LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 03:44:59 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Anche il pieno di benzina fa vacillare Ahmadinejad  (Letto 5046 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Giugno 29, 2007, 04:16:05 pm »

Anche il pieno di benzina fa vacillare Ahmadinejad

Gabriel Bertinetto


«Siamo forse in guerra? Siamo un Paese povero? Siamo un Paese senza risorse energetiche? No. E allora perché mai dobbiamo fare la fila per ore ai distributori di benzina»? Nello sfogo di un automobilista esasperato, raccolto ieri ad una delle tante pompe di benzina a Teheran il giorno dopo l’entrata in vigore del razionamento, c’è tutta la rabbia e lo stupore dei cittadini iraniani di fronte al segno tangibile che i tempi stanno cambiando e forse volgono al peggio.

Abituati da decenni a sopravvivere grazie ai sussidi statali che tamponavano le inefficienze strutturali del sistema economico, si trovano di colpo di fronte ad una realtà dolorosa: nemmeno i proventi delle vendite petrolifere bastano più a coprire i buchi nei conti pubblici. Gli iraniani si erano cullati nell’illusione che i giacimenti d’oro nero fossero in tutti i sensi dei pozzi senza fondo. Tesori inesauribili da cui attingere la dose giornaliera di assicurazione pratica ed emotiva di fronte alle incognite del futuro. Ora scoprono di essere vulnerabili. E la reazione diffusa è una generale rivolta nei confronti di colui che viene ritenuto responsabile di avere dissipato un patrimonio di inestimabile valore: Mahmud Ahmadinejad.

Le manifestazioni spontanee che sono divampate a Teheran e in altre città, purtroppo accompagnate in alcuni casi da vandalismi e saccheggi, erano principalmente indirizzate contro di lui, il presidente eletto due anni fa proprio con il sostegno di quei ceti popolari che oggi si sentono traditi. Avevano creduto alle sue promesse di miglioramenti economici, salari più alti, nuovi posti di lavoro, lotta alla corruzione. Si ritrovano alle prese con il carovita, la disoccupazione per nulla diminuita, sprechi del denaro pubblico denunciati persino da dirigenti politici prima vicini ad Ahmadinejad. Ed ora non possono più nemmeno fruire di un privilegio diventato parte della quotidiana normalità: la disponibilità illimitata di carburante a prezzi bassissimi.

Lo Stato non ce la fa più a sovvenzionare gli acquisti di benzina. Perché, paradossalmente, il secondo produttore mondiale di greggio è talmente arretrato dal punto di vista tecnologico da non poter raffinarne che una minima parte. Lo esporta e con il ricavato della vendita, compra all’estero il quaranta per cento della benzina per autotrasporto di cui ha bisogno. Il meccanismo ha funzionato a lungo ma è entrato in crisi, sostengono alcuni economisti iraniani, grazie all’incapacità amministrativa di Ahmadinejad, che ha dissipato buona parte dei proventi delle esportazioni petrolifere al punto che scarseggiano i fondi per acquistare il carburante oltrefrontiera.

Non solo, la linea oltranzista scelta dal capo di Stato nel confronto con la comunità internazionale a riguardo del programma nucleare di Teheran, espone il Paese al rischio di nuove sanzioni che potrebbero colpirne proprio il commercio petrolifero. Il razionamento della benzina è una risposta ad entrambi i problemi, la crisi finanziaria attuale e quella incombente. La risposta di un governo con l’acqua alla gola, e crescentemente impopolare.

Tutto ciò sembra piuttosto chiaro agli osservatori. Meno facile è capire se l’impopolarità di Ahmadinejad corrisponda ad un suo effettivo indebolimento politico. Nel mese di dicembre il capo di Stato fu contestato dagli studenti in uno degli atenei dove si era recato per un comizio. Sembrò che Teheran potesse rivivere in parte i fasti della protesta giovanile che negli anni passati scosse il regime e provocò o favorì alcune importanti svolte libertarie. Nel giro di pochi giorni però tutto tornò calmo. La macchina della repressione riprese a funzionare.

