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Autore Discussione: Paola Gaiotti de Biase - La Chiesa che non voglio  (Letto 2524 volte)
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« inserito:: Febbraio 26, 2008, 02:48:11 pm »

La Chiesa che non voglio

Paola Gaiotti de Biase


Confesso un duplice fastidio. Da una parte l’immagine trasmessa dai media di un Partito Democratico segnato al suo interno dallo scontro fra laici e cattolici è un’immagine falsa, che non registra la profondità dei processi avvenuti e non si accorge che, in realtà, anche sui temi cosiddetti eticamente sensibili, per ogni opzione, per quasi ogni sfumatura, salvo quelle estreme, registriamo una trasversalità fra credenti e non credenti. Dall’altra ritornano perennemente autorevoli interventi della Santa Sede e della Chiesa italiana sull’Osservatore Romano, sull’Avvenire, su Famiglia Cristiana, ora addirittura come commento alle candidature Radicali e di Veronesi, che lamentano l’irrilevanza dei credenti nella politica italiana, e nel Pd.

Se questi giudizi fossero esatti, l’immagine che ne emergerebbe sarebbe davvero di una Chiesa, una cristianità, in difficoltà, priva, da una parte e dall’altra, di un laicato capace di esercitare i suoi compiti da sé e di contribuire allo sviluppo della società italiana, un laicato che ha bisogno dell’intervento e della pressione diretta della gerarchia per farsi prendere sul serio dalla politica, di fatto senza idee e iniziativa propria. Una conclusione singolare in un Paese in cui viceversa, proprio sul terreno del rapporto fra società civile e politica, la vitalità di una presenza cattolica diffusa, di una molteplicità di soggettività sociali attive, di una gamma estesissima di esperienze comunitarie di vario segno, di produttori di cultura, ci dice ogni giorno del sale e del lievito evangelico diffuso.

Per molti di questi cristiani, singoli o associati, impegnati a una testimonianza che si muove entro l’etica della responsabilità, la verità, non priva di sofferenza, è un’altra. È la Chiesa che li vuole irrilevanti, è la Chiesa che preferisce ignorarli, è la Chiesa che li cancella, e cancella il loro contributo, la loro lettura dalla realtà, le loro esperienze di condivisione dai suoi orizzonti.

È la Chiesa che cancella, certamente non favorisce, luoghi di confronto davvero comunitari, ove si esprimano tutte le varietà e ricchezze della spiritualità laicale attiva, per una lettura più approfondita del senso della secolarizzazione, per la costruzione di ipotesi condivise e condivisibili, per un analisi più accorta della crisi della società e politica italiana. E l’opinione pubblica laica semmai subisce questa selezione originaria considerando propri interlocutori solo i cattolici “ufficiali”.

Irrilevanza della presenza dei cattolici? Davvero un paradosso da contestare.

La crisi degli anni Ottanta, col mutamento del quadro mondiale, ebbe una risposta sostanzialmente immobilista del sistema Dc, timoroso di perdere il suo primato. La Chiesa italiana fu allora, insieme, complice di questo immobilismo (l’unità dei cattolici non si tocca) e spinta ad un nuovo rapporto diretto col potere politico, nel concreto Craxi, che scavalcava il laicato, per superare lo stallo.

Dire che i cattolici sono stati irrilevanti nella gestione difficile della crisi italiana, nell’individuazione delle vie d’uscita, si può solo se si cancellano sia i numeri reali, sia i nomi dei tanti cattolici adulti, da Andreatta a Scoppola, da Ruffilli a Orlando, ai giovani fucini che aprirono la stagione referendaria e infine da Prodi e Scalfaro, che li hanno rappresentati al livello più alto, che hanno riscoperto il valore dell’impegno politico proprio in ragione della crisi del Paese. Irrilevanti perché adulti, perché portatori di una lettura della crisi, e in particolare della secolarizzazione, più complessa di quella che ci viene proposta, di una analisi del mondo e dei valori moderni più partecipe delle sue potenzialità, sulla linea del Concilio, anziché sulla linea di una perversione diabolica che è insieme antistorica e antievangelica?

La coerenza fra laicità politica e ispirazione religiosa è in realtà un approdo di lungo periodo. La storia della spiritualità credente dei due secoli postilluministi, la stessa storia della Repubblica, e basterebbero i nomi di De Gasperi, Moro, Andreatta, ci dice che la laicità non è stata sentita come limite e confine, come concessione tattica al diverso, ma come conferma, garanzia e ricchezza della propria autenticità evangelica, l’economia della salvezza diviene un disegno che si gioca anche nella storia, qui e ora, non solo nell’attesa dell’aldilà. La secolarizzazione è stata liberatoria anche per la spiritualità credente.

La comunità cristiana è certo stata divisa su questo approccio, come per tante altre questioni nella sua storia, ma non ha potuto che registrarne la coerenza.

Su questo si è misurata una scuola che Chabod definì la dottrina politica più significativa del Novecento, il cattolicesimo democratico, che non sarebbe mai nata senza la provocazione feconda delle grandi rivoluzioni, delle dichiarazioni dei diritti, del valori alti dell’Illuminismo ed è cresciuto grazie alla fecondità del rapporto stabilito con la cultura moderna, della ricerca, della critica, del primato della coscienza.

Il punto chiave dell’approdo del cattolicesimo democratico, già consolidato con Sturzo, è il primato delle questioni politiche generali, di interesse collettivo, dalle strutture istituzionali al sistema politico ai rapporti economici, sui temi propri di interesse religioso e ecclesiale, come discriminanti per le proprie scelte politiche. La logica dei Patti Gentiloni, delle trattative clericali in cerca di garanzie, è una logica non solo fuori della storia, ma è una logica perdente per la stessa testimonianza religiosa, per l’efficacia del messaggio.

