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« inserito:: Luglio 07, 2007, 05:15:49 pm » |
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Scalone rischio caduta
Nicola Cacace
Una prima considerazione riguarda la distanza tra la serietà e complessità della materia oggetto di concertazione, le pensioni ed il modo abbastanza sconsiderato con cui molti rappresentanti della maggioranza intervengono da mesi, con cifre sballate e con una interpretazione ideologica e sbagliata della lettera del programma.
Un primo aspetto che colpisce negativamente in molti di questi interventi inopportuni e spesso disinformati è che il tema scalone è stato trattato come fosse in cima alla scala gerarchica dei problemi. Per circa 600mila persone che hanno messo insieme 35 anni di contributi e 57 anni di età, la notte di capodanno 2008 il diritto scivola a 60 anni. Ma davvero questo è il dramma? Si chiede un esperto come Aldo Amoretti, rappresentante della Cgil nel Cnel (Le nuove ragioni del socialismo, giugno 2007). Si tratta di persone che hanno avuto la fortuna di una vita senza periodi di disoccupazione, condizione per essere eleggibili alla pensione di anzianità e che quindi presumibilmente continueranno a lavorare sino ai 60 anni ed oltre. Il guaio cui possono andare incontro è quello di restare disoccupati se l’azienda va in crisi; non sarebbe difficile promuovere una rete protettiva in questi casi.
«La misura più grave tra quelle adottate da Maroni-Berlusconi, il vero scalone grande, è quella che abolisce la flessibilità adottata dalla riforma Dini. Con quelle norme si poteva scegliere di andare in pensione tra i 57 ed i 65 anni, mentre la riforma de centrodestra ha portato obbligatoriamente le donne a 60 anni e gli uomini a 65». Il ritorno alla flessibilità della riforma Dini, abolita da Maroni-Berlusconi, avrebbe l’effetto di aumentare l’età pensionabile su base volontaria, da 57 a 65 anni ma senza oneri per la collettività: ti prendi la pensione in base ai contributi versati ed all’età in cui vai in pensione. Inutile dire che del vero «scalone», la flessibilità abolita, quasi nessuno parla.
Tornando allo scalone Maroni, non è corretto dimenticare che l’operazione deve svolgersi in un paese con due pesanti fardelli, il record mondiale di un debito che pompa 75 miliardi di interessi l’anno ed il record mondiale del paese che fa meno figli e quindi il più vecchio al mondo. Di che costi è ragionevole parlare in caso di abolizione dello scalone? Supponendo che la metà dei 600mila lavoratori decida di andare in pensione si tratterebbe di un costo di 5,1 miliardi in 3 anni, protraibile per alcuni anni se niente si facesse per eliminare il vero scalone, la flessibilità abolita da Maroni Berlusconi. Alzando il limite da 57 a 58 anni, come pare probabile secondo una delle ipotesi sul tavolo, la cifra si ridurrebbe a 3,4 miliardi. Convenendo sull'altra ipotesi in gioco, quella delle quote, età più contributi pari a quota 93, 94 o 95, i costi si potrebbero ridurre a seconda della quota concordata coi sindacati.
Non sono comunque cifre da poco ed è naturale che il governo pensi al superamento dello scalone con misure che «riducano il prezzo per le future generazioni», come espressamente recita il Programma dell’Unione. Per concludere, governare un Paese vecchio perché non riesce a dare ai giovani la necessaria fiducia per programmare il futuro e far figli, con una montagna di interessi, 75 miliardi e di mancate entrate per evasione fiscale, 100 miliardi e gestire un sistema pensionistico traballante anche se non deficitario per il Fldp (fondo pensioni lavoratori dipendenti) dell’Inps, non è facile. Farlo dovendo confrontarsi con proposte improvvisate, cifre sballate e posizioni rigide, ideologiche e conservatrici, a sinistra come al centro, diventa impresa impossibile anche per il Padre eterno.
