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Autore Discussione: Luigi Caligaris La politica non li lasci soli  (Letto 2380 volte)
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« inserito:: Febbraio 14, 2008, 07:23:26 pm »

La politica non li lasci soli

Luigi Caligaris


La morte di un soldato italiano mi colpisce tre volte: perché la morte di un essere umano ferisce, perché a morire è un soldato e perché è un italiano. Qualsiasi morte rattrista, ma quella di un soldato italiano rattrista di più chi lo è stato e provoca in tutti un profondo disagio. A corto di parole mi rifaccio al pluridecorato Randolfo Pacciardi «non si combatte per il piacere di combattere. Non si muore per il piacere di morire. Non si getta la propria giovinezza sui campi di battaglia, senza comprendere la necessità del sacrificio».

La chiave di lettura appropriata è nelle parole «comprendere la necessità del sacrificio» che significano essere convinti di fare qualcosa che giovi al proprio Paese e che esso lo comprenda e lo apprezzi. Possiamo dire che questo sia il caso in Italia e che, dietro le frasi di cordoglio, le messe solenni e le inevitabili richieste d’immediato ritiro vi sia consapevolezza di ciò che fanno i nostri soldati e apprezzamento per come lo fanno? La risposta a questa domanda fa la differenza fra “gettare” o donare la vita.

La verifica deve forzatamente partire dalla politica poiché ad essa spetta indicare agli italiani senza perifrasi ciò che non possono non sapere. Ebbene, sulle cose militari in genere e sulle imprese oltremare in particolare la politica ha finora glissato poiché sono soggetti o temi che non procurano applausi né voti. Delle forze armate si sa che ci sono, non si sa cosa facciano ma si sa che se loro si chiede di fare qualcosa, qualsiasi cosa, scaricare immondizia o combattere, senza menar il can per l’aia, la fanno. Sono per il nostro Paese i soldi sotto il cuscino per superare i momenti difficili ma possono essere anche capitale prezioso da investire per ricavarne prestigio e moneta politica, per avere voce in capitolo sulle scelte di sicurezza internazionale e non solo. Sono cose che agli italiani vanno spiegate entrando nel merito delle scelte da fare invece di presentarle antipaticamente come ben pagata routine, come disagevole turismo di stato o come opere di beneficenza.

Anche del nostro impegno in Afghanistan si sa solo che i nostri soldati fan bene, che la nostra presenza alla popolazione è gradita e che, nonostante si prodighino in attività umanitarie, ogni tanto qualcuno di loro ahimé viene ucciso. Eppure l’Afghanistan è oggi fra le priorità delle scelte di medio lungo periodo dell’Occidente che sta discutendo cosa mai deve fare per evitare che l’area si destabilizzi trascinando con sé i Paesi limitrofi.

I pareri divergono fra chi vorrebbe risolvere il problema col dialogo e chi ritiene che non si debba rinunciare alla forza; probabilmente la verità sta nel mezzo. Secondo la Nato le forze della coalizione non bastano e non si tratta tanto di aumentarne il numero quanto di modificarne l’impiego. Il problema è semplice: la Nato, la cui missione è legittimata dall’Onu, controlla due aree, una a sud più impegnativa e rischiosa, una a nord che lo è molto meno. Nella zona sud, ove i talebani sono più numerosi ed attivi, combattono canadesi, britannici, olandesi, danesi e americani mentre in quella nord operano francesi ,tedeschi, italiani e spagnoli che applicano norme di ingaggio più caute ma che, sia pure in minore misura, vengono attaccati anche loro. Per contenere la crescente attività dei talebani, la Nato e i Paesi che già operano a sud rivolgono agli altri pressanti richieste affinché aumentino le loro forze in Afghanistan ma soprattutto ne inviino parte anche a sud. Il rifiuto di Francia e Germania, due Paesi forti e autorevoli, ha finora frenato le richieste e le critiche ma le cose possono ora cambiare. La Francia pare disposta ad aderire all’invito e la Germania, insistendo sul no, può entrare nell’occhio del ciclone. Il titolo del fondo dell’International Herald Tribune del 12 febbraio, «Troverà la Germania il coraggio di battersi?», rammenta la sgradevole accusa di cinque secoli fa, contro gli italiani a Barletta. Seppure sia poco probabile che la Germania ceda alle pressioni, perché ha le spalle larghe e la sua popolazione non vuole, non si può tuttavia escludere che cambi idea e sfidi, come ha fatto altre volte, il dissenso ove consideri il suo rifiuto contrario al nazionale interesse. Se anche questa volta così facesse, l’Italia resterebbe più o meno sola nel suo rifiuto di cambiare il suo impegno, vulnerabile bersaglio di tutte le critiche anche perché la più fragile fra le grandi nazioni d’Europa. Se persistesse solitaria nel no, come è suo diritto, perderebbe peso politico presso l’Onu, la Nato e l’Europa. La sua non sarebbe beata solitudo ma sofferta emarginazione. Può darsi che tutto ciò non accada e che Francia e Germania continuino a dire no alle richieste e che, quindi, l’Italia non resti sola. Il problema comunque esiste ed è molto serio e una politica che vuole veramente cambiare dovrebbe apertamente discuterne, nei suoi pro e contro.

I precedenti non sono però confortanti. Le spiegazioni elusive, l’appellarsi non sempre a proposito all’articolo 11 della Costituzione per dire sempre e comunque di no, il non votare i finanziamenti delle operazioni da parte dell’opposizione (tranne l’Udc), il mistificare la natura delle operazioni accreditandole come missioni di pace per sedurre il consenso, lo sfoderare un buonismo intinto in un pacifismo retrò da Guerra Fredda, sono solo campioni di un profondo disagio di una politica che, senza eccezioni, pensa di dovere fare qualcosa ma non osa spiegarne il perché. Oltre vent’anni di operazioni oltremare, oltre vent’anni di falsi pudori.

Adesso, a quel che si dice e si spera, non più. L’Italia si è desta! Si ergono orgogliosi e autonomi i giganti politici desiderosi e, secondo loro, capaci di trattare responsabilmente i più spinosi problemi, quindi anche questi. Se ciò avverrà, ci sarà un’altra sorpresa. Si scoprirà che gli italiani, se responsabilizzati e informati, sanno e vogliono affrontare seriamente i problemi, anche quelli che riguardano l’Italia e non solo i propri. La storia del nostro Paese di queste prove positive ne è colma. Il momento elettorale offre modo per accertare la serietà dei propositi. Quale dei contendenti della campagna elettorale vorrà di tutto questo seriamente parlare dimostrando che la nostra classe politica è davvero cambiata e che quel che fanno i nostri soldati è conosciuto e apprezzato? Se perdurasse il silenzio non sarebbe un buon segno.

Pubblicato il: 14.02.08
Modificato il: 14.02.08 alle ore 8.44   
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