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Autore Discussione: Bruno Ugolini - L’Italia perbene  (Letto 7064 volte)
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« inserito:: Ottobre 28, 2007, 09:52:41 am »

Le Idi di Novembre
Bruno Ugolini


Tutti attorno a Cesare, pardon, attorno a Romano. C'è. chi lo accoltella da destra in nome di De Magistris e chi lo accoltella da sinistra in nome del protocollo sul welfare.

C'è chi vorrebbe anche le dimissioni di Guglielmo Epifani onde seguire l'esempio di Bruno Trentin, 15 anni or sono. Così dice Rossana Rossanda sul Manifesto. Come se l'accordo del 1992 fosse eguale al protocollo del 2007. Solo che il primo "cancellava" (la scala mobile) e il secondo "aggiunge".

Ma la sinistra col coltello in mano non ci sta. E' convinta che anche il protocollo toglie, sbaracca, decima. E allora bisognerebbe dire che quei milioni di lavoratori che hanno votato Si sono degli imbecilli, vittime di una colossale falsificazione. E così la stragrande maggioranza dei gruppi dirigenti della Cgil. Non hanno capito che aumentare sia pure di poco le pensioni, assicurare ai precari una pensione pari al 60 per cento dell'ultima retribuzione, è come restituire la scala mobile, senza nulla in cambio (nel '92 perché nel '93 sempre con Trentin ci fu la rivalsa e la conquista di un nuovo sistema contrattuale). Ma certo, meglio far cadere Prodi e con lui anche il nefasto protocollo. I precari ringraziano.

Ma perché nella consultazione sul protocollo la stragrande maggioranza dei ragazzi nei call center e negli ipermercati ha votato "si"? Non avevano letto la Rossanda.

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Pubblicato il: 24.10.07
Modificato il: 24.10.07 alle ore 15.44   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 30, 2007, 06:15:40 pm »

Il black out del governo

Bruno Ugolini


Sarà una giornata nera, una giornata di disagi pesanti per tutti, bambini, giovani, anziani. Un impressionante venerdì nero dei trasporti. Ancor più pesante a Roma dove la barbara protesta dei tassisti si assomma allo sciopero da tempo annunciato da Cgil Cisl e Uil e che non calpesta le normative vigenti. Ci sarà, comunque, chi non potrà recarsi al lavoro o a scuola. E ci saranno magari malati impossibilitati a raggiungere cliniche e poliambulatori per gli esami necessari. Un black out nel sistema Italia, nel vivere civile, un danno non dappoco per l’economia nazionale.

Non sono interessati «solo» treni, tram, aerei, ma anche porti, servizi marittimi, autostrade, trasporto merci e spedizioni, soccorso stradale. La domanda è: si poteva evitare questo disastro? Si è fatto di tutto per evitarlo? La risposta è secca: un sì alla prima domanda e un no alla seconda.

Quel che meraviglia è l’assenza di allarme, d’indignazione, di corsa ai ripari. Come se assistessimo al realizzarsi di un fatto normale, anche se uno sciopero generale nei trasporti avviene per la prima volta dopo 25 anni. Al massimo i telegiornali trasmettono i numeri telefonici per indagare sulla presenza di pochi servizi «indispensabili» che, si presume, saranno in funzione ad esempio nelle città ridotte a un cumulo più gigantesco del solito di auto e motocicli. Quel che meraviglia è il fatto che questo silenzio, questa distrazione, dura non da poche ore ma da molto tempo. Era il 14 luglio del 2006, un anno e mezzo fa, quando i sindacati presentavano una piattaforma e il governo rispondeva approntando un’ambiziosa «cabina di regia». Con dentro i ministeri interessati: trasporti, tesoro, lavoro, infrastrutture. Avrebbe dovuto guidare la trasformazione, la modernizzazione dei trasporti italiani, il passaggio dallo Stato al Mercato. Operazione gigantesca che non può avvenire all’insegna del si salvi chi può. È fatta di tanti elementi: tecnologie, investimenti, sistemi di sicurezza, la condizione di masse di lavoratori. Non c’è stata nessuna regia, nessuna concertazione, nessun confronto.