Pubblicato il: 07.07.07 Modificato il: 07.07.07 alle ore 11.18 © l'Unità.
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« Ultima modifica: Ottobre 09, 2011, 05:52:43 pm da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 02, 2008, 08:57:52 pm » |
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La nuova Milano si chiama Roma
Nicola Cacace
Il dato diffuso da Unioncamere sulla creazione di imprese in Italia nel 2007 riconferma la forte spinta di sviluppo che Roma ha avuto anche nell’anno appena passato, riconfermando una tendenza che dura da tempo. Il dato netto sulla creazione-cancellazione di imprese del 2007 segna la prevalenza di Roma sul resto del Paese: l’aumento di imprese nel Lazio è del 2,2%, triplo della media nazionale (0,75%) e quello di Roma pari al 2,7%, è quasi quadruplo. I dati sulla creazione di imprese a Roma e nel Lazio, in controtendenza con il resto del Paese, sarebbero di scarsa significatività se non fossero confermati dai principali indicatori economici e sociali che, dal valore aggiunto all’occupazione ed all’export, mostrano in modo incontrovertibile che l’economia romana e laziale è da molti anni in buona salute. Questi dati positivi vanno valutati con alcune criticità, di cui la maggiore è quella che Roma è polo di attrazione troppo forte rispetto al resto della regione e questo non può che creare difficoltà e problemi di efficienza dei trasporti, inquinamento ambientale, scarsità ed esosità della casa per i giovani, crescita rapida e «violenta» della domanda di immigrati che, dall’edilizia alle badanti, sono richiesti dal mercato con velocità crescente.
Quelle che erano considerate debolezze storiche dello sviluppo romano, la netta prevalenza del terziario sull’industria e il basso grado di internazionalizzazione del tessuto produttivo sono state utilizzate con intelligenza dalla direzione politica ed economica della città, non a caso in una collaborazione così stretta che poche altre metropoli italiane possano vantare. Il forte sviluppo del Turismo, trainato anche da grandi avvenimenti accortamente promossi dalle amministrazioni locali - dalla Festa del Cinema all’Alta Moda (29 sfilate con 32 maison e 7500 spettatori), dallo Sport (i prossimi mondiali di nuoto che stanno trainando il grande villaggio di Tor Vergata col contributo dell’architetto spagnolo Calatrava) al rilancio della fieristica tradizionalmente debole a Roma (Nuova Fiera di Roma, nuvola di Fuksas) - ha avuto effetti positivi su molti settori, dall’agroalimentare (anche i turisti mangiano) al commercio (...e fanno shopping), dai trasporti agli alberghi. Ma non mancano di creare problemi.
Naturalmente il boom romano attrae forti flussi migratori, atteso che i lavori “umili” che i romani non vogliono o non possono fare crescono più dei lavori “creativi”. Le professioni la cui occupazione è cresciuta di più a Roma e nel Lazio sono le badanti e i muratori. La prima professione fatta ormai al 70% da straniere, la seconda al 25%. Mentre ad esempio gli informatici sono cresciuti meno della media malgrado la presenza di grandi banche con centri informatici e di una industria manifatturiera storicamente debole ma in crescita. Nonostante pesi in maniera limitata l’industria manifatturiera in questi anni è cresciuta più della media nazionale. E questo è avvenuto sia nei settori storicamente presenti nel Lazio come il farmaceutico, l’audiovisivo e l’alimentare, come nei settori Hi-Tech come aerospazio, elettronica e militare. Questo sviluppo sostenuto non poteva non creare tensioni per tematiche di grande sensibilità sociale come, sicurezza, inquinamento, precarietà del lavoro giovanile, affitti, trasporti. Anche se tutte le statistiche sulla criminalità indicano chiaramente che Roma è cinque volte meno pericolosa di New York e due volte meno pericolosa di Londra e Parigi, l’aumento di fenomeni di criminalità diffusa crea una percezione di insicurezza di cui la politica è chiamata a farsi carico. Lo stesso va detto per l’inquinamento che, soprattutto nel caso delle polveri sottili, vede Roma in una non invidiabile prima posizione. Se la precarietà del lavoro giovanile è fenomeno nazionale su cui le autorità locali hanno poco da fare, lo stesso non può dirsi di problemi come trasporti e casa. Le politiche a favore del trasporto pubblico e quelle parallele di scoraggiamento dell’auto sono state troppo deboli per le esigenze di Roma e le pene inferte sopratutto dai tempi di percorrenza a lavoratori e studenti sono ogni giorno più insopportabili. I tempi di spostamento casa-lavoro dei cittadini ed i problemi della casa per i giovani sono i grandi problemi non risolti che le Amministrazioni locali, sopratutto quelle delle metropoli come Roma, devono mettere in cima ai loro programmi politici.
