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Autore Discussione: Paradosso Italia: meno debiti, più sfiducia  (Letto 2383 volte)
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« inserito:: Giugno 27, 2008, 11:44:54 am »

Focus Quale futuro

Paradosso Italia: meno debiti, più sfiducia

Nonostante la crescita del 16% del credito al consumo, siamo i meno indebitati


Ora è ufficiale (purtroppo). Le famiglie italiane non solo tirano la cinghia. Ma sono anche quelle che, in Europa, soffrono di più della famigerata «sindrome della quarta settimana»: l’ansia di rimanere sepolti sotto la montagna di bollette, fatture, rate per mutui e prestiti, spese per alimenti, benzina, figli e qualunque cosa comporti l’atto di dover mettere mano al portafoglio, strisciare una carta di credito o passare in banca per un bonifico. Insomma, non siamo solo di fronte al classico "non farcela". Ma anche alla "paura di non farcela". Con tutto lo stress quotidiano che ciò comporta man mano che ci si avvicina al 21 del mese, quando scatta l’allarme rosso per arrivare al 27, il giorno di paga.

Siamo potenzialmente i maggiori utilizzatori di prozac per ragioni legate al bilancio familiare. Questo pessimo risultato è ciò che emerge da una ricerca su dieci Paesi europei — Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Francia, Irlanda, Spagna, Svezia, Norvegia, Portogallo e, chiaro, Italia—fatta dall’European credit research Institute di Bruxelles e dal Personal finance research centre dell’Università di Bristol, con il supporto di Genworth Financial, una delle maggiori società di riassicurazione del mondo. Questi istituti di ricerca, partendo da un sondaggio Ipsos Uk che ha coinvolto oltre mille famiglie in ognuno dei dieci Paesi e che per l’Italia e la Spagna è stato seguito dall’Università degli Studi di Milano, hanno messo su un bell’indice di "vulnerabilità finanziaria". Proprio quello che ci ha messi al palo e che ha ufficializzato, addirittura quantificandola, la paura di non arrivare a fine mese. E, questo, nonostante il confronto tra i diversi livelli di indebitamento personale — quindi non quello pubblico di cui siamo campioni!—ci dica che non siamo così pressati da rate e pagherò. Anzi, soprattutto nei Paesi anglosassoni e scandinavi, dove sembra che si concentrino gli ottimisti, le famiglie, accanto al mutuo per la casa, hanno una mole di prestiti al consumo e di altre forme di finanziamento, come le carte revolving, che da noi stanno sbarcando solo in questi ultimi anni. Anche se, per il credito al consumo, siamo il Paese con il maggior tasso di crescita tra il 2001 e il 2006: il 16,4%. Potrebbe sembrare una contraddizione. Ma, in realtà, potrebbe anche dimostrare che gli italiani, non riuscendo negli ultimi anni a coprire con le proprie risorse le spese progettate, hanno iniziato a bussare alla porta di banche e istituti specializzati per acquistare il frigorifero, l’automobile, o per coprire le spese sanitarie. In effetti, sfogliando il faldone del sondaggio, alla domanda "avete risparmi paragonabili al vostro reddito mensile" il 57% ha risposto, semplicemente, "no". Mentre se si va a considerare il numero di finanziamenti richiesti solo il 15% ha risposto di averne almeno due contro il 23% della superottimista Svezia, il 28% della Norvegia, il 25% dell’Irlanda e il 21% della Francia. È il paradosso Italia: meno debiti, ma più sfiducia.

L’indice, che prende in considerazione la seconda metà del 2007, tenta di sintetizzare i casi di reale difficoltà nel pagamento dei conti degli ultimi 12 mesi e la paura che l’incertezza continui. Entrano nel gruppo A coloro che hanno avuto effettivamente problemi e che pensano di averne anche in futuro, cioè i pessimisti cronici. E, nel gruppo D, quelli a cui va tutto bene e non vedono nubi all’orizzonte. La vulnerabilità è stata calcolata mettendo a rapporto il gruppo A con quello D, il che vuol dire che se il valore è zero nel paese ottimisti e pessimisti si bilanciano. Se il valore è negativo i pessimisti tendono a dominare il quadro. Il «punteggio» italiano? Meno 39, peggio del Portogallo che ha collezionato un -34. Da noi, dunque, che sia la congiuntura economica, la corsa dei prezzi, la rata del mutuo che scoppia, i pessimisti si propagano.

«Si tratta di una ricerca pilota — spiega la professoressa Daniela Vandone dell’Università degli Studi di Milano — che elabora per la prima volta un indice innovativo volto a cogliere il sentiment della popolazione, in un'ottica comparata in Europa, sulla propria tranquillità finanziaria. Dobbiamo ricordare che fino a tempi recenti nelle comparazioni internazionali l'Italia era sovente dipinta come un paese di "formichine", in virtù di una più alta propensione al risparmio e di una più contenuta predisposizione all'indebitamento, in particolare per il finanziamento dei consumi. Ciò concorre a spiegare anche profili di maggior preoccupazione circa la situazione finanziaria della propria famiglia e delle prospettive future». Insomma, il popolo dei Bot-People, abituato a vivere su un «materasso» di risparmi comunque corposo, si sentirebbe più insicuro, rispetto ad altri paesi più abituati alla gestione, mese per mese.

«Ciò che colpisce nella ricerca—spiegano Carlo Cortella, general manager per tutto il Sud Europa, e Pasquale Spani, direttore generale per l’Italia della Genworth Financial—è che in Italia si sentano vulnerabili anche quelle classi di persone che per età e posizione sociale non dovrebbero essere portatori di ansie. I senior manager e i dirigenti italiani hanno un risultato dell’indice (+5) molto vicino alla classe più timorosa in Svezia, quella di chi ha un’età tra i 60 e i 69 anni (zer0, cioè equilibrio di sentimenti)». Più in generale, un italiano su quattro si sente parte del gruppo A: ha avuto problemi e non ha grosse speranze per il futuro. D’altra parte è chiaro che dietro a tutto non c’è solo una ragione economica ma anche un atteggiamento generale nei confronti della vita. La Genworth ha introdotto da qualche anno sul mercato italiano dei prodotti assicurativi per coprire il rischio di perdere il lavoro. La polizza in sostanza funziona così: se si perde il lavoro, la società paga le rate per un periodo prefissato dal contratto, in generale inferiore all’anno, evitando che al licenziamento segua un effetto domino disastroso: insolvenza, perdita della casa, crollo dei consumi, anche necessari, generale deperimento della qualità della vita di tutta la famiglia. Ora «è vero che in Italia—spiega Cortella—una quota importante di dipendenti non sono coperti dall’articolo 18. Ma anche molti lavoratori di aziende grandi tendono a coprirsi da questo rischio e il risultato non è molto diverso da quello anglosassone, dove la mobilità e il rischio di perdere il lavoro è ben maggiore».

Massimo Sideri
27 giugno 2008

da corriere.it
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