenda con Federico Fellini, che aveva creato, con la Rizzoli, una casa di produzione, la Federiz; il regista aveva il generoso proposito di promuovere gli esordienti, ma la tematica di Pasolini non lo seduceva e non aveva il coraggio di dirglielo... Alla fine, Pier Paolo gli attribuì - in un amabile/polemico articolo su «Il Giorno» il titolo di «Vescovone», e cercò altre vie.
Quando ebbi tra le mani la sceneggiatura di Stella - il titolo definitivo invece sarebbe stato Accattone - fui molto contenta dell’anteprima giornalistica - lavoravo per Paese Sera - che immaginavo Pier Paolo mi avesse riservata. «La leggo subito - gli dissi - e domani facciamo l’intervista...». Lui sorrise: «Non è per questo che son venuto... All’intervista poi ci pensiamo... Io voglio che tu, nel film, mi faccia il personaggino di Nannina la Napoletana, leggilo e dimmi che ne pensi...».
Lessi, e protestai vivamente con il mio amico dolcissimo: «Ma io sono una donna emancipata, e tu mi vuoi con un branco di bambini da crescere da sola e senza soldi, con un marito che va e viene dal carcere, ed ogni volta che esce le pianta un altro figlio nella pancia, e lei lo lascia fare... Io non sono questa donna!». Pier Paolo mi guardò dritto negli occhi e a bassa voce pronunciò: «E invece sì, tu sei anche Nannina...». Passò qualche anno, e capii che aveva avuto ragione. Aveva intuito ed anzi visto, nella mia vita di donna «emancipata», sentimenti che giudicavo arcaici e che negavo anche a me stessa. Ma non per niente era un poeta, e i poeti veri - come lui stesso avrebbe dimostrato a cominciare dai suoi viaggi in Africa - ne sapevano sulla realtà più degli inviati speciali.
Intanto gli avevo detto di sì; veder nascere un film dal suo interno mi sembrava un’esperienza utile al lavoro che, a quell’epoca, era la mia unica passione (il gionalismo). Ma fu molto di più: prima di tutto per l’eccezionalità - che definirei esistenziale e antropologica - del gruppo che si era formato per realizzare il sogno di Pier Paolo. Ci sentivamo affidatari, anche io, col mio personaggino di Nannina, delle visioni culturali di chi si sarebbe rivelato, via via negli anni, uno dei più «assoluti» interpreti del secondo Novecento. Allora non lo sapevamo con tanta certezza, io per esempio criticavo il mio amico che si era gettato in questa avventura a rischio, azzardare un film, lui era uno scrittore, un poeta, un intellettuale, doveva scrivere... «Adele - mi disse un giorno mentre eravamo in pausa - i film si fanno insieme, scrivendo invece si è soli...». Era già il suo discorso sulla solitudine, e non lo criticai più... L’atmosfera sul set era d’amicizia, voglia di far bene, collaborazione. Il neoregista si affidava al grande direttore della fotografia Tonino Delli Colli quasi con umiltà, ma senza cedere mai sulle proprie scelte, sui riferimenti iconografici coltissimi, di cui voleva far uso già nel raccontare quella storia di disperati, «accattoni», «borgatari», «coatti», ai bordi della gloria di Roma... Ma furono proprio i ragazzi di vita - che Pasolini, con il suo primo film, avrebbe immesso nel circuito internazionale del cinema - a riempirmi d’amarezza. Registravo il loro cinismo - «Io la catenina di mia figlia gliel’ho fumata quando lei ciaveva du’anni...», mi disse Franco Citti, mentre aspettava di girare la sequenza in cui Accattone ruba la catenina del figlio che gioca davanti alla baracca, per andarsela a impegnare. Ma erano peggio le battute sfottenti indirizzate a Pier Paolo; o quando, finita la giornata di lavoro, sgroppavano in comitiva verso Ostia per una notte brava, lasciandolo solo. O meglio, con noi: Adriana Asti, Elsa Morante, Bernardo Bertolucci, che esordiva nel cinema a diciott’anni, facendogli da aiuto-regista sul set. Mi sembrava di percepire allora una tristezza in Pier Paolo, il sentimento di subire un abbandono immeritato. Così un giorno, che «quelli» erano partiti al solito per Ostia - anche Sergio Citti, che tuttavia con Pier Paolo aveva un rapporto bello, da discepolo a maestro - chiesi al mio amico: «Tu metti in scena, sia con i libri che ora con questo film, i disperati della terra, gli rubi la vita, la loro storia, ti sembra giusto? Sarà per questo che hanno verso di te un atteggiamento di ingratitudine ostentata?». Pier Paolo sorrise e mi diede una risposta che mi sarei ricordata per sempre ed ancor più dopo il suo assassinio. Mi disse: «Io non rubo, Adele, io pago vita con vita». Ancora un ricordo, di quei giorni sul set: Nannina la Napoletana (io) doveva tenere sempre in braccio un bambino, ed averne altre tre o quattro appiccicati alle gonne. Per scegliere i bambini si riunirono un po’ di madri coi bambini piccoli del Pigneto; l’atmosfera non era quella crudele evocata da Luchino Visconti in Bellissima, ma, com’è inevitabile, le mamme volevano ognuna che si scegliesse il loro ragazzino. Pier Paolo mi depositò tra le braccia un bambino che mi sembrò gigantesco, a malapena ce la facevo a reggerlo, ma io mi accorsi immediatamente che quel gigante aveva la febbre, scottava... Lo dissi, ovviamente, e tutti tentarono di spiegare alla mamma che il ragazzino aveva la febbre alta, fu persino mandato qualcuno a comperare un termometro in farmacia. Aveva 38, ma non fu possibile persuadere quella mamma, «Non è per i soldi», diceva quasi piangendo, «è che lo voglio vedere al cinema!».
Pubblicato il: 15.07.08 Modificato il: 15.07.08 alle ore 8.42 © l'Unità.
|