Qualcuno potrebbe osservare che il tema trasporti ruba il sonno a gran parte dei governi d’Europa, vedi il «testa a testa» tra Sarkozy e i ferrovieri francesi. Intanto c’è da dire che in Italia non si sciopera ad oltranza (per poi magari accettare, stremati, modesti accordi) e poi il governo di centrosinistra ha in mano una carta politica diversa, rispetto al «pugno di ferro» caro a Sarkozy: la carta della concertazione, del confronto. Ma non l’ha usata. C’era tutto il tempo per farlo: la piattaforma è dello scorso anno, le pressioni sindacali sono state numerose, lo sciopero è stato proclamato il 16 novembre. Sono trascorsi quasi quindici giorni da quest’ultimo annuncio. Ma non è stato avviato un confronto sull’insieme delle questioni aperte, capace d’impedire il disastro di oggi.

Non è possibile nemmeno accusare i sindacati di avventurismo, d’irresponsabilità. Il tentativo di Cgil Cisl Uil, in definitiva, è quello di tenere le redini di un movimento che può frantumarsi e aprire la strada a esplosioni alla francese, appunto. Già siamo di fronte ad un settore dove il sindacalismo corporativo, cosiddetto autonomo, trova spazio. L’obiettivo confederale è quello di dare uno sbocco positivo al malcontento, proponendo altresì alternative a chi vorrebbe ristrutturare solo calpestando diritti e tutele. Non è stato ascoltato. E oggi Guglielmo Epifani condanna i tassisti che prendono in ostaggio una città, mentre difende i lavoratori dei trasporti protagonisti di uno sciopero non improvvisato, rispettoso delle regole, con obiettivi che collegano gli interessi del lavoro agli interessi del Paese.

C’è una considerazione del segretario della Cgil che mi colpisce. Quando critica una condotta del governo che in questo modo fa male in primo luogo a se stesso. Epifani accusa il centrosinistra, in sostanza, di non aver avuto una visione complessiva, un’intelligenza collettiva, nell’affrontare quella bomba a orologeria rappresentata dal sistema dei trasporti italiano. E di non aver capito che il sindacato, nel suo insieme, poteva aiutarlo in questa visione, perché per sua natura, per la sua rappresentanza sociale estesa e radicata, può contribuire nell’indagine sui problemi e nella ricerca delle soluzioni, tenendo insieme i diversi aspetti. E invece si è proceduto a strappi e bocconi o si è solo atteso.

C’è un episodio che meglio di ogni altra considerazione illustra questo comportamento. È stato presentato, racconta Epifani, un emendamento alla Finanziaria che aiuta i trasporti locali curati dagli Enti Locali. Sono stati però colpevolmente dimenticati tutti quei trasporti locali che sono soggetti alle Ferrovie. Insomma la famosa «cabina di regia» non funziona.

E oggi, tra mugugni e proteste di milioni di utenti, l’antipolitica troverà pane per i suoi denti. E non si capiranno nemmeno i risultati ottenuti nel protocollo sul welfare e, magari, l’importanza di darsi da fare per rinnovare sistemi elettorali e istituzionali e costruire così intese solide di governo.
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Pubblicato il: 30.11.07
Modificato il: 30.11.07 alle ore 9.47   
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 10, 2007, 07:15:33 pm »

Gli sfruttati

Bruno Ugolini


Oggi è come se tutto il mondo del lavoro fosse a Torino, una città in lutto, raccolta attorno ad una ferita cocente. Nel corteo dei lavoratori in sciopero al primo posto saranno i metalmeccanici, i compagni delle vittime, ma anche delegazioni provenienti da altre città. Con tutti loro saranno idealmente milioni di operai e impiegati chiamati in tutta Italia dai sindacati ad indossare un bracciale nero.

È il simbolo di un rifiuto generale ad una catena di morti che non ha fine. L’acciaieria di Torino è diventata un cimitero orrendo. Un luogo emblematico del lavoro oggi.

In quella acciaieria erano presenti, secondo i testimoni, una serie di condizioni nefaste. Basta però scorrere l’elenco sterminato dei morti di quest’anno, per capire come la morte abbia colpito ovunque. Ecco perché la manifestazione di oggi può rappresentare non solo un forte sussulto d’indignazione ma un monito e una riflessione. Molti dovrebbero sentirsi chiamare in causa. Non solo i rappresentanti della ThyssenKrupp. Alludo agli imprenditori che ogni giorno dissertano di produttività, di orari da allungare, di straordinari da ordinare a piacimento, di assenteismo da debellare. E chiudono gli occhi di fronte ad una parola che Romano Prodi ha saputo usare: «sfruttamento».