Anche ieri di fronte al divampare della protesta, gli apparati di sicurezza e controllo hanno reagito con prontezza con disturbi alle comunicazioni telefoniche cellulari e in particolare all’invio di sms, e con il divieto alla stampa di diffondere resoconti «negativi» sulla rivolta contro i razionamenti. Non tutti i giornali si sono prestati alla manovra di disinformazione, ma la televisione di Stato in particolare se ne è fatta pienamente interprete ed esecutrice, diffondendo interviste a cittadini felici del razionamento e nascondendo le notizie sulle dimostrazioni antigovernative.

Le critiche dall’interno dell’establishment sono sempre più frequenti. Recentemente 57 economisti hanno firmato una lettera aperta sostenendo che le misure decise da Ahmadinejad, prima ancora che entrasse in vigore il razionamento, hanno provocato aumenti dei prezzi in molti settori, a partire da quello edilizio. E già tre mesi fa l’Ufficio di ricerca del Majlis (Parlamento), un organismo consultivo molto influente, aveva attaccato il capo di Stato accusandolo di prelevare «senza prudenza e considerazione» dal fondo speciale statale dei proventi petroliferi.

Contro di lui sempre più spesso si schierano non solo i riformatori un tempo guidati da Mohammad Khatami, che sono una minoranza, o i pragmatici che fanno riferimento a Rafsanjani, e la cui consistenza numerica è piuttosto fluida, ma anche una buona fetta dei conservatori. Questi ultimi sono infatti divisi fra religiosi e laici. I primi fanno capo alla Guida suprema, ayatollah Khamenei, e controllano gran parte delle istituzioni statali, dal Parlamento agli organi di raccordo fra potere politico e religioso, come il Consiglio dei guardiani. I secondi, capitanati da Ahmadinejad, hanno in mano l’esecutivo e le milizie integraliste (Basiji), mentre è meno chiaro da che parte pendano i Pasdaran, cioè la Guardia rivoluzionaria, che è il principale corpo militare.

Pubblicato il: 29.06.07
Modificato il: 29.06.07 alle ore 7.45   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Giugno 30, 2007, 07:34:33 pm »

Nel covo dei ragazzi-bomba di Kabul
di Claudio Franco da Kabul


Viaggio nella base sotterranea alle porte della capitale afghana. Dove si addestrano i kamikaze che attaccano le truppe Nato  
Tutto è cominciato con mezzo quintale di cocomeri, in un mercato periferico di Kabul, direzione nord-ovest, verso le montagne che circondano la capitale. Eravamo appena arrivati, interprete e cronista, nervosi e sudati, con istruzioni precise: spegnere il motore e aspettare. Ci vuole pazienza: i talebani non hanno mai fretta. È passata solo una decina di minuti quando qualcuno comincia a bussare freneticamente sul vetro posteriore del nostro fuoristrada: "Ahmed, apri il baule per favore.". Nessuno di noi due si chiama Ahmed. L'interprete apre il finestrino, convinto di un errore, ma in un istante è tutto chiaro e lo sentiamo sbloccare la sicura delle porte. Un ragazzo apre lo sportello posteriore, saluta e comincia a caricare cocomeri: prima cinque, poi dieci alla fine saranno mezzo quintale. "Andiamo?", dice salendo in macchina. L'interprete mi rassicura, mormora con un filo di voce: "Si vede che conoscevano la nostra targa sin da quando abbiamo noleggiato la jeep. Tutto a posto. Andiamo avanti...". I telebani sono fieri di quanto riescono a essere invisibili a casa loro: amano stupirti rivelando una conoscenza minuta dei tuoi movimenti. Un metodo mafioso, diremmo in Italia: non hanno nessun bisogno di farsi notare, ma controllano il territorio. Sono quasi le sei quando riusciamo a uscire dal traffico di Kabul: il nostro contatto si occupa di togliere le batterie dei telefoni, poi rimuove la sim card, smonta il satellitare; tutto finisce in una busta di nylon e scompare nei suoi abiti. Dopo mezz'ora ci fermiamo ai lati della grande strada. Scende un silenzio pesante. Dietro un cespuglio ci aspettano in due: barba d'ordinanza e turbante da mullah, come i religiosi dei villaggi. Tutto avviene in un attimo. Il primo afferra il volante rapidamente e mi ordina di sedere dietro, il secondo abbraccia la giovane guida e sparisce.

