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Autore Discussione: Giustizia senza odio  (Letto 2735 volte)
Admin
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« inserito:: Maggio 22, 2008, 10:18:59 am »

22/5/2008
 
Giustizia senza odio
 
 
 
 
 
MARCO NEIROTTI
 
E’ finita, dopo sei anni e cinque mesi. E ora, mentre Annamaria Franzoni scivola in un altro tipo di sofferenza, proviamo noi a fare un passo indietro: pietà anziché vendetta appagata.

Si è parlato tanto di processo mediatico. Che c’è stato e, talk show dopo talk show, ha travolto e stravolto le emozioni degli «spettatori». Nei primi giorni fu orrore per un bambino massacrato, poi l’Italia si spaccò tra innocentisti e colpevolisti, Italia a volte sofferente, a volte morbosamente incline al voyeurismo, a volte cinicamente tifosa, come se fosse una partita di calcio. Con la difesa dell’avvocato Taormina, con il cambio di strategia, lo spettacolo arrivò al culmine: la madre di Samuele a raccontarsi e difendersi nei salotti tv, lacrime e telecamere, un fuori onda nel quale domandava «ho pianto troppo?». Sempre più protagonista, sempre più subita da chi assisteva come abile attrice che sventola un’improbabile innocenza.

L’overdose di parole e singhiozzi tracimò nell’antipatia verso la persona, nella dilagante sete di una giustizia che punisse, più che il delitto, quelle esibizioni di disperata difesa.

Si è gonfiata così una fetta d’Italia più indignata per lo show che attenta ai passi giudiziari, più rancorosa verso l’imputata da teleschermo di quanto fosse sgomenta per la memoria del figlicidio, e fetta d’Italia che in quegli anni di vicende processuali senza esito definitivo incarnava nella sua storia, quasi attribuendola a lei, la lentezza del nostro sistema giudiziario.

Quell’Italia si è ritrovata a viaggiare discosta da magistratura e legali. Le toghe dibattevano su una responsabilità oggettiva, quella che ora hanno riconosciuto e condannato. Gran parte del «pubblico», invece, si è confusa, si è fatta nervosa, bisognosa di una sentenza che punisse il lungo iter costellato di pianti, singhiozzi, viso trasfigurato e voce cangiante a comando, forse istintivo e non costruito.

Adesso che la Corte di Cassazione ha chiuso la partita, è giusto archiviare antipatia, odio per un simbolo. Sarebbe ferocia inutile, sarebbe debolezza gioire per una porta di carcere che si apre. Pur chiedendo una pena di trent’anni, nella requisitoria d’Appello, il Procuratore Generale Vittorio Corsi aveva mostrato umanità e dolore: «La quantificazione della pena è pura questione aritmetica. La condanna della signora è nel fatto commesso». La sentenza ora c’è, definitiva, le emozioni di contorno possono fare un passo indietro e lasciare spazio alla pietas per Annamaria Franzoni travolta dalla nebbia della mente.
 
da lastampa.it
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