Ciascuno deve fare la sua parte. Così il governo e il Parlamento che non possono indugiare sul varo definito dei decreti attuativi del piano sulla sicurezza inerente il lavoro. Altri sono poi i soggetti chiamati in causa: dalle Asl, all’Inail. Lo stesso sindacato, le forze di centro-sinistra dovrebbero riflettere sul ruolo del lavoro oggi, su un progetto di società che non si limiti a riparare i danni. Appaiono davvero d’altri tempi le teorizzazioni di un Renato Panzieri, ma anche di un Sergio Garavini, sul “controllo operaio”. Oppure le esperienze adottate alla Fiat, ai tempi di Bruno Trentin, quando delegati preparati come Cesare Cosi ne sapevano di più di Cesare Annibaldi sull’organizzazione del lavoro. Quando lo slogan “La salute non si vende” era tradotto in obiettivi. C’era, allora, un potere sindacale nei luoghi di lavoro, poi in gran parte smantellato insieme a molti apparati industriali.

Oggi è il magistrato Raffaele Guariniello a ricordare che i controlli in fabbrica sono assai fragili. È vero esistono i “Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza” ma spesso sono privati di strumenti e poteri per conoscere, indagare, offrire soluzioni, contrattare. Ma poi erano presenti i rappresentanti operai per la sicurezza nei capannoni in fase di dismissione della torinese Tyssen-Krupp? Non credo. Così come non erano presenti ispettori capaci di costringere il gruppo siderurgico a misure immediate, senza limitarsi a verbalizzare le lacune accertate.

Ora ha detto bene Giorgio Airaudo, segretario della Fiom di Torino: «Occorre ripensare il patto tra lavoratori-governo-imprese in relazione allo sfruttamento inumano delle persone». Occorre tra l’altro riconquistare le otto ore al giorno. Ricominciando dalla fabbrica, senza attendere decreti e contratti, ricostruendo un potere sindacale sulle condizioni di lavoro. La lotta per salari adeguati, per impedire i ricatti (o fai lo straordinario o te ne vai), non può essere separata dalla lotta per la difesa dell’integrità psicofisica. La vita vale di più della busta paga: non si può lavorare 12 e più ore al giorno, Forse è possibile in Cina o in Romania. Dovrebbe essere vietato in Italia. Così come è vietato per legge il suicidio.

Pubblicato il: 10.12.07
Modificato il: 10.12.07 alle ore 8.13   
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 12, 2008, 10:31:31 pm »

L’Italia perbene

Bruno Ugolini


Gli operai che tornano nelle piazze, nelle strade, qualche volta nelle autostrade. Per farsi vedere, per farsi riconoscere da un mondo che li considera scomparsi, spariti.

Non è stato uno sciopero facile ma è riuscito.

È riuscito malgrado i tentativi della controparte imprenditoriale di negare l’evidenza. Era stato un azzardo dei dirigenti sindacali scegliere questa giornata, all’indomani delle feste tradizionali, in un clima più di rilassamento che di lotta sindacale. E invece è andata bene. I metalmeccanici ancora una volta hanno capito che era in gioco il loro contratto, quella cosa che molti credono superata. Un avanzo di tempi passati. Loro, invece, sono scesi in piazza per difenderlo. Perché difende tutti, quelli della piccola officina dove non c’è il sindacato e quelli della grande fabbrica. È stata così la testimonianza che la categoria non è sfiancata dagli scioperi già fatti e questa forza potrà pesare sul tavolo della trattativa iniziata ieri sera e che potrebbe essere una non stop, un «ultimo miglio» verso il faticoso contratto.

