2/7/2007 (7:9) - INTERVISTA
"Non abbiamo capito il Nord"
Fassino: «Faremo di più per le medie imprese e il Lombardo-Veneto»
ANDREA ROMANO
Qualche giorno fa stavo passeggiando sotto i portici di piazza San Marco. Ogni tanto mi affacciavo a curiosare dentro qualche portone. Erano tutti perfettamente puliti, tranne uno: squallido, deprimente e pieno di cartacce. Era l’ingresso di un ufficio dell’amministrazione pubblica statale. L’ho trovata una perfetta rappresentazione dell’immagine umiliante che talvolta lo Stato italiano riesce a dare di se stesso alla società del Nord». In partenza per Pechino, con la prima delegazione ufficiale del Pse (Partito socialista europeo) in visita in Cina, Piero Fassino inizia dalla questione settentrionale per una riflessione sullo stato di salute del centrosinistra.
Pochi giorni fa, Veltroni che lancia da Torino la sua candidatura. Mercoledì prossimo, lo stato maggiore della politica italiana che torna sotto la Mole per il lancio della nuova 500. Esiste una «ricetta Torino» che il centrosinistra vuole prendere a modello per l’intero Nord Italia?
«Più che un modello, Torino è la metafora del cambiamento che l’Italia ha conosciuto in questi anni. La città è riuscita a superare un durissimo ventennio di crisi, dopo essere stata per quasi un secolo la perfetta factory-town. Ha fatto i conti con la fine della centralità assoluta della Fiat, con il venir meno delle certezze legate a quel modello di produzione e socializzazione, ha sofferto il prezzo della delocalizzazione e della crisi dell’indotto. Ma nel pieno di una crisi così difficile ha saputo trovare la via della trasformazione virtuosa».
Ma cosa c’entra, questo, con il centrosinistra?
«C’entra eccome, perché Torino è riuscita a passare nel nuovo secolo senza rinnegare la propria antica identità industriale anche grazie a uomini come Castellani e Chiamparino. Questo è esattamente quanto sta facendo la sinistra italiana dando vita al Partito democratico, come ha voluto sottolineare anche Veltroni: misurarsi con il tempo nuovo senza rinnegare la propria storia».
Tuttavia il caso Torino è diverso dal resto del Nord Italia, dove il centrosinistra registra una pesante sofferenza di consensi.
«Innanzitutto va sfatata l’immagine secondo cui il centrosinistra non riesce a rappresentare il Nord. In realtà, noi governiamo sei regioni su otto e la gran parte dei principali capoluoghi, da Torino a Genova a Venezia. Ma esiste certamente un problema con il Lombardo-Veneto, dove non abbiamo colto fino in fondo i valori dell’innovazione, del saper fare e dell’intraprendere che sono tanto diffusi nell’area. Non ci siamo riusciti perché non abbiamo riconosciuto fino in fondo la dignità del nuovo capitalismo molecolare che anche qui è riuscito a rinnovarsi. Per troppo tempo abbiamo guardato con sufficienza all’esplosione di piccole e medie imprese che nel Nord Est sono riuscite a riprendere la strada dell’export e della competitività, come se si trattasse di un fenomeno effimero».
E’ solo un problema di analisi socio-economica o anche di risposte politiche sbagliate?
«Non avere riconosciuto la novità del fenomeno ci ha impedito di far capire il senso di scelte politiche anche giuste. Verso le categorie degli artigiani e dei commercianti, ad esempio, è prevalsa una rappresentazione punitiva delle nostre politiche fiscali dominata dalla figura dell’evasore. Perché non è che scarseggino gli evasori, com’è ovvio, ma è mancato da parte nostra il riconoscimento dell’enorme fatica professionale che ogni giorno viene compiuta da quei settori produttivi. Analogamente dobbiamo fare di più su alcuni nodi programmatici concreti. Sulle infrastrutture, lo sblocco della Tav è stato un passo simbolico fondamentale per cominciare a rispondere all’enorme problema della saturazione del Nord. Sul fisco, dobbiamo andare oltre la percezione persecutoria delle nostre politiche di tassazione. Sulla pubblica amministrazione, tanto per fare un esempio, è del tutto evidente che a Varese sia impresentabile l’immagine di uno Stato che a Napoli tollera l’accumulo di montagne di immondizia. E infine sulla sicurezza, dove proprio il più alto livello di legalità che si registra al Nord rende più sensibile la percezione dei rischi di illegalità. Sono questi i temi che devono essere rimessi al centro della nostra politica. E deve farlo innanzitutto il Partito democratico».
