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Autore Discussione: EVGENIJ EVTUŠENKO. Colazione a letto con la mia spia  (Letto 2942 volte)
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« inserito:: Marzo 16, 2008, 11:49:41 am »

16/3/2008 (8:17)

Colazione a letto con la mia spia

Il surreale racconto del grande poeta russo: sorvegliato speciale per evitare il suo suicidio

EVGENIJ EVTUŠENKO


Quasi ogni volta che cadevo in disgrazia cominciavano a circolare voci sul mio suicidio.
Un bel mattino, uno di quegli indimenticabili giorni del millenovecentosessantatrè quando i nostri giornali facevano a gara per coprirmi d’infamia, il campanello trillò nervosamente. Sulla soglia c’era un poliziotto mingherlino con due occhi sgranati e impauriti. - Vivo, grazie al cielo è vivo… - disse tirando un sospiro di sollievo, e mi trascinò sul balcone. — Il popolo è in fermento. Qualcuno ha diffuso la voce che vi eravate suicidato. Mostratevi al popolo… [...]

Piombatomi in casa senza preavviso, il figlio di Blok espresse la sua, penso, sincera indignazione per il fango che in quei giorni i giornali di comune accordo mi stavano riversando addosso. Si offrì poi di presentarmi a delle modelle lituane, che volevano esprimermi la solo solidarietà. \ Le ragazze, dalle gambe lunghissime, con gli occhi grandi, ondeggianti, mi piacquero letteralmente tutte; ma in particolare mi colpì la loro prima modella, non molto alta, con occhi turchesi e capelli color lino rivoltati in punta, come quelli della regina dei miei sogni d’infanzia, la star cinematografica americana Diana Durbin; la sua inimitabile andatura era come una danza, in cui i polpacci, forti e leggeri allo stesso tempo e con un’appena visibile peluria dorata, giocherellavano in modo eccitante, e le caviglie sottili tremolavano nervosamente ad ogni passo. \ Si chiamava, diciamo, Aušra.

Dopo la sfilata, il «Moskvic» del figlio di Blok abbandonò l’autostrada di Rjazan e imboccò un strada sterrata. \ Tutt'intorno c’era un boschetto di betulle dal tronco bianco, che ricordavano centinaia di donne nude agli albori del Cristianesimo in corsa verso la riva del fiume per ricevere il battesimo in acqua. Non riuscii a trattenermi e comunicai ad Aušra questa mia impressione. Lei sussurrò qualcosa alla sua amica ed entrambe si nascosero da qualche parte dietro alle betulle, per poi rispuntare solo con delle mantelline di garza trasparenti, attraverso le quali si indovinavano i loro corpi nudi. Era come se le betulle, ricoperte da una leggera nebbia serale, si fossero rianimate e avessero preso sembianze femminili. Cominciarono a girare a piedi nudi attorno alla tovaglia, ora camminando sulle punte, mostrando i talloni leggermente verdi cui si appiccicava l’erba, ora abbassandosi mollemente sulle piante dei piedi, per cui le gambe che poco prima sembravano esili esili si ricoprivano improvvisamente di muscoli danzanti.

Ben presto il figlio di Blok e l’altra modella si appartarono, io e Aušra restammo soli. Quando tra noi avvenne quel «Gran Qualcosa», indivisibile dal rumore delle fronde sopra i nostri corpi fusi assieme, dall’ondeggiare delle margherite e delle campanelle e dalle formiche che ci pizzicavano la pelle, io vidi che gli occhi di Aušra erano diventati ancora più grandi e profondi per le lacrime che improvvisamente cominciarono a sgorgarle dagli occhi, di cui non sapevo nulla.

Mi tuffai in quegli occhi, nuotai nella loro refrigerante frescura, rabbrividendo e dimenticando tutte le offese che mi avevano riversato addosso da qualche parte, lontano, sulla terra. Il giorno successivo lei prese l’aereo per Vilnius, e io partii per la Siberia, diretto alla stazione di Zimà e alla Centrale idroelettrica di Bratsk. Durante la sosta dell’aereo a Sverdlovsk non riuscii a trattenermi e telefonai ad Aušra.
- Vuoi che cambi biglietto e voli da te? - le chiesi. Non rispose.
- Mi ami? - le chiesi ancora.
- Molto - rispose lei, e io sentii che stava trattenendo le lacrime — ma forse sarebbe meglio se non ci fossimo visti più.
Cambiai biglietto e volai a Vilnius. [...]