Non sarà facile. I sindacati non appaiono seriamente divisi come in altre occasioni. Mentre invece divise appaiono le delegazioni imprenditoriali. Ci sono i dirigenti della struttura Federmeccanica che vorrebbero dimostrare la propria efficienza e portare alla riunione della loro Giunta, l’organo direttivo, annunciata per il 15 gennaio, fra tre giorni, un risultato gradito e comunque la fine di un conflitto che reca danni notevoli soprattutto per chi ha commesse onerose da smaltire. Ma ci sono anche quelli che non fanno questioni di tempo e vorrebbero durare «un minuto di più dell’operaio». Non si può nemmeno fare tanto conto del soggetto Fiat, un tempo arbitro indiscusso del mondo padronale. Oggi è diventato un soggetto multinazionale, distratto da mille incombenze,

Sono tutti elementi che rendono questa vertenza difficile da sciogliere. Anche perché ci sono in gioco non solo 117 Euro, ma problemi normativi che non si affrontavano dal 1999. Come quelli che riguardano le nuove qualifiche o la parità tra operai e impiegati. Ma il nodo più arduo riguarda la fatidica flessibilità. Che gli industriali guidati da Massimo Calearo trasformano in sostanza, con le loro richieste di straordinari, di sabati da mettere a disposizione, di Par (permessi annui retribuiti), in secco aumento degli orari di lavoro. Addio alle 40 ore, dunque, anche queste considerate un vecchio arnese del passato. I sindacati non negano il fatto che i flussi produttivi, i cicli di lavorazione richiedono elasticità. E quindi c’è la necessità di una modulazione degli orari a fronte di cicli di lavorazione brevi e disuguali. La Fiom, il sindacato più fermo nel difendere la piattaforma concordata, ha avanzato un’apertura su tale tema. Ma affermando che i mutamenti devono essere accompagnati da un riconoscimento dei poteri di contrattazione delle Rsu, gli organismi di fabbrica. Una sottolineatura giusta, tanto più che tanta gente si è improvvisamente innamorata del secondo livello di contrattazione affidato appunto alle Rsu. C’è stato, a proposito di questa ultima discussione nella Fiom, anche un mutamento della geografia interna. Infatti l’apertura espressa da Gianni Rinaldini e approvata dal comitato centrale, è stata respinta da Giorgio Cremaschi (rete 28 aprile) ma appoggiata da Fausto Durante (che si rifà alle posizioni di Epifani.

È, insomma, una vertenza complicata. Una sua soluzione positiva potrebbe essere un buon segnale per tutti. Intanto per la vertenza più grande, quella che dovrebbe portare ad un «patto» con governo e imprenditori, capace di rivalutare salari e diritti dei lavoratori. E aiuterebbe le tante categorie con i contratti ancora aperti. I metalmeccanici, infine, raggiungendo un risultato sulle non poche «voci» dei loro capitoli rivendicativi (dai diritti d’informazione, ai diritti per i precari) farebbero un buon passo avanti. E potrebbero in qualche modo salutare con maggiore orgoglio quei loro compagni della ThyssenKrupp ricordati anche i nei cortei di ieri. Magari accogliendo l’appello del presidente della Repubblica, per dire: «Non si dovrà ripetere più un tale scempio di vite umane».

Pubblicato il: 12.01.08
Modificato il: 12.01.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 19, 2008, 11:10:07 pm »

La lunga stagione di lotte, successi e sacrifici degli operai in Laguna

Bruno Ugolini


Uno sente alla radio il nome della città, Marghera. Subito dopo la notizia di due operai morti. Pensa subito al passato. Pensa: il Petrolchimico uccide ancora. E invece stavolta la morte ha asfissiato due portuali. Hanno perso la vita come tanti loro compagni che lavoravano non poco lontano dalle loro banchine, dalle loro navi. Operavano in quella specie di fabbrica della morte che era, appunto, il Petrolchimico di Marghera.

Io ricordo quell’ammasso di ciminiere fumanti, tra quei vapori azzurrognoli, proprio di fronte alle maestose bellezze di Venezia. Era un agglomerato enorme che ribolliva di rabbia e dolore. Ricordo ancora le voci al telefono dei corrispondenti dell’Unità. Chiamavano direttamente dalle tumultuose assemblee per dire dello scontro con i padroni, ma, spesso, anche con i sindacati. Erano gli anni Settanta e sopra quella laguna avvelenata dal cloruro di vinile aveva preso piede Potere Operaio. Non era difficile, frequentando quel miscuglio di voci, imbattersi in colui che oggi veste i panni del primo cittadino di Venezia, Massimo Cacciari. Il terrore della morte in fabbrica venne poco più tardi e nacquero polemiche e divisioni. C’era chi metteva la salute e l’ambiente al primo posto. C’era chi, soprattutto tra i sindacati ufficiali, tracciava ristrutturazioni, accordi, per trovare una via d’uscita che non punisse il posto di lavoro ma lo trasformasse. Ha raccontato uno dei protagonisti dell’epoca, Gabriele Bortolozzo: “Alla notizia che il cloruro di vinile monomero era cancerogeno i lavoratori vennero presi dal panico; serpeggiava il terrore; molti lavoratori vennero presi da crisi depressive (le notizie che giungevano dall’ambiente medico internazionale parlavano di una sicura fine da cancro per gli esposti)”.