Comincia così l'ultima fase del viaggio verso la base segreta dei talebani, quella in cui addestrano l'arma più importante: gli artificieri che preparano le trappole al tritolo contro le truppe della Nato e contro i battaglioni fedeli al governo Karzai. Guerriglieri votati al martirio, pronti a farsi saltare in aria per colpire dove e quando necessario. Ma che, contrariamente ai fondamentalisti del Sud, mettono al primo posto la liberazione dell'Afghanistan e non la guerra santa in nome dell'Islam. Qui alle porte di Kabul le squadre d'assalto dirette da Mohammed Khan usano i metodi di Al Qaeda come risorsa estrema: il loro modello rimane quello della resistenza contro i sovietici.

Il percorso verso la base è molto difficile. Il nuovo arrivato non lascia niente al caso. La sua priorità è rendere cieco lo straniero. Con calma, si prende cura dei miei occhi: ritaglia delle sagome ovali da un rotolo di adesivo da pacchi. Ripete l'operazione almeno tre volte e preme strato contro strato nelle orbite. Sento che mi mettono un paio di occhiali da sole a fascia, di quelli che coprono quanto possibile. Poi ordina con tono perentorio: "Devi far finta di vedere, devi guardarti intorno. Passeremo in mezzo a un villaggio tra poco. Volta la testa a destra e a sinistra, di tanto in tanto. Conta fino a 30 e poi girati verso il finestrino...", intima ancora. Sento voci, rumori di negozi, forse i suoni di un mercato: "Siamo nel nostro villaggio", dicono i due talebani sollevati e quel 'nostro' sembra scandito a lettere maiuscole. Perché in Afghanistan si divide tutto per appartenenza.

Superato il villaggio, procediamo per dieci minuti su un sentiero arduo anche per un fuoristrada. Quando la macchina rallenta, io credo si tratti di un semplice ostacolo sulla strada. Invece siamo arrivati: sento scattare lo sportello, qualcuno mi afferra per le spalle e mi trascina fuori, in silenzio. Stanno separando me dal'interprete. Distinguo una serie di mani che mi perquisiscono, voci concitate, sento il traduttore protestare in lontananza e prego che la smetta subito. I miei custodi mi stringono una sciarpa intorno a occhi e orecchie, così stretta da farmi perdere anche l'ultima briciola di orientamento. Adesso ci muoviamo, un uomo mi abbraccia con forza e mi conduce su un sentiero strettissimo: in un inglese frammentato mi sussura di stare attento a dove metto i piedi. Alla mia destra avverto il vuoto: "Se perdi l'equilibrio lasciati andare sulla sinistra, dimentica la direzione opposta". Procediamo a picccoli passi per qualche minuto e ci fermiamo: sento trascinare una porta, qualcosa si apre. È un rumore di sterpi, come un cespuglio trascinato. Scoprirò solo più tardi che si tratta di un'entrata nascosta da una parete di spine. Il mio custode mi schiaccia contro il suolo: devo essere in una galleria. Passa una manciata di secondi e siamo di nuovo in piedi, ma non faccio in tempo a ritrovare l'equilibrio che mi ritrovo a terra; questa volta si tratta di strisciare e con le dita e sento il metallo caldo di una lastra. Siamo sotto terra, in un tunnel. Per un istante ho paura, non sento i passi dell'interprete che mi dovrebbe seguire sotto scorta: lo chiamo ad alta voce, poi urlo il suo nome una seconda volta, ma non arriva risposta. Provo a chiedere che sta succedendo, ma fortunatamente siamo arrivati. Mi spingono verso il basso, questa volta per farmi sedere, e subito mi liberano gli occhi.