Mi trovavo straordinariamente bene con Aušra. \ Fu la prima donna della mia vita a portarmi la colazione a letto, e io, non lo nascondo, ne godevo. Forse fu l’unica donna europea della mia vita nel pieno significato del termine. Ma una volta, mentre lei era in cucina a preparare il caffè, mi venne voglia di fumare; allora aprii la sua borsetta, dove si trovavano sempre delle sigarette, e improvvisamente vidi uno strano telegramma a suo nome. Al posto delle lettere c’erano solo cifre, cifre e cifre… Guardando più attentamente, scorsi la sua decifrazione in russo, scritta a matita nella sua bella grafia da insegnante di calligrafia:

«Continuate a sorvegliare l’oggetto che vi è stato assegnato. Cercate di distoglierlo da propositi suicidi. Il suo suicidio potrebbe essere sfruttato dai nostri nemici ideologici. Fate il possibile per infondere in lui ottimismo». La firma era succinta: «Il centro». Forse avrei dovuto rallegrarmi del fatto che da qualche parte, in un certo qual «centro», ci fossero persone che si preoccupavano a tal punto di me. Invece rimasi profondamente sconvolto da quello che avevo letto. Quando Aušra tornò col vassoio, su cui erano appoggiati una tazza di caffè fumante con una fetta dorata di limone, dei toast accuratamente riscaldati e della marmellata di lampone fatta in casa, non scaraventò tutto a terra, come probabilmente avrebbe fatto una donna russa, e non mi si gettò ai piedi chiedendomi perdono. Sembrò invece pietrificarsi, trasformandosi in una di quelle madonne lituane che stanno agli incroci delle strade. Poi appoggiò lentamente il vassoio sul comodino che si trovava di fianco al letto e tirò fuori dalla stessa borsa un altro foglietto, completamente coperto di lettere e in alcuni punti di cifre. - Visto che hai letto quello leggi anche questo… È la mia risposta al telegramma dal «Centro».

«L’oggetto che mi è stato assegnato, in tutte le occasioni d’incontro con l’intellighenzia lituana, ha brindato in onore dell’amicizia russo-lituana e in particolare alla salute di Nikita Sergeevic Chrušcev. Allo stesso tempo ha duramente deprecato i tentativi della stampa occidentale di sfruttare le voci sul suo suicidio. Da Vilnius prenderà un aereo per la Siberia, per decantare le gesta dei lavoratori della Centrale idroelettrica Bratsk. Sto attuando con successo il compito assegnatomi per risollevare il suo spirito».

In seguito c’era la firma: «Campanella».
- Perché ti hanno soprannominato «campanella»? - chiesi io avvilito.
- Cercavano di essere raffinati - rispose lei. - Mi ingaggiarono quando mia zia, fuggita come turista in occidente alla fine della guerra, tornò milionaria dal Canada. Mi ricattarono facendo leva sul fatto che una volta il suo defunto marito, mio zio, aveva gestito un club per ufficiali tedeschi. Inizialmente mi chiesero gentilmente di accompagnare mia zia e di trascrivere tutto quello diceva. Gli interessava anche sapere a chi avesse intenzione di lasciare in eredità i suoi soldi. Pretesero da me una certificato con cui m’impegnavo, nel caso lasciasse a me l’eredità, a consegnarne allo Stato il settantacinque per cento. Mi disturbavano raramente, a volte mi chiedevano semplicemente di accompagnare degli stranieri che tenevano sotto osservazione e di riferire i loro discorsi. Ma io non ho fatto del male a nessuno, solo a me stessa, quando per paura accettai di diventare la loro «Campanella». Ma quel paio di volte in cui tentarono di concedermi a dei capi moscoviti non ci fu modo di convincermi, e per un po’ mi lasciarono in pace. Poi, improvvisamente, all’Esposizione agricola venne dietro le quinte l’uomo che poi ci presentò. Conosceva il mio nome in codice e la mia parola d’ordine. Fu molto educato e mi chiese se avessi letto le tue poesie. Io risposi di sì, e che anzi ne ricordavo molte a memoria. Allora mi spiegò che in quel periodo eri bersaglio di molte critiche e ti trovavi ormai sull’orlo del suicidio. Mi chiese di aiutarti. Io ti avevo visto in televisione, e mi erano piaciute non solo le tue poesie, ma anche tu. Accettai. E adesso giudicami pure come vuoi.

Che cosa avrei dovuto fare? Non avevo mai bevuto in onore dell’amicizia russo-lituana, perché anche senza quei brindisi volevo bene ai miei amici, e loro ne volevano a me. Durante quel viaggio non avevo mai alzato il calice in onore di Chrušcev, perché le sue urla volgari contro scrittori e pittori echeggiavano ancora nelle mie orecchie. Sì, lei in un certo senso mi aveva «denunciato». Ma con le sue «delazioni» mi aveva aiutato. Nonostante tutto, capii che non avrei più potuto amarla. È terribile scoprire improvvisamente che la stessa mano che di notte ti accarezza la mattina scrive messaggi cifrati su di te a un certo qual «Centro».

Anche lei comprese e disse:
- Adesso capisci perché non volevo che venissi?
Il giorno seguente partii per la Siberia. [...]

da lastampa.it
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