Quell’insediamento, il Petrolchimico, è stato anche una fucina d’esperienze di lotte, di democrazia operaia. Fino a prendere il nome di “Petrolkiller”, per usare il titolo di un libro di Gianfranco Bettin, uno che ha coabitato con quei fumigi fin dall’infanzia. Fino a giungere ad un processo-monstre che avrebbe dovuto condannare i responsabili di un eccidio (157 morti per cancro). Era stato invece concluso da una sentenza assolutoria che aveva ispirato un poeta operaio, Ferruccio Brugnaro. Diceva così: “Tutti assolti al processo per le morti al petrolchimico/Lavoravamo tra micidiali veleni/ Sostanze terribili/ Cancerogeni… Tanto il fatto non sussiste/I miei compagni morti non sono/ mai esistiti/Sono svaniti nel nulla/I miei compagni operai/Morti/Non possono/tollerare/Questa vergogna/ Non possiamo sopportare questo insulto/ Nessun padrone nessun tribunale/Potrà mai recingerci/Di un così grande/Infame silenzio”.Il Petrolchimico in quegli anni ha ispirato saggisti, romanzieri, registi. Non si può non ricordare uno studioso come Cesco Chinello. Tra i registi il primo nome che viene in mente è quello di Tinto Brass. Non sorridete: uno dei suoi primi film era la storia di un operaio che correva a perdifiato per le calli di Venezia. Il titolo era “Chi lavora è perduto”. Altre opere hanno parlato di questi luoghi. Così Manuela Pellarin con “Porto Marghera: gli ultimi fuochi”. Poi “Porto Marghera una lotta” di Ugo Guidobene e Paola Rispoli, “Porto Marghera, un inganno letale” di Paolo Bonaldi. Oggi il Petrolchimico si sta spegnendo, o, meglio, dismettendo. Dicono che da Venezia la sera si veda meglio il tramonto. Ha scritto Gianfranco Bettin: "Qui tutti erano convinti che in quell’azienda si fabbricasse la modernità. A quei tempi, nei primi anni Settanta, la chimica e la plastica erano una visione del mondo. La Montedison aveva il volto d’Eugenio Cefis e delle sue avventure politiche e finanziarie, ma anche di Giulio Natta, e del suo premio Nobel. Gli operai erano per la grande maggioranza orgogliosi, la chimica li proiettava in un orizzonte politico e culturale, generava un’idea di sé nel mondo: conflittuale, antagonista, ma centrale". Ecco l’avvento della modernità. Come erano forse moderni, ieri, gli impianti portuali, accanto alle macerie del Petrolchimico dove hanno lasciato la pelle due altri operai. Ma val la pena mandare la gente al sacrificio finale per la modernità?

Pubblicato il: 19.01.08
Modificato il: 19.01.08 alle ore 10.28   
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 22, 2008, 12:17:40 am »

Non è solo una vittoria salariale

Bruno Ugolini


Una buona notizia. Ancor più buona se si pensa che cade in un panorama politico-economico-sociale convulso, quasi stremato. La notizia del contratto raggiunto per i metalmeccanici, è di quelle che fanno tirare un sospiro di sollievo e che danno fiducia. Vuol dire che allora si può, anche fra parti duramente contrapposte, trovare una via d’uscita responsabile. Una notizia che parla al Paese, ad un società perplessa che s’interroga sul proprio futuro.

Una notizia che parla a un governo che in queste ore affronta prove impervie.

Li avete visti questi maledetti operai che s’ostinano a non scomparire, costretti a manifestare fino alle ultime ore. Con grandi sacrifici per le loro famiglie perché gli scioperi costano non sono una scampagnata. Operai fino all’altro ieri compianti, con tanta compassione, per la pochezza dei salari. Magari quando morivano in “incidenti” per nulla accidentali. Ma, subito dopo, spenti i riflettori, accusati di egoismi corporativi. Da confondere nella marea di camionisti e taxisti.