Davanti a me c'è lui: Mohammed Khan, 'il Comandante', che mi stringe nel tradizionale 'abbraccio dell'orso' e mi dà un benvenuto ironico: "Ho sentito molto parlare di te". Sono tre anni che cerco di incontrarlo, tomentando mediatori e conoscenti per arrivare a un'intervista. Mohammed Khan, e questo ovviamente è un nome di battaglia, dirige le azioni più importanti nella capitale: ai suoi ordini ci sono 350 uomini, gran parte dei quali esperti nelle trappole esplosive e pronti ad azioni suicide. Ogni mese le sue cellule compiono una decina di attacchi: a metà giugno hanno distrutto un autobus, assassinando almeno 25 poliziotti. Sarà lui uno dei generali dell'annunciata offensiva contro il cuore del potere di Hamid Karzai. Ma si occupa anche di addestrare le nuove reclute: sceglie e prepara i martiri per gli attacchi kamikaze. Il Comandante prima di tutto mi ricorda quello che rischio: "So bene che potresti avere un segnalatore satellitare nascosto dentro la telecamera, ma hanno garantito che di te posso fidarmi. E voglio fidarmi: ma tieni a mente che basta solo uno scherzo e non torni a casa. Non fare movimenti improvvisi, non avvicinarti agli esplosivi e non interferire. Puoi filmare la lezione liberamente, senza distrarre gli allievi: loro devono capire e non ci sarà tempo per ripetere le istruzioni". La lezione? "Oggi ci occuperemo di come si costruisce una bomba, uno di quegli ordigni che gli stranieri chiamano Ied. Ieri abbiamo lavorato sui meccanismi per farla esplodere da lontano, come micce e telecomandi". Chiedo di poter vedere le reclute degli attacchi suicidi. Si apre la porta ed entrano in sette: "Eccoli, sono tutti pronti al martirio. Ma le operazioni kamikaze si usano solo quando non ci sono alternative: a nessuno piace perdere un soldato se possiamo farne a meno. E questi sono mujaheddin di valore, addestrati per usare ordigni telecomandati. Gli abbiamo insegnato a combattere in campo aperto, nelle grandi offensive, o ad agire nella guerriglia casa per casa. Insomma, non sono carne da cannone. Certo, se non abbiamo altre strade per arrivare al bersaglio, per esempio per colpire un obiettivo di alto profilo come un ufficiale americano, allora affidiamo l'attacco a un kamikaze. Ma sacrifichiamo un solo uomo, non mandiamo al massacro l'intera cellula". Mohammed Khan è pragmatico: "La guerra contro i Russi l'abbiamo vinta senza azioni suicide. Oggi abbiamo un'arma in più, la vita di questi ragazzi, ma ciò non significa che li utilizziamo come le pallottole da un dollaro".

Nelle parole del Comandante non c'è nulla della retorica fondamentalista che riempiva i discorsi di altri leader talebani come Dadullah, il responsabile militare che ha sequestrato Daniele Mastrogiacomo, ammazzando il suo interprete e il suo autista, per poi saltare in aria nel sud dell'Afghanistan, appena cinque giorni dopo essere rientrato da oltreconfine. In questo emergono le radici di Mohammed Khan che non si è formato nelle scuole coraniche, ma tra i ranghi di Hizb-e-Islami, la fazione jihadista fondata dal capo Hekmatyar negli anni delle battaglie contro l'Armata rossa. Dal 2002 il Comandante si è unito ai talebani e oggi riconosce l'autorità suprema del mullah Omar, ma le sue reclute si sentono più guerrieri della libertà che ammazza-cristiani: vogliono scacciare gli stranieri dal Paese, non conquistare il paradiso dei martiri. Sono l'altra faccia dei talebani. E non sono i soli. Il riavvicinamente ad Al Qaeda voluto da Dadaullah e incoraggiato a suon di dollari dagli arabi di Miramshah, come sempre attraverso la famiglia Haqqani, signori e padroni del Waziristan settentrionale in Pakistan quanto delle province di Khost, Paktia e Paktika da questa parte del confine, non è stato apprezzato da un segmento importante, forse maggioritario, del movimento, unito però dalla lotta contro Karzai e contro le truppe occidentali.

