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Autore Discussione: Per la Lega e i neoborboni Garibaldi torna «l’infame»  (Letto 3723 volte)
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« inserito:: Luglio 05, 2007, 05:54:36 pm »

Per la Lega e i neoborboni Garibaldi torna «l’infame»

Bruno Gravagnuolo


È tornato «l’infame Caripaldo». Come gli austriaci chiamavano Giuseppe Garibaldi in fuga nel 1849 dalla Roma occupata dai Francesi, quando perse Anita nei pressi di Comacchio. L’infame. Roba da «austriacanti», da racconto dei nonni. O da leggenda nera codina, come quella diffusa da Padre Bresciani, simbolo del clericalismo più ottuso e pervicace, che Garibaldi lo dipingeva come l’uomo nero. E invece «l’infamità» di Garibaldi torna attuale.

Stavolta l’attualità ha una ricetta con tre ingredienti. E cioè la Lega, i catto-centristi di destra del Movimento per l’Autonomia (Raffaele Lombardo) e il solito Ernesto Galli Della Loggia sul «Corsera». Problematico ma pur sempre corrivo, nel rispolverare un refrain degli anni 80: l’albero genealogico delle Br. Retrodatato sulle spalle dei democratici del Risorgimento, Garibaldi e Mazzini in testa. Vecchia storia neoguelfa, quella del sovversivismo violento di Pisacane, Mazzini e Garibaldi. Ma che ritorna buona, ora che il Pci non c’è più. Per dannarne il «passato remoto» e il fantasma.

Cominciamo dalla Lega. Ieri, durante il discorso di Marini in Senato ha abbandonato l’aula, protestando di non poter «intervenire» nel corso della celebrazione garibaldina. E però già la Padania aveva tuonato, con Andrea Rognoni, contro l’«avventuriero», il «cosmopolita massonico» al soldo degli inglesi, reo d’aver cacciato uno dei «modelli migliori di onestà regia in Europa, devoto alla Chiesa».

Ora, che la Lega fosse clericale, ossessionata dal «mondialismo massonico» al modo dei «Protoccolli dei Savi di Sion», lo si sapeva. Ma scoprire una Lega addirittura borbonica e tifosa di Franceschiello, è una primizia. Sicché i leghisti, pur di maledire l’Italia, non solo vituperano un vero «gallo-celtico» come Garibaldi... di cui potrebbero andar fieri. Ma esaltano i borboni e la forca. Mostrando ancora di che pasta son fatti: borboni del Nord. Bacchettoni e lazzari della «piccola patria». Che la bella destra italiana ha sdoganato per la gioia di noi tutti, promuovendoli a classe di governo. Non è andata così bene per ora ai leghisti in sedicesima del sud. Al movimento clerico-centrista di Raffale Lombardo. Che compra ieri sul «Riformista» (e gliela danno!) una intera mezza pagina per imprecare contro «Garibaldi mito della falsa unità d’Italia» e chiedere a Napolitano di favorire un «nuovo corso» tra sud e nord, opposto a quello che vide la colonizzazione del sud da parte del nord. Paradossale contrappunto quello di Lombardo, con lo strepito leghista di cui sopra. E che rinnova in forme comiche quello che Gramsci e Salvemini chiamarono «patto scellerato» tra nord e sud. Solo che il patto allora denunciato era quello tra industria settentrionale e agrari. Ai danni di operai e contadini e favorito dalla destra storica in nome dell’Unità(censitaria) d’Italia.

Quello tra Borghezio e Lombardo invece, è il patto tra partite Iva del nord e clientele del sud, ma in direzione della disunità d’Italia e del «blocco» tra assistenzialismo ed egoismi proprietari. A conferma del vecchio adagio: le tragedie storiche si replicano sotto specie di di farsa. Come le farse che rivive l’Italia a getto continuo, riciclando sempre gli stracci e i calcinacci della sua storia. E calcinacci e stracci son quelli ben noti. Ad esempio, il clericalismo che odiava Garibaldi e che fu bastione contro l’ingresso dell’Italia nella modernità: dal Sillabo del «santo» Pio IX al Concordato, agli atei devoti. E poi le favole sul magnifico sud dei Borboni, patria di latifondo, malaria e briganti (a parte qualche isola manifatturiera). E poi ancora le assurdità su mazziniani e garibaldini violenti. Quando è arcinoto che dopo l’unità Mazzini se ne stette buono buono e misconosciuto. E che Garibaldi- realista al massimo - aveva ben compreso la «grande politica» di Cavour, e la fatalità dell’egemonia moderata per fare l’Italia («Obbedisco»!). Salvo provarci sull’Aspromente e a Mentana, per poi ritirarsi a Caprera senza nemmeno accettare il vitalizio che la destra gli offrì per compensarlo. Infine l’ultimo insulto: «Garibaldi negriero e commerciante di schiavi».

