Admin
Utente non iscritto
|
|
« inserito:: Aprile 01, 2008, 12:03:35 am » |
|
La falsa protezione
Salvatore Lupo
«Mai più soli» è il titolo di un libro bianco sulla lotta contro il racket delle estorsioni mafiose, edito da l’Unità assieme al Centro Studi Pio la Torre, in edicola da oggi assieme al nostro giornale. Il volume, curato da Gilda Sciortino, contiene testimonianze, interventi e dati statistici raccolti presso le vittime, gli investigatori, i magistrati e le associazioni antiracket di Palermo, in un momento che vede crescere risposte e iniziative. Qui pubblichiamo l’intervento dello storico Salvatore Lupo.
Il pizzo è il segno visibile del controllo del territorio da parte della mafia, e delle varie forme di mafia; nonché il primo e maggiore veicolo dell’inquinamento del mondo dell’impresa. Gli imprenditori meglio collegati in partenza alle cosche traggono da questa relazione un accesso più favorevole ai mercati. Ovvero, la moneta cattiva scaccia quella buona. Alcune delle vittime delle estorsioni traggono da questo stato di fatto delle buone ragioni per trasformarsi in complici dei loro carnefici: è il meccanismo genetico dell’impresa mafiosa. Altri subiscono per semplice paura. Ci sono aree grigie intermedie, difficili da collocare tra questi due estremi.
È d’altronde accaduto che anche grandi imprese settentrionali, per le loro attività in una grande città siciliana, siano state qualche tempo fa accusate di aver mantenuto un atteggiamento «improntato alla massima chiusura nei confronti degli organi inquirenti, sull’evidente presupposto del riconoscimento del diffuso potere del sodalizio mafioso». Certamente ci sono stati a maggior ragione, e ci sono ancora, silenzio e omertà tra gli operatori economici locali. Non era solo per paura se fino a poco tempo fa - discutendo di estorsione e usura - i commercianti siciliani si esibivano in violenti attacchi allo Stato «assente», in recriminazioni a non finire contro le associazioni di categoria passive e inefficienti, in proteste per i ritardi degli indennizzi previsti dalle nuove leggi in caso di danneggiamenti - ma senza che la mafia fosse mai citata tra i nemici da combattere. Se si avevano reazioni degne di questo nome, era in aree di recente infezione: caso tipico, Capo d’Orlando. A Palermo la mappa del pizzo coincideva con quella delle famiglie mafiose, che era poi quella antica del firriato, degli agrumeti della Conca d’oro. Da sempre gli imprenditori tenevano la bocca chiusa e, se citati in tribunale - nei processi di periodo fascista o in quelli istruiti dal pool degli anni 80 -, rispondevano ai magistrati che non di estorsione si trattava, ma di un servizio di protezione del quale non potevano che essere grati; oppure negavano del tutto qualsiasi transazione con le cosche, per quanto i loro nomi comparissero a chiare lettere nei libri mastri di Cosa nostra. Non per caso Libero Grassi rimase inascoltato e isolato, pagando quel suo isolamento col sacrificio della vita.
Siamo davanti a blocchi strutturati di potere o di interesse; è anche vero, però, che si tratta di transazioni complesse e sfumate. Ho altra volta citato il «complesso di Stoccolma», che lega rapiti e rapitori, vittime e carnefici, in un ambiguo rapporto di solidarietà dovuto al fatto che la vita degli uni dipende in ultima analisi dalla benevolenza degli altri, con la comune ostilità che si rivolge contro il terzo (l’autorità) che con la sua irragionevole rigidità può pregiudicare il buon esito della trattativa. Dal canto suo, sin dalle sue origini l’organizzazione mafiosa fa ricorso a un rituale nel quale estortore e mediatore si presentano come figure ben distinte, in un gioco delle parti nel quale il primo fa richieste irragionevoli e il secondo propone soluzioni del tutto praticabili. Alla fine il commerciante minacciato nella vita e negli averi troverà opportuno andare a una transazione e rimarrà persino grato all’«amico buono», al personaggio autorevole che gliela propone. Per avere un tal effetto non è necessario che la vittima creda sino in fondo che il gioco delle parti sia quello che pretende di essere: come scriveva Pirandello quasi un secolo fa raffigurando uno di questi benevoli mediatori, «nessuno ci credeva, e nemmeno lui credeva che gli altri ci credessero».