Ma la politica è lontana dalla stanza sotterranea e la lezione deve cominciare: gli allievi prendono posizione intorno all'insegnante. Gli occhi che si affacciano dal passamontagna tradiscono l'età: si va dai 15 ai 38 anni, come ci confermano dopo. Versi del Corano che elogiano il martirio segnano l'inizio dei lavori. Poi si prega e le invocazioni non finiscono mai: obiettivo, leaders, mujaheddin e una litania di altre raccomandazioni che il mio pashto rudimentale non è in grado di cogliere. Le parole del maestro invece non hanno ambiguità: "Dunque, ieri abbiamo studiato il meccanismo per le esplosioni a distanza? Tutto chiaro? Oggi vedremo come costruire un ordigno. Non dovete distrarvi, si tratta di una procedura estremamente importante: anche il più piccolo errore, un contatto dei fili e salterete in aria". L'insegnante comincia ad estrarre dalla sua 'cartella' tutto il necessario per costruire le bombe più pericolose, quelle che hanno ucciso decine di soldati della Nato, assassinando anche militari italiani proprio sulle strade poco lontano da qui. Lentamente tira fuori batterie, cavi elettrici, micce detonanti, una discreta quantità di esplosivo di diverso genere: si tratta di Tnt e plastico C4, il pane quotidiano dei sabotatori. Infine una lattina, destinata a mimetizzare la trappola. I ragazzi sono perfettamente concentrati: nessuno si distrae per guardare lo straniero, nemmeno un'occhiata furtiva, pensano solo all'arma. Il maestro va avanti: unisce batterie e fili dell'innesco, spiega lentamente come distinguere i poli elettrici del detonatore. Poi passa alla carica e sbriciola un panetto di tritolo: "Deve essere come polvere; altrimenti l'esplosione è molto più debole". Sembra che il Tnt abbia un potenziale distruttivo più alto rispetto al plastico C4, ma spesso la soluzione micidiale consiste nel combinare le due sostanze. Il Comandante chiarisce che la lattina è solo un esempio: negli attentati si usano pentole a pressione costruite in Iran in lega di ghisa o, se si vuole demolire un edificio, fusti di benzina. La lattina è un modello in scala: la riempie di polvere di Tnt e plasma un tappo di C4 dove si inserisce il detonatore collegato al telecomando. Il tutto protetto da una coltre di nastro adesivo contro l'umidità: spesso queste mine sono nascoste nei canali ai lati delle strade o nelle fogne a cielo aperto delle città. Ma la bomba può essere usata per far scoppiare un'auto imbottita di altro esplosivo, come accade nelle azioni suicide. La lezione è di una semplicità choccante: bastano 15-20 minuti per completare un congegno devastante.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Giugno 30, 2007, 07:35:50 pm »


La seconda parte invece è più complicata. Si tratta di trasformare un razzo Rpg nell'elemento base di un ordigno ad alto potenziale. Trovare i razzi è facile: dai tempi dei sovietici ne circolano a migliaia. L'insegnante smonta la testata, la svuota dei sistemi di innesco e la riempie con la miscela di esplosivo collegata ai soliti fili. Poi si uniscono più razzi, legati fra loro da una miccia detonante che li farà esplodere contemporaneamente: anche dieci alla volta, in modo da scardinare persino un carro armato. Infine le ultime spiegazioni sulle pile elettriche. Certe volte le imboscate vengono preparate con grande anticipo, per sfuggire ai ricognitori volanti della Nato: per questo si uniscono 12 batterie, in modo da rendere l'ordigno funzionante per quattro, cinque giorni. Se le informazioni sono buone, i talebani possono così allestire l'agguato in tutta tranquillità.