Fatto sta che in un solo anno i consensi al governo Prodi si sono dimezzati, attestandosi oggi poco sopra il 25 per cento.
«Io sono convinto che il trend del consenso possa essere rovesciato, con misure come il nuovo contratto sul pubblico impiego, lo sblocco della Tav, l’aumento delle pensioni più basse, la riforma degli ammortizzatori sociali e il federalismo fiscale. D’altra parte è da molto tempo che sostengo l’esigenza di accompagnare l’adozione di scelte doverose ma pesanti, come quelle che abbiamo fatto l’anno scorso con una finanziaria di risanamento, all’apertura di una fase di innovazione e cambiamento necessaria a dare ossigeno al Paese».
Quindi, da oggi in poi tutto dovrebbe aggiustarsi?
«Penso che la legislatura possa durare fino al 2011, a patto di governare con la determinazione di queste ultime settimane, anche se non mi nascondo la nostra fragilità al Senato. Ma dobbiamo lasciar tempo e spazio anche a nuovi processi politici: la decisione dell’Udc di distanziarsi da Forza Italia e da An può essere l’inizio di un percorso. Analogamente, possiamo verificare con la Lega la possibilità di intese su fisco e autonomie. Non si tratta di ipotizzare nuove coalizioni, ma di costruire direttamente in Parlamento convergenze con forze che non fanno ancora parte della maggioranza, ma che non accettano più di essere un’opposizione pregiudiziale».
Lei ha detto che il sindaco di Roma è stato scelto non perché più bravo di altri ma «perché non ha le nostre ferite». Ma quali sono le ferite di Fassino? Cosa le ha impedito di candidarsi alla guida del Partito democratico?
«È innegabile che in questi anni io, D’Alema e altri dirigenti abbiamo combattuto un’aspra battaglia di prima linea, sia contro il centrodestra, sia nella maggioranza, confrontandoci con la sinistra radicale. Per il fatto di essere rimasto un passo indietro, impegnato a governare Roma, Walter risulta meno logorato di noi e quindi più accattivante, sia per l’elettorato del centrodestra che per quello della sinistra radicale. È un dato di fatto, anche se il mio profilo di riformista non è certo meno innovatore e moderno di quello di Veltroni».
In vista delle primarie per il Pd, alcuni esponenti Ds, come D’Alema, sembrano osteggiare la sua proposta di un’unica lista unitaria dei riformisti a sostegno di Veltroni.
«Io penso a una pluralità di liste regionali che siano rappresentative di diverse realtà territoriali, ma che uniscano i riformisti di tutte le aree politiche. Quello che non trovo convincente è la nascita di liste contrapposte, ispirate unicamente al desiderio di visibilità di questo o quell’esponente di partito o all’intenzione di misurare la forza di correnti o cordate personali».
E in questo percorso non vede alcuno spazio per un ritorno nel Pd di coloro che hanno lasciato i Ds?
«Non solo vedo questo spazio, ma auspico la possibilità che tornino tutti coloro che se ne sono andati sulla base di un pregiudizio. Non capisco perché, quando a Firenze io lavoravo per il Pd, stavo liquidando la sinistra, mentre oggi per Mussi e Caldarola va bene Veltroni che sostiene la stessa prospettiva da molti anni. La verità è che Mussi e altri non hanno mai digerito di essere stati sconfitti a Pesaro, hanno tenuto in piedi un’opposizione interna senza contenuti e alla fine hanno voluto compiere uno strappo pregiudiziale. Tornino pure tutti quelli che vogliono tornare, ma ammettano di essersi sbagliati su di me».
E cosa risponde a Macaluso che l’accusa di non aver compreso che Togliatti tacque di fronte a Stalin per salvare il Pci?
«Rispondo che non mi sfugge la grandezza di Togliatti come costruttore della Repubblica italiana, anche se questo non assolve i dirigenti del Pci dalla passività che ebbero di fronte allo stalinismo. E, in ogni caso, vorrei anche ricordargli che Stalin è morto nel 1953, il ventesimo congresso del Pcus è del 1956 ma, in questo mezzo secolo, a nessun esponente della generazione di Macaluso è venuto in mente di compiere un semplice atto di riparazione alla memoria dei tanti antifascisti e comunisti italiani trucidati dal terrore staliniano».
www.lastampa.it/romano