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Autore Discussione: Questa è l’idea di libertà e di democrazia di Matteo Salvini. (fino a quando?)  (Letto 67 volte)
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« inserito:: Agosto 22, 2025, 12:08:50 pm »


Lorenzo Tosa

Questo ragazzo si chiama Dario Costa, è un siciliano di 21 anni, ed è appena stato sottoposto a una vergognosa gogna nientemeno che dal Vicpresidente del Consiglio Matteo Salvini.

Tutto per cinque secondi di video, tagliati e decontestualizzati da un video molto più lungo, nei quali Dario ha definito il Ponte sullo Stretto “un atto delinquenziale”.

Una frase dura, certo, ma che affonda in un passato purtroppo esistente e per nulla campata per aria. Anzi.

Eppure tanto è bastato perché Salvini trasformasse quei cinque secondi in un video di scherno indegno, con tanto di montaggio al rallentatore derisorio, trasformando all’istante Dario nel bersaglio di migliaia di odiatori, che in poche ore gli hanno tirato addosso di tutto: insulti, offese, addirittura minacce di morte.

Siamo al punto che un ministro dei Trasporti di 50 anni bullizza un libero cittadino di venti - non iscritto a nessuna associazione o partito - solo per aver espresso una critica (comprensibile) sul Ponte sullo Stretto.

Questa è l’idea di libertà e di democrazia di Matteo Salvini.
Così povero di argomentazioni da essere costretto a fare il bullo con un ragazzo che protesta.

Solidarietà piena e totale a questo ragazzo per la sua battaglia e per il modo perfetto con cui ha replicato a Salvini (“Lei non è un ministro, ma uno a cui è stato dato troppo potere in mano”).

Spero che Dario decida di andare fino in fondo e denunci tutti gli insulti. E pure il ministro per istigazione all’odio.

In un Paese civile sarebbe il minimo.

Avanti Dario, a testa altissima. Non sei solo.

da FB del 15 agosto 2025

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Gianni Gavioli
 
Amministratore
Esperto del gruppo
 
Le carceri sono di competenza dello Stato e sono gestite dal DAP del Ministero della Giustizia.
Inutili le speculazioni di parte, le chiacchiere della propaganda e le lagne degli eterni scontenti, si deve puntare il dito della protesta verso chi ha la responsabilità e competenza del risolvere una vergogna nazionale.
ggg

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Paolo Crucianelli

Replica alle critiche di Carlo Rovelli su Enrico Fermi
Una difesa della ragione storica contro il giudizio morale anacronistico
di Paolo Crucianelli