Gli allievi sono interessatissimi. Fanno domande, qualcuno traduce dal pashto al dari e due parole vengono spese anche per l'unico uzbeko del gruppo: in questa squadra ci sono le etnie più importanti dell'Afghanistan. La lezione è durata circa un'ora. Gli uomini di guardia al piano di sopra cominciano a battere freneticamente sul soffitto: una casa anonima, probabilmente isolata, nasconde la struttura sotterranea. Le sentinelle stanno segnalando che il tempo a disposizione è finito. Il Comandante spiega che d'ora in poi siamo a rischio: "Abbiamo messo l'area sotto controllo per 90 minuti e, per evitare intercettazioni, non contatteremo i nostri uomini finché voi non sarete spariti". Il mio interprete mi fa cenno: "È meglio andare". Io invece insisto e chiedo di parlare con gli allievi. Il Comandante mi accorda qualche minuto: "Poi usciranno tutti tranne me. Potrete chiedermi quelle che volete". E aggiunge: "Così se succede qualcosa, moriamo in tre, non in dodici...", ma il mio interprete, uomo saggio, evita di tradurmi subito questa frase.

I ragazzi rispondono alle domande rilassati, senza nervosismo. Sono diversi dall'immagine dei talebani analfabeti, aggressivi e votati alla causa. Cosa ne pensate dell'11 settembre? La risposta è agghiacciante: "Non ne so nulla, non mi riguarda", replica Ajmal. Ajmal ha 17 anni, mostra occhi decisi, ma non ha nulla del fervore islamico che i suoi coetanei cresciuti in Pakistan offrono ai mullah. Avete mai incontrato reclute venute dall'Occidente? Parlano di volontari arrivati dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra: pochi, li indicano come "una manciata". Ma pur sempre un segno dell'evoluzione di questa guerra. Cosa contestate del modo di vita occidentale tanto da volerlo annientare? Abdul Rahman, il più anziano con i suoi 38 anni, non accetta la provocazione: "Non abbiamo problemi con gli occidentali che rimangono nel loro paese. Questa jihad riguarda coloro che hanno occupato la nostra terra". E colpireste in Occidente se vi fosse ordinato: "No, la nostra priorità è liberare l'Afghanistan. Una volta che avremo raggiunto il nostro scopo, procederemo a liberare il resto del mondo musulmano occupato degli infedeli".

I loro modelli culturali nascono prima di Al Qaeda: sono figli dell'ideologia del padre della jihad anti-russa, Abdallah Azzam, primo mentore di Bin Laden e fondatore di quell'avanguardia islamica che raccolse forze da tutto l'Islam per scacciare i sovietici. Era guerra, non terrorismo. Anche la scelta di diventare kamikaze viene ricondotta a quella tradizione. I vostri genitori vi sostengono?"Sì, la mia famiglia approva", risponde Faisal, 19 anni: "Anche i nostri padri hanno combattuto i russi, non facciamo che seguire la strada tracciata da loro". È Ajmal però a rendere la domanda superflua: "Anche la mia famiglia è pronta a farsi saltare in aria...". I ragazzi si stanno alzando per uscire quando il Comandante li ferma. Chiede a voce alta: "Chi di voi è pronto oggi stesso ad andare a Kabul per il martirio?". Alzano la mano, sereni, freddi, come ripetendo un voto. Parla uno per tutti: "Quando siamo scelti per una missione, abbiamo un unico scopo: colpire il bersaglio. Non importa tornare vivi".

La domanda finale del Comandante non è retorica, non serve solo come dimostrazione di fede davanti allo straniero. Mohammed Khan conferma: "Sì, stiamo per mettere a segno un attacco importante, stiamo scegliendo un obiettivo e se non ci saranno alternative, daremo l'ordine a uno di loro per un'azione senza ritorno". Durante la jihad anti-sovietica, il Comandante era in prima linea: combatteva contro l'esercito più potente del mondo senza bisogno di attacchi suicidi. È stato il conflitto in Iraq a trasmettere il modello del martirio? "Sono venuti dall'Iraq per addestrarci e per essere addestrati. Non sono in contatto con questi uomini, ma so che sono ancora all'opera qui. Non dobbiamo certo vergognarci per aver copiato la strategia irachena. Sono i nostri fratelli, non c'è niente di male nel seguire l'esempio di chi ha individuato un metodo di lotta efficace". Mohammed Khan ne parla come di una scelta obbligata, con una doppia valenza. "Primo, queste operazioni infliggono danni ingenti al nemico limitando le nostre perdite: per affrontare in campo aperto gli occidentali dovremmo mettere in conto molti più caduti. In secondo luogo, vogliamo dimostrare agli americani che non abbiamo paura di morire, che siamo pronti a diventare bombe umane per respingere il nemico".