Pubblicato il: 02.02.08 Modificato il: 02.02.08 alle ore 8.38 © l'Unità.
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« Ultima modifica: Ottobre 09, 2011, 04:47:45 pm da Admin »
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 05, 2008, 05:01:02 pm » |
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Niente salari, niente Pil
Nicola Cacace
Da più di dieci anni il Pil italiano cresce la metà dell’area euro, per il peso degli interessi sul debito, 70 miliardi che significa un quarto di investimenti fissi in meno e per la debolezza della domanda interna che significa il 70% del Pil senza sostegno. Ieri il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto le stime mondiali della crescita 2008 abbassando le precedenti stime per tutti, ma non in modo uniforme, segno di una previsione di crisi economica internazionale seria che investe soprattutto il capitalismo liberista occidentale.
Infatti la crescita del il Pil mondiale per il 2008, ancorché al ribasso è ancora stimata dal Fmi a un non disprezzabile 3,2%, mentre l’America appare la più toccata dalla finanziarizzazione «deregolata» e dallo sviluppo diseguale che dagli anni 80 della Thatcher e di Reagan in poi ha prodotto la società dei 2/3, dove «le ricchezze si accumulano in alto e i rischi in basso» (Ulrich Beck). Con una minoranza di super ricchi che producono Bolle immobiliari e finanziarie e le grandi masse a reddito calante che fanno crollare i consumi e quindi la domanda interna e quindi il Pil. Il Pil Usa 2008 è rivisto dal Fmi allo 0,5%, quello dell’Europa dell’euro all’1,3% e quello italiano allo 0,3%. Va detto che le previsioni dell’Economist Intelligence Unit di oggi per il 2008 sono un po’ meno drastiche di quelle del Fmi, con lo 0,8% per l’Italia che confrontato all’1,6% dell’Europa a 12, confermano il Trend che ci vede da anni crescere a ritmi la metà dell’Europa. È quanto succede dal 1993, con redditi da lavoro dipendente che rinunciando ad aumenti salariali reali, hanno ridotto il loro peso nel Pil, con stagnazione dei consumi e della domanda interna. Il sacrificio fatto dai lavoratori e dai pensionati a partire dall’accordo di concertazione Ciampi-sindacati del ’93 che ha consentito all’Italia di entrare nell’euro, ha avuto un prezzo alto, l’impoverimento progressivo delle classi medie e basse con rallentamento della crescita. L’Italia è il paese europeo in cui la domanda interna da anni contribuisce meno che in tutti gli altri paesi alla crescita e poiché la domanda interna è il 70% del Pil, ecco spiegata la prima ragione sia della bassa crescita italiana sia dell’impoverimento dei salari. Le obiezioni a un recupero salariale vengono dalla accusa di bassa produttività italiana. Com’è possibile, si dice da parte industriale e della destra, aumentare i salari quando da anni la produttività è stagnante? La produttività è stagnante ma la quota dei redditi da lavoro nella produzione dei servizi, che sono gran parte del Pil, nel quindicennio 1990-2005 si è abbassata di 8 punti, dal 68% al 60% mentre nell’industria manifatturiera è rimasta costante intorno al 70% (Ciccarone e Saltari, salari e produttività, Newsletter, Nelmerito). Osservando le spettacolari Performance dell’export italiano nel 2007 e nei primi mesi del 2008, che per la prima volta da anni riguadagnano quote nel mondo, si deve concludere che la competitività industriale è cresciuta, segno che i metodi statistici per misurare la produttività sono sbagliati perché non tengono sufficientemente conto dell’aumento di innovazione e di valore incorporato nelle