Ne derivano due conseguenze, la prima di tipo conoscitivo, la seconda di tipo pratico. Il fatto che l’estorsione ami, con maggiore o minore verosimiglianza, mascherarsi da protezione, o magari da contributo volontario dei concittadini per la difesa dei picciotti iniquamente arrestati, non rappresenta criterio sufficiente di distinzione concettuale tra i due termini del binomio protezione/estorsione, né lo è la percezione soggettiva degli interessati, visto che l’organizzazione mafiosa usa mille artifici per accreditare la propria funzione protettiva, e quindi riesce a creare le condizioni che le consentono di svolgere un ruolo protettivo. «Si agisce quindi - notava Gaetano Mosca già nel 1901 - in maniera che la vittima stessa, che in realtà paga un tributo alla cosca, possa lusingarsi che esso sia piuttosto un dono grazioso o l’equivalente di un servizio reso anziché una estorsione carpita colla violenza».
Insomma, nel fenomeno mafioso l’estorsione e la protezione rappresentano due facce di uno stesso meccanismo. I mafiosi cercheranno di convincere che di protezione si tratta l’opinione pubblica dei quartieri popolari, quella dei quartieri borghesi, i commercianti e gli imprenditori: perché in questo caso otterranno non solo forti entrate finanziarie, occasioni di affari, cointeressenza in imprese, possibilità di sistemare affiliati ed amici, ma anche ragioni di legittimazione e consenso. Agli avversari dei mafiosi toccherà invece dimostrare che in aree inquinate dalla presenza mafiosa diminuiscono, insieme al tasso complessivo di sviluppo economico, anche le occasioni di profitto per commercianti e imprenditori, nonché le occasioni di lavoro: per ogni operatore economico avvantaggiato dal contatto con le cosche ce ne sarà più d’uno che deve pagare in silenzio una tassa priva di alcun corrispettivo, che deve subire la concorrenza sleale degli amici dei mafiosi forniti di superiore liquidità, cui tocca acquistare merci che non gli servono o assumere gente che non sa fare nulla, sino a ridurre artificiosamente l’attività per non destare «attenzioni», o uscire del tutto dal mercato.
Nei confronti di queste sue vittime la mafia non dovrebbe crearsi alcun consenso, e in effetti proprio qui essa pone in atto la coercizione, i danneggiamenti, le minacce truci, le umiliazioni e le aggressioni fisiche. Però non è ugualmente facile che si realizzino opposizioni esplicite. Dal punto di vista pratico, è evidentemente assai complesso rompere questa rete di sudditanza prima che le forze dell’ordine riescano ad abbassare la soglia dell’impunità, a mutare la diffusa percezione dell’invincibilità di questa cosiddetta mostruosa piovra - percezione esagerata ad arte dagli stessi mafiosi con l’inconsapevole appoggio dei media e, in qualche caso, degli stessi avversari della mafia. Se a trattare sono personaggi che per voce comune si sono macchiati di delitti di sangue a decine, che notoriamente godono dell’impunità per questo tipo di crimini, oltre che per quelli meno gravi (come potrebbe essere l’estorsione), possiamo comprendere che, dopo la fase della trattativa, a patti stabiliti, i pagamenti avvengano in un clima di collaborazione - secondo lo schema di gran lunga prediletto dagli stessi estortori/protettori.
Diverse sono le situazioni che vedono la magistratura e l’autorità di pubblica sicurezza colpire duramente, scompaginare i ranghi dell’organizzazione mafiosa, eliminare i referenti più temuti o solo più consueti. Questa è la situazione attuale, e credo sia per questo se oggi la situazione sta cambiando, se ci sono state anche a Palermo denunce di singoli commercianti. Però siamo anche davanti ai risultati dell’opera sensibilizzatrice dei movimenti antiracket - parliamo di Addio Pizzo e di altre associazioni che cercano di dare una risposta collettiva all’estorsione non lasciando il singolo imprenditore solo, faccia a faccia con l’organizzazione criminale. Più di recente, la Confindustria siciliana guidata da Ivan Lo Bello ha preso posizioni molto nette, coraggiose e innovative su questo piano. Nel complesso la società civile siciliana, fantasma evocato in questi anni sia a proposito sia (molto) a sproposito, sta dando qualche segnale di sé. Speriamo solo che le istituzioni di governo - nazionali soprattutto, ma anche regionali e locali - sappiano sostenere chi in questa nostra isola prova a cambiare qualcosa.
* Professore di storia contemporanea Università di Palermo
Pubblicato il: 31.03.08 Modificato il: 31.03.08 alle ore 11.24 © l'Unità.
|