Il tempo stringe e adesso tutti i talebani mostrano un nervosismo crescente. Le sentinelle sono impazienti, tengono il dito sul grilleto del Kalashnikov. È ora di andare. Gli allievi ripetono la procedura del nastro adesivo sugli occhi, poi nel giro di qualche minuto siamo sulla via del ritorno.Vicino alla jeep c'è un veicolo di scorta con il motore acceso. Due talebani salgono con noi e ci danno istruzioni: "Vi seguiremo da lontano finché non sarete fuori dalla nostra area. Se state tranquilli, andrà tutto bene". L'interprete prende il volante e preme sull'acceleratore. Pochi minuti e vediamo il profilo di Kabul. C'è un posto di blocco dell'esercito, quello creato dal governo Karzai e addestrato dalla Nato, quello riconosciuto dalle Nazioni Unite e che trae legittimazione dalle prime elezioni democratiche della storia afghana recente. L'ufficiale chiede in inglese: "Problemi? Posso fare qualcosa per voi?". Nessun problema, rispondiamo. Ma a sei anni dall'arrivo delle truppe occidentali è difficile essere ottimisti sul futuro del Paese.
 

Quelle armi targate Iran
 
C'è chi lo chiama già 'il sentiero di Ahmadinejah', parafrasando quel sentiero di Ho Chi Min che faceva arrivare da Hanoi le armi per i vietcong. E negli ultimi due mesi le segnalazioni sui carichi di materiali bellici prodotti in Iran e intercettati in Afghanistan si fanno sempre più frequenti: due convogli sono stati scoperti a inizio giugno. Finora, ha specificato il comando Nato, non ci sono prove per indicare un coinvolgimento diretto del governo iraniano in questi traffici. Ma la questione non è secondaria. Teheran ha sempre mantenuto un rigido controllo della frontiera afghana, per sbarrare la strada al narcotraffico e monitorare i movimenti dei profughi. E infatti dal 2001 a oggi le armi iraniane in mano ai talebani erano pochissime. Ora invece la fascia sul confine è diventata sempre più spesso zona d'operazione per l'aviazione e per i commandos americani, con raid che hanno provocato anche vittime civili. Una situazione che inevitabilmente coinvolgerà anche i soldati italiani: gran parte della frontiera, infatti, ricade nella regione affidata al comando
tricolore di Herat. E proprio dall'Iran sembrano provenire, stando alle dichiarazioni americane, quelle mine sofisticate in grado di distruggere anche i mezzi più corazzati: gli stessi che in Iraq hanno spezzato in due persino i colossali carri armati Abrams.
 

Papavero da record
 
Sarà il miglior raccolto di oppio mai visto negli ultimi cinquant'anni. Il clima ha fatto un regalo d'oro ai signori della guerra e ai talebani che si finanziano con le coltivazioni di papaveri. Come ha spiegato il comandante delle forze occidentali, il generale Dan McNeil, il disgelo sulle montagne dell'Hindu Kush e le piogge abbondanti hanno fatto prosperare i fiori che si trasformano in eroina: "Devo ammettere che quando sono arrivato in Afghanistan per la prima volta, cinque anni fa, le piantagioni non erano così floride". Il generale, dal quale dipendono sia le truppe della Nato che i reparti autonomi statunitensi, ha spiegato che non intende assistere al raccolto senza intervenire. "Sia chiaro: il mandato concesso dalla Nato prevede che l'attività anti-narcotici sia condotta nei limiti delle nostre capacità.

E noi non abbiamo gli strumenti e l'addestramento per distruggere le coltivazioni. Ma il programma del governo afghano contro la droga prevede otto capitoli di azione e ci sono aree in cui possiamo operare: ritengo di avere l'approvazione della Nato per farlo". La guerra dei papaveri condotta soprattutto dalla polizia di Karzai comincerà nelle prossime settimane. E renderà ancora più caldo il sud del Paese.

da espressonline
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!