quantità fisiche prodotte dalle industrie. In altre parole, anche il fatto che i redditi da lavoro hanno perso terreno dovunque, ma più marcatamente nei servizi, significa che un lavoro precarizzato all’eccesso non potrà mai contribuire ai necessari aumenti di produttività. Spetterà al prossimo governo fare in modo che - in permanenza della «maledizione» dei 70 mld di interessi sul debito, che non potranno scomparire senza altri sacrifici della collettività - si realizzino i necessari recuperi di produttività soprattutto nei servizi, pubblici e privati, agendo senza tagli indiscriminati al costo lavoro (quanti apparecchi medicali sono fermi o sottoutilizzati per carenza di tecnici?) ma su organizzazione e management. Senza ignorare l’importanza anche economica di assicurare insieme condizioni di lavoro e di guadagno più compatibili con innovazione e produttività con rilancio dei consumi e della domanda interna e quindi della crescita.
Pubblicato il: 05.04.08 Modificato il: 05.04.08 alle ore 10.39 © l'Unità.
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 29, 2008, 04:52:23 pm » |
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Delocalizzazione: è il turbocapitalismo, bellezza
Nicola Cacace
La svedese Electrolux, elettrodomestici bianchi, chiude la fabbrica di Scandicci e ristruttura quella di Susegana licenziando complessivamente 750 lavoratori; la Riello di Lecco, caldaie, annuncia il licenziamento di 170 lavoratori, la Sogefi di Mantova, filtri per motori, di Carlo De Benedetti - che aveva prenotato la tessera numero 1 del Pd, chissà se l’ha presa - licenzia 230 lavoratori a Mantova anch’egli per andare all’estero. Sono solo alcuni degli ultimi annunci di delocalizzazione che hanno in comune una costante, le aziende sono in salute e fanno utili, semplicemente vogliono farne di più secondo il principio sempre più in voga tra gli attori del capitalismo selvaggio di oggi, massimizzare i profitti infischiandosi degli interessi degli altri stakeholder, lavoratori, ambiente e territorio.
Delocalizzare una fabbrica meno efficiente delle altre, anche quando gli affari dell’azienda vanno bene, come in tutti i casi citati, è diventata la nuova regola del capitalismo selvaggio. Il nuovo corso del capitalismo era stato descritto da anni, oltre da intellettuali di sinistra, Ulrich Beck, Luciano Gallino, Robert Reich tra gli altri, da alcuni intellettuali conservatori tra cui, molti anni prima del nostro Tremonti, da un noto esperto di politica internazionale, Edward Luttwak, nel libro «Turbo-capitalism», pubblicato in Italia nel 1999 col titolo «La dittatura del capitalismo», sottotitolo «Dove ci porteranno il liberalismo selvaggio e gli eccessi della globalizzazione». Di recente nel suo nuovo libro, Paul Krugman, editorialista del New York Times, un liberal che non ha paura di dichiararsi tale, a differenza di molti intellettuali della nostra area, denuncia: «Negli Stati Uniti le disuguaglianze crescono, la middle class scompare, i poveri votano o hanno votato per anni, a destra e questo è il risultato della “armi di distrazione di massa”, Tv, giornali e Centri studi dominati dalla destra neo-conservatrice» (citato nel Sole 24 Ore del 25 maggio). Aggiunge Krugman: «Nel ‘69 un operaio della Ford prendeva 40mila dollari l’anno in moneta attuale, oggi un dipendente di Wal Mart ne guadagna 18mila, il reddito dei Ceo (amministratori delegati) nel 1960 era di 35 volte superiore al salario medio, oggi è diventato 350 volte superiore, il tasso di sindacalizzazione si è ridotto a meno della metà grazie ad una