Carlo Rovelli, nella sua recente serie di video pubblicata sul Corriere della Sera, ha sollevato una riflessione etica sul ruolo della scienza nella costruzione della bomba atomica, arrivando a criticare apertamente Enrico Fermi. Pur riconoscendone il genio, Rovelli lo ha definito “non un grande cittadino”, colpevole di aver partecipato al Progetto Manhattan senza opporsi all’uso dell’arma nucleare contro i civili giapponesi. Si tratta, a mio avviso, di un giudizio ingeneroso, storicamente miope e per certi versi offensivo nei confronti di uno dei più grandi scienziati del Novecento.
L’iscrizione di Fermi al Partito Fascista, spesso citata come ombra sulla sua figura, fu in realtà un atto pragmatico, necessario per poter operare nel mondo accademico italiano di quegli anni. Non si trattò di adesione ideologica né di simpatia per il regime, tutt’altro. Era semplicemente la condizione per poter dirigere un laboratorio, accedere ai fondi, far crescere un gruppo di ricerca. Grazie a questa scelta di sopravvivenza professionale — e certo non morale — Fermi riuscì a creare attorno a sé il gruppo dei “ragazzi di via Panisperna”, e a trasformare Roma in uno dei poli scientifici più avanzati del mondo. La fisica italiana, grazie a lui, fece un salto che altrimenti non avrebbe mai potuto compiere.
Fermi non manifestò mai entusiasmo verso il fascismo. Non partecipò alla propaganda, non cercò visibilità politica, non sfruttò la sua posizione per promuovere ideologie. Alla prima occasione concreta per allontanarsi dall’Italia — quando gli venne assegnato il Premio Nobel nel 1938 — lasciò il paese per sempre, portando con sé la moglie, Laura Capon, di origine ebraica, e i figli. Si trasferì negli Stati Uniti, dove diede un contributo decisivo alla fisica teorica e sperimentale, operando in un contesto finalmente libero da condizionamenti ideologici.
Accusarlo di complicità morale nella costruzione della bomba atomica significa ignorare il contesto storico in cui Fermi si trovò ad agire. Il Progetto Manhattan non fu un piano aggressivo: nacque da un timore concreto, condiviso da tutta la comunità scientifica internazionale. Era opinione comune — e documentata — che la Germania nazista stesse lavorando alla costruzione di un ordigno atomico. A guidare quel progetto c’era Werner Heisenberg, scienziato di fama mondiale, che Fermi conosceva bene. L’idea che Hitler potesse disporre per primo di una simile arma era terribile e tutt’altro che infondata. È per questo che fu lo stesso Albert Einstein, pacifista per vocazione, a scrivere a Roosevelt una lettera con cui chiedeva agli Stati Uniti di non rimanere indietro nella corsa all’atomica. Einstein, il simbolo stesso della coscienza morale della scienza, comprese il rischio e lo affrontò con senso di responsabilità. Perché mai Fermi avrebbe dovuto pensarla diversamente?
E proprio Fermi, nel cuore di quel progetto, non smise mai di considerare il lato costruttivo della sua ricerca. Il reattore nucleare CP-1, da lui avviato nel 1942, fu sì una tappa obbligata per l’arma, ma fu anche il primo passo concreto verso lo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare. Fu una pietra miliare non solo per fini militari, ma per tutto ciò che oggi conosciamo come energia atomica civile: centrali elettriche, medicina nucleare, ricerca scientifica avanzata. Fermi era ben consapevole del potenziale distruttivo della fissione, ma non era un uomo della guerra: era un uomo della conoscenza, e vedeva nella fisica uno strumento per comprendere e costruire, non solo per colpire.
Le scoperte scientifiche di Fermi non furono fatte con intenzione bellica. Come sempre accade nella ricerca pura, i risultati possono essere interpretati e utilizzati in modi diversi, spesso imprevedibili. Fermi non costruì una bomba. Mise a punto una comprensione profonda del comportamento della materia, dei neutroni lenti, delle reazioni nucleari. Fu la politica — non la scienza — a trasformare queste conoscenze in arma. Se oggi ci rivolgiamo alla scienza chiedendole anche una coscienza, lo dobbiamo proprio a figure come la sua. Ma chiedere che un fisico degli anni Trenta e Quaranta avesse la stessa sensibilità morale che possiamo avere noi oggi, a guerra finita, seduti in pace (seppur relativamente) e con lo sguardo del senno di poi, è un esercizio comodo e in fondo sterile.
Rovelli ha tutto il diritto di interrogarsi sul rapporto tra etica e scienza, ma nel farlo non dovrebbe trasformare la riflessione in un atto d’accusa personale. La storia non si riscrive con criteri morali astratti. Va compresa nel suo tempo. Enrico Fermi non fu un santo, ma non fu nemmeno un cinico. Fu un uomo rigoroso, sobrio, schivo, capace di pensare in grande senza mai cercare protagonismo. Fu, soprattutto, un servitore della conoscenza, che ha lasciato un’eredità scientifica ineguagliabile.
Criticarlo oggi, a quasi ottant’anni da quei fatti, con gli strumenti del moralismo contemporaneo, non aiuta a capire il passato. Aiuta solo a semplificarlo. Ma la scienza — come la storia — non ha bisogno di semplificazioni. Ha bisogno di verità, di contesto e di rispetto per chi ha fatto, spesso in silenzio, ciò che doveva essere fatto.

da FB  15 agosto 2025
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Gianni Gavioli
 
Amministratore
Esperto del gruppo in Realtà virtuale
 
La Pace Attiva non può essere solo un fatto estetico, non può considerarsi soltanto sotto l'aspetto morale.
Senza la componente Etica (i comportamenti) non ci sarà mai la Pace, solo una tregua da mercato arabo postbellico.
ggiannig

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