È per questa via che l’esperienza religiosa, come già avvenuto storicamente in altri Paesi, ha potuto essere considerata una risorsa della democrazia, unì attivazione dei valori su cui si basa, dello spirito di solidarietà collettiva, degli stessi processi di unificazione e pacificazione nazionale.

È proprio, viceversa l’identificazione del laico cattolico come puro portavoce delle posizioni ufficiali di una Chiesa che è una realtà universale, ma anche una struttura statale che si vuole tale, che rende i cattolici politicamente irrilevanti, non significativi, facilmente sostituibili dalle pressioni di vertice, dalle contrattazioni istituzionali. È in quanto siano immersi quotidianamente con ciò che passa nella società reale, nel suo intreccio di diversamente credenti e di non credenti, ascoltatori e mediatori di esperienze, che i cattolici si fanno rilevanti politicamente, non in quanto gruppo minoritario che si irrigidisce, entro il cambiamento radicale del mondo, sulle proprie immutabili verità. È questo che è avvenuto nel processo costituente del Pd, nelle assemblee, nelle commissioni e ne sono testimone per quella sulla Carta dei Valori.

La forza della Chiesa è, per riconoscimento anche di tanti non credenti, nel suo avvertire la profondità della sfida che sta vivendo una umanità divenuta padrone del mondo anche attraverso le nuove teconologie. Ma non si vorrebbe che questa anticipazione del problema assumesse per la Chiesa quel limite che oggi viene imputato a un certo ambientalismo delle origini, definendolo l’ambientalismo del “no”.

Le sfide etiche del nostro tempo non sono semplificabili entro un generico, vago, indefinito richiamo alla vita: sono più complesse e impegnative. I principi non si difendono ricorrendo a strumenti già falliti, come la repressione giuridica dell’aborto o esigendo tecnicalità scientifiche discutibili come per il numero di embrioni da trapiantare. E tuttavia é su questo che oggi si pretende misurare la coerenza fra fede e laicità.

L’aborto è certamente per il credente un fatto negativo, un atto contro se stessi oltre che contro una nuova vita, come del resto lo è per la grande maggioranza delle donne. Di fronte all’insostenibilità pratica e al fallimento totale delle strategie repressive, la strada per combatterlo non può essere che quella delle strategie preventive, dall'educazione sessuale alla diffusione della contraccezione, compresa la pillola del giorno dopo, alle politiche sociali di sostegno mirate. Fra l’una e l’altra la trovata della moratoria non si sa in quale forma giuridica e quale espediente nasconda, praticamente è il nulla di fatto, il molto di minacciato. Se di qualcosa ha bisogno la 194, oggi, è un di più di prevenzione sociale contro la solitudine delle donne e di sostegno alla genitorialità.

Le politiche per la famiglia, non a caso declinate al singolare, sono state a lungo in Italia più occasione di scontro ideologico, in nome di un principio astratto, che di soluzioni concrete. L’enfasi retorica sulla famiglia ha prevalso sulle volontà di sostenerle. L’enfasi retorica è in sé stessa un errore. Resto legata a una bella riflessione di Emmanuel Mounier che ci ammonisce che «la famiglia è, innanzitutto, una struttura carnale, complicata e difficilmente del tutto sana, che produce a causa dei suoi squilibri affettivi interni, innumerevoli drammi, individuali e collettivi», «un fragile miracolo, pur intessuto d’amore, educatore all’amore». Ed è per questo che va sostenuta, non per il suo essere modello di vita esaustivo. Non solo non si possono discriminare quanto a garanzia dei diritti reciproci i diversi modelli di convivenza, ma è interesse collettivo favorire, anche entro relazioni informali, le convenienze alla solidarietà reciproca nel tempo, le tendenze spontanee alla stabilità del rapporto. Non vedo perché da cattolica io debba favorire di fatto il sesso selvaggio rispetto a una relazione relativamente stabile e solidale fra omosessuali.

Ho votato tutti i miei si sulla fecondazione assistita e spero in una revisione della legge 40. E non credo che possiamo confondere l’unicità genetica dell’embrione, che è un dato da rispettare (e che è alla base del rifiuto della clonazione) con la sua pienezza di persona. La natura stessa affida alla fase fra concepimento e insediamento nell’utero, una funzione selettiva percentualmente molto alta, mi si dice con un destino segnato per l’80% degli embrioni, che protegge la specie e che evita alla donna il rischio di plurigravidanze. Non vedo perché la scienza nel momento che sostituisce la natura, dovrebbe inibirsi, pur con le proprie tecniche e senza cedere a capricci privati, lo stesso compito selettivo che caratterizza il processo naturale.

Sono un’ottantenne che attende una legge sul testamento biologico anche per sé. Da credente che considera la morte il passaggio naturale a un’altra vita, un prolungamento artificiale di essa mi appare come un prepotenza ingiusta sulla compiutezza della mia vita, un negare la natura non un difenderla; e mi turba l’ipotesi che per mantenere in vita me ottantenne si possa domani essere costretti a rifiutare la rianimazione a un ragazzo o una ragazza vittima di un incidente.

Lasciateci testimoniare anche politicamente e razionalmente la forza della nostra fede, evangelicamente laica: i cattolici dovrebbero sentire il dovere di essere qualcosa di più di un gruppo di pressione.

Pubblicato il: 26.02.08
Modificato il: 26.02.08 alle ore 12.02   
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