aggressiva politica aziendale sostenuta dai governi». Il nostro Giulio Tremonti, sicuramente il più creativo dei politici italiani, denunciando la globalizzazione o mercatismo, come ama chiamarlo, scopre dieci anni dopo Luttwak, i guasti del capitalismo globalizzato, guardandosi bene dall’annunciare contrasto al primo guasto della globalizzazione, le scandalose disuguaglianze tra ricchi e poveri. Il buon Giulio conclude con ricette sbagliate come le barriere doganali o ricette ridicole, alcune chiaramente dirette a lisciare il pelo agli alleati, Lega e integralismo cattolico, come riscoprire i valori della famiglia (chi è contro?), le radici dell’Europa cristiano-giudaica (da contrapporre alle radici della civiltà cinese più vecchia di duemila anni?), il federalismo che può addirittura «sostituire il calante senso del dovere verso lo Stato-nazione con la forma politica di una nuova responsabilità. Questi sono dunque gli obiettivi: valori, identità, famiglia, autorità, ordine, responsabilità, federalismo» (pag.98 di «La paura e la speranza», Giulio Tremonti).
Cosa opporre ai valori vincenti dei turbocapitalisti che mentre parlano di responsabilità globale e sociale dell’impresa seguono le pratiche più abbiette del Medioevo, come il rischio spostato integralmente dal capitale al lavoro, al territorio e all’ambiente? Nient’altro che il recupero della politica, come giustamente auspica Tremonti, adesso che il potere ce l’ha. Solamente che per noi, per la sinistra e il centro-sinistra la partita è più difficile da giocare per i nostri ritardi culturali di analisi e di contrasto e perché, come dice Krugman, le armi di “distrazione di massa”, Tv in primis, lavorano in maggioranza per gli avversari. Eppure potremmo almeno rivendicare che una differenza fondamentale tra noi e gli altri consiste nella lotta alle disuguaglianze che, almeno a parole, abbiamo sempre predicato a differenza degli avversari, nel programma elettorale del Pd le parole eguaglianza-diseguaglianza ricorrevano una decina di volte, in quello del Pdl, mai! Purtroppo le prediche senza le buone pratiche non servono e la politica è come il pallone: tirare in porta non basta, bisogna anche segnare i gol.
Pubblicato il: 28.05.08 Modificato il: 28.05.08 alle ore 9.13 © l'Unità.
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 06, 2008, 09:29:09 pm » |
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Si lavora di più si guadagna di meno
Nicola Cacace
Non avevamo bisogno dell’ennesima conferma dell’Ocse per sapere che l’Italia ha salari da fame, del 20% inferiori alla media e con orari più lunghi. Al recente convegno di Confindustria dal titolo suggestivo «più produttività e meno povertà», il dottor Torrini della Banca d’Italia ha avanzato il sospetto che il valore aggiunto sia sottostimato, quindi sia sottostimata la produttività e sovrastimata la quota dei salari sul Prodotto Interno Lordo. Nessuno degli autorevoli relatori ha ripreso il tema, importante per capire meglio i fattori della crisi italiana.
L’Italia è tra i pochi Paesi ad alto costo di energia elettrica dove da anni l’intensità energetica rispetto al Pil aumenta, essendo i consumi di energia cresciuti nel quinquennio 2002-2007 a tassi doppi del Pil. Poiché la quota lavoro sul Pil è calcolata direttamente mentre la quota capitale solo come residuo, risulta evidente che con un Pil sottostimato la quota lavoro sul Pil risulti più grande. Questo significa che la riduzione della quota lavoro sul Pil documentata dai dati ufficiali dal 1993 al 2002 è continuata anche dopo sino al 2007.
