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Autore Discussione: TONY BLAIR Siate realisti, chiedete il nucleare  (Letto 2326 volte)
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« inserito:: Giugno 30, 2008, 09:19:07 am »

30/6/2008
 
Siate realisti, chiedete il nucleare
 
 
 
 
 
TONY BLAIR
 
Negli ultimi anni c’è stato un enorme progresso nell’opinione pubblica sul cambiamento climatico. Scienziati e leader politici sono ora unanimi nel riconoscere il pericolo ed esigere un’azione. Ma esiste il rischio di una divisione sempre più profonda sulle dimensioni e i tempi dei tagli alle emissioni di gas serra che chiediamo.

Gli scienziati dicono che i Paesi industrializzati devono operare entro il 2020 un taglio tra il 25 e il 40 per cento, essenziale per ridurre l’aumento delle temperature e il pericolo di un cambiamento climatico catastrofico e irreversibile. Ma con le emissioni di biossido di carbonio globali che crescono dell’uno per cento l’anno, i leader politici ora cominciano a chiedersi come possano ottenere riduzioni drastiche senza danneggiare il benessere delle nazioni.

Sir Nicholas Stern, autore di una ricerca sull’economia dei cambiamenti climatici uscita nel 2006, può anche aver dimostrato che il costo del rinvio dei provvedimenti da prendere rischia di essere molto più alto di quello di iniziative immediate.

Ma politici che pensino solo in lungo termine, ignorando le preoccupazioni del momento della gente, potrebbero scoprire che il loro mandato è troppo breve e venire rimpiazzati da politici che non condividono la loro visione.

La sfida quindi diventa quella di trovare un accordo su un’azione a livello nazionale e internazionale per giungere a economie a basse emissioni, che però permetta alla gente - anche nelle zone più povere del mondo - di godere dei benefici materiali e sociali della crescita e del consumo. Questo obiettivo richiede una visione sufficientemente radicale del fine che dobbiamo raggiungere, ma anche realistica rispetto alla consapevolezza del punto in cui ci troviamo adesso e sulla velocità del nostro cammino. Considerando la complessità delle materie trattate, è il problema più difficile che la comunità internazionale si sia trovata ad affrontare in più di mezzo secolo. Ma è vitale, considerando il prezzo del potenziale fallimento, raggiungere un accordo alla conferenza dell’Onu che si terrà a Copenaghen l’anno prossimo.

Non sottovaluto le immense difficoltà politiche ed economiche. Esiste un consenso sul fatto che le emissioni di gas serra devono essere tagliate di più del 50% entro il 2050, per poter tenere l’aumento delle temperature sotto i due gradi centigradi. Ma raggiungere questo obiettivo implica un cambiamento senza precedenti delle nostre economie. Può sembrare scoraggiante, ma ci sono anche ragioni per sperare. Si stima che noi possediamo già le tecnologie per il 70% dei cambiamenti richiesti. Una maggiore efficienza energetica da sola produrrebbe un quarto dei tagli, oltre a ridurre le bollette. La deforestazione è responsabile per il 20% del problema emissioni. È chiaro che se facciamo scattare gli incentivi giusti il mercato reagirà, e la creatività umana si metterà all’opera per trovare domani risposte che oggi sembrano impossibili.

Ma dobbiamo anche accettare la realtà. Un’espansione dell’utilizzo dell’energia rinnovabile e, almeno in alcuni Paesi, del nucleare, è essenziale per chiudere questa voragine. Ma la maggior parte delle nuove centrali elettriche che saranno costruire negli Usa, in India e in Cina nei prossimi due decenni saranno a carbone, quindi anche lo sviluppo delle tecnologie per la cattura e lo stoccaggio delle emissioni è assolutamente cruciale. Esiste una grande distanza tra il nostro bisogno di energia nucleare e la nostra capacità di ottenerla, considerando che l’industria nucleare negli ultimi anni è stata ridimensionata notevolmente.

Né possiamo permetterci di riproporre Kyoto. Dobbiamo coinvolgere tutti i Paesi. Il mondo sviluppato, che produce l’80% dei gas serra di origine umana nella nostra atmosfera, deve guidare il processo delle riduzioni. Ma se gli Usa raggiungessero gli obiettivi più ambiziosi delle riduzioni e la Cina proseguisse nella strada che segue oggi, le emissioni resterebbero comunque sopra il livello che rende molto più probabili cambiamenti climatici potenzialmente catastrofici.

La sfida è grande e i tempi sono stretti. Senza una chiara direzione politica c’è il rischio reale che il summit dell’Onu di Copenaghen nel dicembre 2009 porterà a un accordo sul denominatore comune più basso, con ogni Paese impegnato a dare meno che può. Eppure è possibile immaginarsi una cornice nella quale elaborare l’accordo ambizioso e fattibile di cui abbiamo bisogno. E qui ci vengono in aiuto l’alto prezzo del petrolio e le preoccupazioni sulla capacità dell’offerta di soddisfare la futura domanda. Sia la sicurezza energetica sia il cambiamento climatico ci impongono la trasformazione delle nostre economie che devono ridurre drasticamente la dipendenza dai combustibili che producono biossido di carbonio. Tutto questo dovrebbe rendere possibile un accordo quasi universale sull’obiettivo del dimezzamento delle emissioni per il 2050.

Non si tratta di cercare un accordo che copra ogni evenienza: nei prossimi anni la nostra conoscenza e la velocità delle innovazioni tecnologiche cambieranno drasticamente. Abbiamo bisogno di un documento che sia il massimo ottenibile politicamente nel 2009, ma avvii un processo che permetta all’accordo di essere poi facilmente adeguato ai cambiamenti. Per questo è necessario che i maggiori Paesi industrializzati che parteciperanno al G8 a Hokkaido il mese prossimo - assieme al meeting del gruppo delle maggiori economie - aderiscano all’obiettivo del 2050 e agli elementi fondanti di quello che dovrebbe diventare un consenso globale. Dovrebbero anche trovare e finanziare le ricerche e le analisi necessarie a conquistare un vasto consenso a Copenaghen, e la prossima tappa potrebbe essere il G8 in Italia nel giugno 2009.

Se questi passi preparatori verranno fatti, la comunità internazionale arriverà a Copenaghen sapendo che esiste una direzione politica dettata dai Paesi che sono responsabili del 75% di tutte le emissioni. Sarà importante però precisare che nessuno si aspetta che il vertice di Copenaghen risolva tutti i problemi, ma che piuttosto metta in piedi un processo continuo suscettibile di aggiustamenti man mano che le circostanze cambieranno.

Ci sono ragioni per restare ottimisti. Paesi come Cina e India ora riconoscono che il cambiamento climatico è un problema di tutti, e non solo dei Paesi maggiormente responsabili per il riscaldamento. Anche negli Usa e in Giappone vediamo incoraggianti segni di cambiamento. In Europa, poi, c’è ormai un autentico e profondo consenso sulla necessità di agire.

La sfida non è più quella della volontà politica. Si tratta ora di arrivare a un accordo, radicale ma realistico, che tracci chiaramente la strada verso un futuro a basse emissioni. Possiamo farcela. Non possiamo permetterci di sprecare questa opportunità.

© 2008 The New York Times
(Distributed by The New York Times Syndicate)


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