Ora la bozza d’intesa sarà portata nelle assemblee di fabbrica e darà vita ad una discussione di massa. Hanno ottenuto tutto quello che chiedevano? I dirigenti sindacali, nei primi commenti non si lasciano andare a facili trionfalismi. C’è un uso morigerato degli aggettivi.

L’«unico accordo possibile» l’ha definito Gianni Rindaldini, segretario generale della Fiom. Per dire che non tutto risulta soddisfacente, magari nel complicato rapporto tra flessibilità e orari. Ma che non si poteva ottenere di più. E chi si addentra in queste ore in accuse parziali, in calcoli minuziosi, rischia di perdere di vista i risultati raggiunti e quanto si è evitato. La Federmeccanica, non guidata certo da agnellini, puntava a far saltare il banco, a far saltare il contratto nazionale. Non ci sono riusciti. Il contratto (per ora) è salvo. E non è una cosa di poco conto.

Come non è di poco conto l’unità mantenuta tra i sindacati, poggiata su regole di democrazia convintamene adottate. Quelle che hanno permesso di far discutere la piattaforma tra i lavoratori. Anche questo è un buon viatico per il futuro, per le vertenze su fisco, prezzi, tariffe. Scadenze che di tutto avrebbero bisogno meno che di un patatrac istituzionale.

Può essere indifferente a tutto ciò solo chi avrebbe voluto un sindacato prigioniero di una setta minoritaria. Un sindacato mandato allo sbaraglio in una lotta senza fine, isolata da tutto e da tutti. Ricalcando vicende già successe. Ma ci appaiono altresì spropositati i commenti di chi sostiene che le difficoltà di questa lotta contrattuale, così aspra e prolungata, derivino solo e soltanto da una non ancora raggiunta riforma del modello contrattuale. Anche se ora, certo, questa stessa riforma potrà trovare nuovo impulso. Magari partendo dal principio che non serve tagliare lo scudo del contratto nazionale per estendere la contrattazione aziendale nel vasto mondo delle piccole imprese fino ad oggi esentate. Ed è su questo aspetto che bisognerebbe riflettere, come si è tentato di fare proponendo la via degli incentivi fiscali.

Perché non è la Cgil, il sindacato di Di Vittorio, Lama, Trentin che può passare come il nemico della contrattazione in fabbrica. È probabile, detto questo, che la difficoltà vera che ha incontrato il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici nasca dalla complessità della piattaforma presentata. Nonchè da un’evidente miopia di ampi settori imprenditoriali. Non c’erano di mezzo solo i poco più dei cento euro sui quali si soffermano solitamente i commentatori. C’era il tentativo di cambiare le condizioni di lavoro, partendo dalle mutate situazioni produttive. Dove, ad esempio, abitano tute blu con ruoli sempre più simili a quelli dei colletti bianchi. Dove accanto ai posti fissi albergano posti ballerini, precari, in un miscuglio a cui occorre porre un freno nell’interesse stesso di un’impresa capace di puntare sulla qualità.

Un decisivo contributo allo sbocco positivo raggiunto ieri lo si deve anche al ministro del Lavoro Cesare Damiano. Possono dirsi molte cose su di lui. Che sia troppo di destra o troppo di sinistra, a seconda dei punti di vista. Ma non lo si può rimproverare di non conoscere la materia, di non possedere le doti, tutte piemontesi, fatte di una puntigliosità che a volte può sembrare arida. Un ministro competente e per questo rispettato anche in questa occasione dalle parti sociali. Non è poca cosa di questi tempi.

Pubblicato il: 21.01.08
Modificato il: 21.01.08 alle ore 8.22   
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 29, 2008, 05:14:42 pm »

Un Paese dell’Ottocento

Bruno Ugolini


Una fotografia in bianco e nero quella scattata dalla Banca d’Italia. Come i ritratti d’altri tempi, frutto di tecnologie poco avanzate. Così vediamo da una parte famiglie che arrancano. Una su quattro è indebitata, una su due deve cavarsela con meno di 26.000 euro all’anno. Questo è il nero. Poi c’è il bianco: esiste un ristretto gruppo di italiani, il dieci per cento, che, tra case e titoli finanziari possiede il 45% della ricchezza di tutti gli italiani. È l’elite di quelli che ce l’hanno fatta. La vera “Casta”. Il vertice di una piramide che si regge su una massa sterminata. Sembra un ritratto ottocentesco.