Metto da parte la querelle sui dati per rifarmi a quelli ufficiali, di per sé drammatici. Dal 1992 al 2002 c’è stata una forte discesa della quota lavoro sul Pil, dal 74% al 67%, che poi risulta quasi costante intorno sino ad oggi. Questo significa che profitti e rendite si sono appropriati di tutti gli aumenti di produttività a partire dal 1993, dopo la firma del Protocollo sindacale. E le indagini annuali Mediobanca sui profitti delle imprese confermano ampiamente il dato. Anche nel primo trimestre 2008 gli utili netti delle grandi imprese industriali sono aumentati del 10% (analisi dei bilanci ReS-Sole 24 ore). È un fatto che rinunciando da 15 anni alla loro quota di produttività, tutti i benefici della produttività sono andati al capitale. Da qui l’arretramento di salari e pensioni e la crisi dei consumi, da qui il fatto che, anche secondo Eurostat, «l’Italia è il Paese dove la domanda interna ha meno contribuito alla crescita del Pil». E 7 punti di Pil sottratti al lavoro sono più di 100 miliardi di euro, che divisi per i 22 milioni di lavoratori, autonomi inclusi, fanno più di 4000 euro sottratti annualmente a ciascun lavoratore , dipendente od autonomo, cui vanno oggi aggiunti altri 1000 euro persi per Fiscal Drag (lavoratori e pensionati impoveriti pagano tasse con aliquote da benestanti).
E veniamo alla bassa produttività, sventolata dalla Confindustria per limitare i salari, col rischio di mandare il Paese in una crisi sociale ed economica devastante. La produttività industriale italiana non è bassa e lo dimostra la vigorosa ripresa dell’export in atto da 3 anni. Se c’è un problema di bassa crescita di produttività nazionale esso è nei servizi. La prova sta nei dati della Bilancia dei pagamenti. Mentre l’export manifatturiero arriva quasi a compensare il passivo crescente di agricoltura e petrolio, nei Servizi competitività e deficit sono in picchiata. Sino al 2000 l’attivo del Turismo compensava il passivo di Trasporti e Servizi alle imprese, mentre oggi il passivo crescente di questi due settori, 20 miliardi di euro, sorpassa l’attivo del Turismo, 11 miliardi, mandando la Bilancia complessiva dei Servizi in passivo forte, 9 miliardi e crescente.
La debolezza dei servizi deve preoccupare molto per il loro peso crescente sul Pil. Quanto al salario la perdita di potere d’acquisto è stata così devastante e lunga, che la Confindustria non deve strumentalizzare la produttività per impedire un periodo di recupero del potere d’acquisto che è dovuto e che è vitale anche per l’economia. Senza ripresa dei consumi ci arrotolereremmo in una crisi senza ritorno, perciò sono indifendibili sia l’inflazione programmata all’1,7% che le Grida contro i pericoli della “indicizzazione”; in un Paese dove tutto è indicizzato, benzina, tariffe, autostrade, polizze, pasta e pane, accise statali, tener fermi salari e pensioni significa semplicemente affamare la popolazione. Il Protocollo ‘93, che è stato pagato caro dai lavoratori - la crescita delle disuguaglianze oggi allinea Italia agli Stati Uniti - va sciolto dai lacci di un contratto nazionale che mentre lega i salari ad una inflazione programmata spesso risibile lascia liberi i profitti di crescere senza alcuna attenzione per i prezzi, come fan tutti, si veda l’Enel che con margini lordi doppi della EdF fa pagare il chilowattora (kwh) il 30% più che ai francesi. Si vuole attivare maggiormente il contratto aziendale? Va bene, si crei allora un Organismo di Garanzia territoriale misto, sindacati e imprese che operi per far in modo che la contrattazione decentrata copra la totalità degli occupati e non solo il 30% come oggi.
Pubblicato il: 06.07.08 Modificato il: 06.07.08 alle ore 9.59 © l'Unità.
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