È vero, il grande storico Candeloro ipotizzò nel 1982 - in un’intervista a Laura Lilli su «Repubblica» - che Garibaldi avesse trasportato lavoratori cinesi nelle fabbriche di guano del Perù. Ipotesi non del tutto comprovata e certo sgradevole, e risalente al 1852-53, quando l’eroe in esilio accettò di guidare una nave dal Perù ad Hong Kong, per conto dell’armatore genovese De Negri. Garibaldi in fuga - e operaio in una fabbrica di candele a New York - doveva mantenere la madre e i due figli, e molte navi da commercio su quelle rotte trasportavano «coolies» cinesi dall’Asia, perché nessuno voleva spalare il guano, nemmeno in Perù. Durò un solo viaggio l’ingaggio e poi Garibaldi ruppe con l’armatore, perché pensava a ben altro. Non s’arricchì, e con tutta l’artrite progettava solo a come fare ritorno in Italia. Che sognava filantropica, democratica e non bellicosa. Certo fu un Italia «nordista» la sua, malgrado i suoi sogni protosocialisti. E malgrado le speranze suscitate tra le masse agrarie nell’impresa dei Mille (represse allora e dopo, contro la sua volontà). E però fu un’Italia, bene o male. Contro quelli che Garibaldi chiamava gli Asini del suo tempo: Napoleone III e Pio IX. Col cui nome battezzò due suoi muli. Non immaginava proprio quanti asini avrebbe dovuto battezzare e collezionare duecento anni dopo la sua nascita, dalle Alpi alla Sicilia.

Pubblicato il: 05.07.07
Modificato il: 05.07.07 alle ore 8.40   
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 05, 2007, 06:56:37 pm »

SPETTACOLI & CULTURA

Quasi una rissa a palazzo Madama in occasione dei 200 anni dalla nascita dell'Eroe dei due mondi.

Calderoli: "Noi siamo in lutto"

Leghisti e siciliani contro Garibaldi

Lite al Senato per il bicentenario

Pistorio (Dc per le Autonomie): "Occasione sprecata, solo agiografia"

 
Marini e Bertinotti durante le celebrazioni di Garibaldi
ROMA - Autonomisti padani e siciliani uniti nella contestazione di Garibaldi. Luogo: l'aula del Senato; occasione: le celebrazioni del bicentenario della nascita dell'"Eroe dei due mondi". Nella solenne giornata di commemorazioni, mentre il sabaudo (e liberale) Valerio Zanone ricorda Garibaldi insieme a Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele come "costruttori dell'unità d'Italia", Calderoli fa sapere che i leghisti sono in lutto e che Garibaldi avrebbe fatto meglio a non dedicarsi a certe imprese: "Lui e i Savoia hanno fatto il male della Padania e del Mezzogiorno, che stavano bene dove stavano''. Paradossalmente (ma fino a un certo punto) gli fa eco Giovanni Pistorio senatore siciliano della Dc per le autonomie che afferma: "un'occasione sprecata di agiografia di un personaggio la cui verità storica oggi è oggetto di profonda revisione da parte della comunità scientifica".

Insomma, uno scontro, quasi una lite che il presidente Franco Marini riesce a frenare non senza difficoltà. Garibaldi, dunque, non piace proprio a tutti. E Pistorio, rappresentante del sud e di origine catanese, ci tiene a puntualizzarlo prendendo la parola in aula, e alzando anche un po' il tono di voce: "voglio formalizzare che non c'è unanimità, voglio esprimere il mio dissenso". Marini non ci sta: "Lei sta facendo una prepotenza, io non posso accettarlo. E' irrituale il suo intervento, le cose impossibili non si possono chiedere".

Roberto Castelli, presidente dei senatori del Carroccio, prende la parola per sottolineare che "l'aula è un luogo sacro per la democrazia e qui il paese ha diritto di esprimere il suo dissenso sulla relazione di Zanone che - secondo Castelli- in certi momenti ha sfiorato il grottesco". E ribadisce che la Lega Nord non ha partecipato alla cerimonia, volendo esprimere così il suo dissenso. "Certo - conclude - in questa aula le camice rosse vanno di moda".

Marini replica che "quella di stamattina non è una seduta e l'aula non si è espressa su nulla, ma ha solo ospitato una cerimonia su cui il Senato non ha pronunciato nessun giudizio". Inutile tentativo di placare gli animi perché Pistorio continua la sua protesta impedendo ad altri di parlare. "Lei è componente del consiglio di presidenza", ricorda Marini a Pistorio. Nel frastuono si sente anche la parola "dittatura". Marini richiama all'ordine Pistorio e avverte: "non vorrei espellerla, anzi non lo voglio proprio fare". Pistorio annuncia le sue dimissioni dall'ufficio di presidenza del Senato.

(4 luglio 2007) 

da repubblica.it
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