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Autore Discussione: «L’Italia al voto? Noi qui resistiamo per la fonderia»  (Letto 2403 volte)
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« inserito:: Febbraio 23, 2008, 12:01:54 pm »

«L’Italia al voto? Noi qui resistiamo per la fonderia»

Gigi Marcucci e Alice Loreti


Una vita passata tra «stampi» e «anime», sotto carroponti giganteschi, gru capaci di spostare pezzi da 70 tonnellate, una fucina diabolica chiamata fonderia. Giovanni Paschetta faceva il ramolatore, era un titano in grado di piegare fuoco e metallo alle necessità dell’uomo. Quando gli «stampi» erano pronti, lui li rifiniva. Sua moglie Marianna, era carrellista: sollevava coi muletti pezzi pesanti alcuni quintali, dopo la colata li portava alla «sbavatura», li riprendeva e li appoggiava delicatamente sul camion: tutto il giorno dentro e fuori dalla fonderia. D’inverno era una sorta di doccia scozzese. Un lavoro che faceva con «metodo, modo e grazia», dice un collega. «Della fonderia ti innamori oppure fuggi», spiega Giovanni. E si capisce che lui ne era innamorato. Poi l’amore è finito, ad ottobre il proprietario della Sabiem ha attaccato un foglio in bacheca. «L’azienda è in liquidazione, non abbiamo più bisogno di voi». Poco tempo dopo, il 5 novembre, 50 operai si sono ritrovati alla porta. E, per non perdere il posto e vedere i loro preziosi strumenti di lavoro venduti per «battere cassa», hanno iniziato a presidiare i cancelli. Per una settimana la Sabiem li ha addirittura confinati sul marciapiede, perché troppo ostinati. Ma la tenacia ha vinto su tutto. In presidio ci sono rimasti tre mesi, ovviamente senza stipendio, ma anche senza cassa integrazione, perché Roberto Fochi, con stile padronale un po’ datato, l’aveva chiesta unilateralmente, cioè senza concordarla col ministero. Per la prima volta dopo 20 anni di lavoro fuori dalla loro fabbrica, davanti a cancelli chiusi, al freddo, col mutuo per la casa da pagare, i figli che devono studiare, le bollette che scadono. Così, mentre il 2007 se ne va, la storia della Sabiem diventa la storia di un pezzo di Bologna. La storia di un pezzo d’Italia che - anche con le elezioni alle porte - chiede risposte.

