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« Risposta #1 inserito:: Aprile 16, 2008, 12:14:08 pm » |
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Il vento dell’Est conquista l’America
Silvia Boschero
C’è un ragazzino di 22 anni, musicista nato nel New Mexico, che sta facendo un gran parlare di sé in patria. Non è un genio, ma ha qualcosa che ai più non torna. Suona la tromba e l’ukulele, ama Tom Waits e Rufus Wainwright, ma quando sale sul palco con la sua band per un concerto è un’esplosione di suoni che, a chiudere gli occhi, pare un po’ la Wedding and funeral band di Bregovich. E sorprende tutti. Bel corto circuito pensare ad un ragazzino che per i suoi esordi musicali decide di buttarsi sulla musica balcanica: il grande sudovest americano contro il vecchio blocco sovietico. Lui, in arte Beirut, non è l’unico. Alla scorsa edizione del New York Gipsy Festival, la Grande Mela è stata invasa da un’ondata impazzita di musica balcanica. Per strada carovane di simil-tzingani imitavano le brass band dell’Est Europa in un colpo d’occhio un po’ straniante. È una nuova moda che invade la costa est degli Stati Uniti, colpa degli imitatori (o seguaci, se vogliamo) della musica folk gitana. Musica che in Europa conosciamo bene, e che ora si appresta all’ennesima trasformazione dal momento in cui, meglio di qualsiasi altra, è materia naturalmente «mutante», capace di prendere la forma del luogo ospitante rimanendo intatta nella propria sostanza.
In America sono tutti pazzi del leader coi baffoni dei Gogol Bordello, il signor Eugene Hutz, inventore del cosiddetto «gipsy punk», che dall’Ucraina passando per l’Italia (a Santa Marinella provincia di Roma faceva il venditore ambulante e a quel luogo ha dedicato una canzone), è approdato a New York facendo innamorare anche Madonna, che l’ha voluto protagonista del suo ultimo film. Ma i Gogol (che oggi suonano a Bologna, domani a Roma e mercoledì a Venaria), da punta dell’iceberg, con tutta la loro carica di «patchanka» sono in realtà i più distanti da quel seme musicale. Band tutte americane (anzi newyorkesi) e dai nomi ancora sconosciuti (come New Zlatne Uste, Slavic Soul Party, Hungry March Band), quelli sì che suonano musica che ispira quasi filologicamente a quella rom e dell’Est Europa in genere.
Ma la tendenza è a ingurgitarla e trasformarla alle proprie esigenze. Ecco che a Denver, in Colorado, sbucano i Devotchka, una band di polistrumentisti molto virtuosi che qualcuno ha conosciuto grazie alla colonna sonora di quel piccolo bel film che fu Little Miss Sunshine (premio al Sundance). Loro di Goran Bregovich, Kocani Orkestar e Taraf de Haidouks (due delle migliori band gitane in circolazione in Europa, la prima una brass band, la seconda una banda di violini e fisarmoniche da Clejani, un piccolo villaggio della Romania) non ne sanno un bel niente, ma la comunità rom a Denver è sostanziosa e da questa i nostri ex-rocker hanno appreso rudimenti di musica popolare. Risultato? Un mix di musica rom, greca, slava, bolero, mariachi, radici folk e indie rock a creare l’ennesima musica ibrida, l’unica – dicono – capace di rappresentare un’altra America, non quellla istituzionale che ci viene mostrata dai media. Stessa cosa, ma con attitudine virtuosa e schizoide alla Frank Zappa, stanno facendo i Man Man da Philadelfia.
Poi c’è lui, Beirut, ragazzino molto amato nella nicchia del rock indipendente americano, vero nome Zach Condon, che si è innamorato perdutamente della Kocani dopo averla incontrata casualmente ad un festival a Parigi lo scorso anno e dopo aver capito di cosa si trattava grazie a due film: Underground di Kusturica e Gatto nero gatto bianco. Presto con la Kocani faranno un disco assieme: lui, brufoloso post-adolescente del New Mexico, e loro, la più celebre fanfara macedone che qualche americano ha conosciuto grazie alla colonna sonora di Borat (e che in questi giorni è impegnata in un tour italiano assieme ai nostri Paolo Fresu e Antonello Salis). Non c’è niente di strano, perché la musica balcanica gli permette di rimanere se stesso. Sarà per questo che su di lui il Village Voice ha titolato «Gipsy road, take me home», ovvero, parafrasando la celebre canzone di John Denver (Take me home, country road), portami a casa, strada tzigana.
Pubblicato il: 14.04.08 Modificato il: 14.04.08 alle ore 9.12 © l'Unità.
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