Economia
04/02/2012 - Dossier/ La diffidenza degli investitori
Così la giungla-Italia fa paura alle imprese
3,7% i posti di lavoro offerti in Italia da aziende straniere.
In Francia la quota è al 14%, in Germania al 9
Burocrazia impossibile, leggi che cambiano da un anno all’altro, giustizia civile dai tempi biblici, tasse alle stelle
Puntereste denaro su un Paese così?
MARCO ALFIERI
L’ articolo 18 scoraggia gli investimenti stranieri in Italia», dice il premier Mario Monti, allargando il fronte polemico dopo l’uscita sulla monotonia del posto fisso. Se è opinabile il grado di responsabilità dell’art.18 nello scoraggiare investimenti dall’estero (le imprese a capitale straniero spendono 5 volte in ricerca e sviluppo la media delle nostre aziende), è un fatto che l’Italia, da 20 anni, è fanalino di coda tra i paesi industrializzati nella capacità di attrarre Ide, gli investimenti diretti esteri.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Unctad, Roma non rientra nella top 20 dei paesi più interessanti per i progetti di espansione di una multinazionale tipo. In classifica ci sono ovviamente i paese Brics ma anche la vecchia guardia al completo: Usa, Inghilterra, Francia e Germania. E il Belpaese? Fuori dai radar che contano. Dopo la crisi ancora di più (gli americani di Alcoa tra poco lasceranno la Sardegna), basti dire che gli Ide nel triennio 2008-2010 sono scesi a 18 miliardi, appena l’1,6% della torta che affluisce in Ue. Contro i 90 miliardi in Germania, 132 in Francia, 112 in Spagna, 208 nel Regno Unito e 228 in Belgio. Vero è che «le imprese a capitale estero in Italia danno lavoro a 1,3 milioni di addetti, generando un fatturato di oltre 500 miliardi di euro», come scrive il presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi. Ma se rapportiamo il volume degli investimenti fissi, quelli esteri valgono la miseria dell’1,7% del totale italiano contro una media Ue dell’11,3 per cento. Lo stesso vale per l’occupazione: in Francia 14 lavoratori su 100 lavorano in aziende a controllo straniero, in Svizzera e Germania la percentuale scende a 9,2, in Italia crolla al 3,7.
Numeri e cifre che infrangono un luogo comune radicato: non è detto che i capitali internazionali cerchino solo i bassi costi di produzione e le poche regole. «Nell'ultimo triennio - calcola l’economista Alessandro Penati - l’Europa ha attratto 1.138 miliardi di Ide contro i 686 degli Usa e i 1.039 dell’intera Asia. Il capitale chiede anche competenze, opportunità, tecnologia, innovazione, trasparenza e regole certe».
Qualche mese fa, ad esempio, il colosso dei giocattoli Wham-O, che produce frisbee e Hula Hoop per i ragazzini di mezzo mondo, ha spostato metà delle sue fabbriche dalla Cina in California e Michigan. Caterpillar, per produrre la sua nuova escavatrice, non ha scelto i costi bassi dell’Asia ma una cittadina della Carolina del Nord, che ha messo sul tavolo un pacchetto di incentivi da 14 milioni di dollari. Ford e Ncr sono appena rientrati a produrre negli States. Negli Usa la chiamano «insourcing». La ragione è che in Cina con l’inflazione sta aumentando tutto: i prezzi alla produzione, gli alimentari, la terra e il costo del lavoro (+20% l’anno), ben oltre una produttività frenata dai pochi investimenti in tecnologia e formazione.
Uno scenario che in teoria rimette i paesi occidentali nelle condizioni di poter giocare le nuove guerre di mercato. A patto di rendere attrattivo il proprio sistema paese e, insieme, internazionalizzarsi nel mondo con le proprie imprese.
Invece anche in questo indicatore l’Italia è in ritardo: i nostri Ide in uscita valgono appena il 5% di quelli Ue. Per Marco Mutinelli e Sergio Mariotti, autori di Italia Multinazionale, «il nostro grado di internazionalizzazione è più basso rispetto a quello dei partner europei». Investimenti in entrata e uscita si tengono: nel mercato globale si è insieme «prede» e «cacciatori» o non si è nulla. Anche per questo le nostre poche multinazionali tascabili sono vulnerabili allo shopping straniero. «Non riusciamo ad attirare capitali perché non offriamo opportunità di investimento adeguate», continua Penati. L’Italia è «un’economia sempre più insulare, dove solo gli italiani hanno convenienza a investire».
Gli ostacoli da eliminare sono noti da tempo: alta pressione fiscale su imprese e lavoro, riforma della giustizia per dare certezza agli investimenti, mercato del lavoro flessibile, semplificazione burocratica, accesso ai capitali efficiente e meno salotti buoni intenti a blindare il nostro capitalismo. E’ il momento di rimuoverli. Per non condannarci ad un futuro da paese di puro consumo.
da -
http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/441162/