Il primo a presentarsi ai cancelli è un pensionato in lacrime che ha letto la notizia su l’Unità. «Ci sono passato anch’io, tenete duro», dice. E lascia 1.500 euro. Poi arriva gente con pacchi di pasta, caffé, pelati, generi di prima necessità. Unipol mette a disposizione un conto corrente su cui, in poche poche settimane, vengono versati 18.000 euro. L’assessore provinciale Pamela Meier concorda con le banche un prestito di 5.000 euro per ogni lavoratore. Bisogna tenere duro, battersi perché l’azienda fallisca. Può sembrare un paradosso, ma solo col fallimento (dichiarato pochi giorni fa) può farsi avanti un compratore e solo un compratore (l’asta è prevista per giugno) può ridare vita a un gruppo da cui sono uscite le capriate della stazione centrale di Milano, il primo ponte di ferro sul Po, basamenti per compressori, compressori, eliche per navi, impianti industriali esportati in tutto il mondo, impianti per l’energia eolica. Un posto dove lavorano operai ad alta specializzazione, gli stessi di cui si predica la scomparsa. Il teatro di questa storia è sulla via Emilia Ponente, a pochi passi dall’ospedale Maggiore. C’era un patto tra le istituzioni locali con il proprietario: continui la produzione, la trasferisci pochi chilometri più in là, in cambio potrai edificare sull’area (appetibile perché vicino al centro storico) dove si trova attualmente la fabbrica. Mattone in cambio di posti di lavoro, un ragionevole compromesso. Alla fine Fochi reclama il mattone e mette alla porta agli operai. Il poeta Roberto Roversi scrive su l’Unità: «Le grinfie della speculazione troppo spesso sono più forti delle problematiche di conduzione che sempre in ogni lavoro sussistono». La Cassa integrazione arriverà, se va bene, tra tre mesi. «Cercare un altro lavoro? Non ci penso nemmeno, io voglio tornare a lavorare lì. La fonderia è la mia vita e poi, a 53 anni, chi ti prende». Giovanni Paschetta parla di una fabbrica inaugurata nel 1918, con macchinari lasciati invecchiare e un rischio di incidenti che nemmeno le frequenti ispezioni dell’Asl sono riusciti a contenere. Ne fa le spese un collega nel 2006. Uno stampo fatto male che cede improvvisamente, otto quintali di sabbia che gli piombano addosso. Entra e esce dall’ospedale, ha ancora sabbia nei polmoni. Paschetta fu il primo a soccorrerlo: «Sentivo i suoi lamenti, ma non riuscivo a vederlo», ricorda. Ma nella vita da invisibili, quello scenario oscuro squarciato solo da incidenti come quello della Thyssen, ci sono anche gli aspiratori che non aspirano più, il fazzoletto che - «con decenza parlando» - quando ti soffi il naso te lo ritrovi nero, i colleghi in pensione che si sono ammalati di silicosi. «E dire che quando arrivava la Asl gli dicevamo di chiudere un occhio, parlavamo del nuovo stabilimento in cui ci saremmo trasferiti, spiegavamo che se avessero chiuso la fabbrica saremmo rimasti in mezzo alla strada». Roberto Battelli arriva alla Sabiem nel ’94. Faceva l’«animista», termine che non indica un’appartenza religiosa, ma una mansione delicata che affianca quella di chi fa lo «stampo» per la colata. L’«anima» è l’interno dello «stampo». Descrive il suo lavoro con precisione da cui trapela nostalgia. Un lutto che non è ancora stato elaborato. «Quando presidiavamo i cancelli - ricorda -, i clienti della Sabiem ci chiamavano dalla Germania, ci chiedevano delle fusioni». Qualcuno ha conservato le lettere, decine di lettere, tutte con un messaggio che più o meno suona così: «Vi facciamo i nostri migliori auguri, se la fabbrica riaprirà saremo ancora vostri clienti». Daniele Cappon, verniciatore, spalmava materiale refrattario sulla sabbia degli stampi, «perché altrimenti la ghisa fusa si mangerebbe la sabbia». Detta così sembra niente, ma per verniciare bisogna arrampicarsi su "stampi" che misurano anche 12 metri di lunghezza per 5 di altezza. Insomma rischiava l’osso del collo. Come gli altri ha nostalgia del presidio, di quei tre mesi scanditi dagli stessi tempi del lavoro: «Ti alzi al mattino, vai al presidio, stacchi per il pranzo, poi vai avanti fino a metà pomeriggio». Un ritmo che ricorda il lavoro che, per il momento, non c’è. Un lavoro che ha la faccia aperta e gli avambracci nodosi di Gianni Bernardi, addetto alla manutenzione. Uno che deve conoscere tutti le macchine con cui lavorano gli altri, cioè i carroponte, le gru, i muletti. Uno che prepara la materia prima per i colleghi, «e se non lo fa come si deve poi chi li sente?». Uno che conosce la fonderia palmo a palmo, dagli scantinati al tetto. Da queste conoscenze dipende anche la sua incolumità. Sul carroponte bisogna salirci, se è vecchio e insicuro rischi di cadere. «Legarsi? Se ti leghi, non lavori», dice Gianni, «e poi una cintura sola intorno alla vita che ti ferma dopo un volo di qualche metro è meglio non averla, tanto vale finire a terra».

Pubblicato il: 22.02.08
Modificato il: 22.02.08 alle ore 8.16   
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