Un ritratto che fa rabbrividire. Soprattutto pensando che queste stesse famiglie, quelle dei 26 mila euro all’anno, magari avevano coltivato di recente una speranza. Il governo di Romano Prodi, stava per affrontare una piattaforma dei sindacati che parlava appunto di redditi, fisco, prezzi, tariffe. Forse era la volta buona, anche se in ritardo. Per ridare dignità a tanti dopo aver cominciato a risanare i conti del Paese. Era l’inizio di un’inversione di rotta. È stata bloccata, spenta. Ed ecco che in queste stesse ore della crisi politica che non mostra sbocchi tranquillizzanti, irrompe una questione sociale scandalosa. Più scandalosa di tante bruttezze di cui ci cibiamo tutti i giorni, poiché spesso passa inosservata o nell’indifferenza generale.

Le cifre sopra riportate sono ancora più eloquenti se si considera la fonte. Non provengono da uno dei tanti istituti di ricerca magari accusati di scarsa credibilità. La fonte è la Banca d’Italia, una specie di riconosciuto massimo tribunale del sapere economico. Che ha pronunciato, con le sue cifre asettiche, una requisitoria. Ma chi sono i responsabili di questa Italia così iniquamente diseguale? Perché i redditi delle famiglie dei lavoratori (non di altre categorie sociali) sono cresciuti in sei anni, dal 2000 al 2006, dello 0,96%? Una cifra infima. Corrisponde ad un blocco quasi totale dei salari, dovuto al fatto che gli aumenti in busta paga erano spazzati via dagli aumenti nei negozi e nei servizi. Perché i giovani che lavorano sotto i 30 anni dispongono di un reddito di meno di 22.500 euro l’anno?

Per dare una risposta compiuta bisognerebbe rifare il cammino di questi anni tra governi scialacquoni che abbassavano certo le tasse di quel 10 per cento al vertice della piramide, ma per poi non tenere sotto freno i conti pubblici. Fino all’ultima esperienza governativa che al giusto rigore su quei conti, ha accompagnato una seria e fruttuosa lotta agli evasori fiscali ma ha avuto dubbi e titubanze nell’affrontare il doveroso capitolo della tassazione delle rendite finanziarie (sempre quelle del 10 per cento). Un tabù intoccabile. Così come la coalizione di centrosinistra è stata dilaniata e ritardata da divisioni e contorcimenti sulle cose da fare in materia sociale. Basti pensare alle vicissitudini del decreto sul welfare. Eppure il governo Prodi aveva cominciato un cammino, fatto di prime misure parziali, magari senza ben spiegare i possibili approdi finali, la strategia, gli sbocchi. Senza sapere indicare un possibile modello sociale capace di capovolgere quella piramide descritta oggi dalla Banca d’Italia.

E poi c’è stata spesso per milioni di lavoratori italiani la fatica di strappare il rinnovo dei contratti di lavoro, nella loro battaglia continua per ottenere modeste “mercedi” e diritti insopprimibili. Nei confronti di imprenditori che spesso, come dimostrano le recenti sortite di chi pure intende assume vesti moderne. Uomini d’industria che preferiscono alla dialettica sindacale, al riconoscimento di ruoli diversi, l’elargizione unilaterale, apparentemente appariscente.

Ed ora? Ora ci penserà la pimpante coalizione di Berlusconi, Mastella, Fini, e quant’altri? È anche di fronte a questi dati sociali assordanti che bisogna riflettere. La “crisi” è anche questa. Non si può, così, non sperare nei tentativi, in primo luogo quello del Capo dello Stato, di rendere meno pesanti non solo le vicende di oggi ma anche quelle di domani. Per impedire che si prosegua nel ricorso a impianti elettorali che producono governi poco produttivi per questa Italia. E soprattutto per quelle famiglie in attesa descritte dal rapporto della Banca d'Italia.

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Pubblicato il: 29.01.08
Modificato il: 29.01.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 03, 2008, 09:47:19 am »

Brodolini, Brunetta e Giuseppe Stalin

Bruno Ugolini


Ogni occasione è buona per deprecare gli effetti, che si presumono nefasti, dello Statuto dei Lavoratori. È vero che quella legge ha i suoi anni e non comprende ad esempio tutele e diritti per i protagonisti di questa rubrica, ovverosia gli atipici spesso precari. Non è però tale pesante lacuna che interessa i detrattori dello Statuto. Uno tra gli ultimi scesi in campo è Vittorio Feltri, direttore di “Libero”. Tutto nasce dall’entusiasmo per le scoppiettanti sortite del neo-ministro Brunetta, intento a risolvere a colpi di mannaia i problemi delle efficienze nel pubblico impiego. Feltri però avanza le sue perplessità: «Siamo curiosi di scoprire come il ministro pensi di realizzare l’ambizioso e salutare piano». Ecco perché: «L’Italia - spiega - è ancora schiava dello Statuto dei Lavoratori di brodolìniana memoria. Una specie di summa dello stalinismo che impedisce qualsiasi tipo di elasticità nel pubblico e privato impiego. Nessuno ha osato scalfire il Verbo, perfino l’articolo 18 (sul reintegro) è tuttora in vigore». Ecco fatto, il socialista ministro del Lavoro alle fine degli anni 60, Giacomo Brodolini, descritto come un seguace di Stalin, autore di uno Statuto che sforna «fannulloni» a tutto spiano. Tali annotazioni hanno sollevato l’indignazione della Fondazione che porta il nome di Giacomo Brodolini. E così il suo presidente Enzo Bartocci ha spedito una lettera a Vittorio Feltri, rimasta senza risposta e senza pubblicazione. Lo scritto contiene tra l’altro due annotazioni interessanti. La prima è che lo Statuto non interessa il pubblico impiego ma i lavoratori privati (anche se in materia di licenziamenti per giusta causa non esista alcun veto nelle aziende pubbliche). La seconda annotazione riguarda il fatto che il nome dell’attuale ministro Renato Brunetta è stato incautamente contrapposto a quello del presunto «stalinista» Giacomo Brodolini. Questo perché lo stesso Brunetta è stato a suo tempo proprio presidente della Fondazione Giacomo Brodolini. Un emerito stalinista anche lui? Aveva scritto Bartocci, a proposito dell’accusa di stalinismo: «Mi sia concesso di rettificare questa affermazione che nasce da preconcetti prodotti da una mancanza di conoscenza diretta della materia di cui si tratta, preconcetti lesivi della memoria di una delle figure più limpide di statista che abbia conosciuto la cosiddetta prima Repubblica… In primo luogo lo “Statuto” costituì, quando fu varato nel 1970, uno dei momenti più alti della cultura giuridica italiana, una tutela “liberale” del mondo del lavoro nei luoghi di produzione nella prospettiva di una democrazia industriale. Basti pensare all’attenzione che alla legge è stata prestata da studiosi e governi dell’Europa occidentale. Non è poi un caso che Giacomo Brodolini, il padre delio “Statuto”, provenisse dalle fila del Partito d’Azione e fosse una delle figure di punta del riformismo socialista, come non è un caso che Gino Giugni - estensore materiale della legge e uno dei massimi giuslavoristi italiani della seconda metà del XX secolo - sia stato gambizzato dalle Brigate Rosse. In secondo luogo le norme in questione non estendono al pubblico impiego il loro campo d’applicazione come si afferma nell’editoriale. Per sincerarsene è sufficiente leggere l’art, 35 della legge 20 maggio 1970 n° 300. Non vedo pertanto in quale misura lo “stalinista” Giacomo Brodolini possa essere implicato in una vicenda che non lo riguarda…». C’è poi la precisazione che riguarda Brunetta: «…Lo stesso Ministro Brunetta - che ha competenza in materia ed è stato per anni Segretario generale della Fondazione Giacomo Brodolini - esclude che la legge impedisca di licenziare i dipendenti pubblici per scarso rendimento». Così la Fondazione Brodolini. Peccato che i lettori di “Libero” non abbiano potuto leggere il tutto. Sarebbe un modo per cominciare a chiarire il polverone che si fa attorno ai lavoratori pubblici e rimbalzato nella appena conclusa conferenza d’organizzazione della Cgil.

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Pubblicato il: 02.06.08
Modificato il: 02.06.08 alle ore 13.54   
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