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Autore Discussione: Bentrovati, anche questa settimana una versione “estiva” di Mondo Capovolto  (Letto 972 volte)
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« inserito:: Agosto 10, 2023, 11:34:24 am »

Di SARA GANDOLFI

Bentrovati,
anche questa settimana una versione “estiva” di Mondo Capovolto, con gli interventi di Guido Olimpio sui misteri di spie, califfi, mercenari e narcos, le impressioni di Valeria Palumbo, reduce da un viaggio in Malesia, Alessandra Muglia sulla crisi in Niger con l’intervista al politologo Dominique Moïsi, un’analisi sul Vertice dell’Amazzonia che si è appena concluso in Brasile (teatro di un inedito scontro fra Petro e Lula) e molte foto-notizie, a partire dalla morte annunciata di un aspirante presidente in Ecuador.
Buona lettura.

Morte annunciata di un aspirante presidente in Ecuador
(Sara Gandolfi) Un candidato presidenziale in Ecuador, che aveva denunciato in più occasioni i legami tra criminalità organizzata e funzionari governativi, è stato assassinato ieri sera durante una manifestazione politica nella capitale, pochi giorni prima delle elezioni previste per il 20 agosto. Fernando Villavicencio, ex giornalista, è stato ucciso con diversi colpi di pistola alla testa, mentre parlava con un gruppo di sostenitori fuori da una scuola superiore di Quito. Un sospetto è stato ucciso nella mischia che è seguita e altre nove persone sono state ferite. Sei gli arresti.
Villavicencio, 59 anni, era uno degli otto candidati alla presidenza, il più determinato nella lotta alla criminalità e alla corruzione, in un Paese travolto dalla crisi e dall’espansione del narcotraffico. L’ultimo anno ha registrato un numero record di omicidi e diverse rivolte nelle carceri.
Il presidente uscente, Guillermo Lasso Lasso, lo scorso maggio ha sciolto l’Assemblea nazionale, dominata dall’opposizione, per evitare una procedura di impeachment per appropriazione indebita. Le elezioni anticipate sono fissate per il 20 agosto.
Come giornalista, Villavicencio aveva spesso scritto sulla presunta corruzione dell’ex presidente di sinistra Rafael Correa (2007-2017) e dei successivi governi in Ecuador. Per questo, era stato oggetto di persecuzioni legali e anche di minacce di morte che, per un breve periodo, l’avevano spinto a chiedere asilo politico in Perù. La candidata correista alle prossime elezioni, Luisa González, è attualmente in testa nei sondaggi.
Lasso ha ora dichiarato lo stato d’emergenza in tutto il Paese e tre giorni di lutto nazionale: «Le Forze armate si mobiliteranno in tutto il territorio nazionale per garantire la sicurezza dei cittadini, la tranquillità del Paese, le elezioni libere e democratiche del 20 agosto».


La Banca Mondiale blocca i prestiti all’Uganda anti-gay
Una coppia gay ugandese si copre con una bandiera arcobaleno (foto Ap)
La Banca Mondiale ha sospeso nuovi prestiti all’Uganda a seguito dell’emanazione di una dura legge contro le relazioni omosessuali. Il presidente Yoweri Museveni ha firmato a maggio la legge anti-Lgbt, che impone la pena di morte per “omosessualità aggravata” e una pena detentiva di 20 anni per “promozione” dell’omosessualità. Martedì la Banca mondiale ha affermato in una dichiarazione che la legge «contraddice i valori del Gruppo della Banca mondiale» e che «nessun nuovo finanziamento pubblico all’Uganda sarà presentato al nostro Consiglio di amministrazione esecutivo».

L’Uganda ha liquidato la mossa come ingiusta e ipocrita. «Molti Paesi del Medio Oriente non tollerano gli omosessuali, in realtà impiccano e giustiziano gli omosessuali. Negli Stati Uniti molti stati hanno approvato leggi contrarie o che limitano le attività omosessuali... quindi perché prendersela con l’Uganda?» ha detto il ministro ugandese per gli affari Esteri, Okello Oryem.


L’ANALISI Sull’Amazzonia, il colombiano Petro ruba la scena al “timido” Lula
Il colombiano Petro e il brasiliano Lula al vertice (foto Afp)
editorialista   
di SARA GANDOLFI
Una delusione. Il commento degli ambientalisti alla dichiarazione finale del vertice sull’Amazzonia che si è chiuso ieri a Belém, in Brasile, è quasi unanime. «Suona come una lista di buoni propositi per il nuovo anno. È un elenco di promesse», sintetizza Márcio Astrini, segretario generale dell’Osservatorio del Clima. Il summit ha messo in luce una spaccatura fra i diversi Paesi della regione e anche fra le sue due maggiori economie — Brasile e Colombia —governate da presidenti di sinistra, Luiz Inácio Lula da Silva e Gustavo Petro. Quest’ultimo ha di fatto rubato la scena al padrone di casa con il suo appassionato discorso contro il negazionismo climatico e chi utilizza la scusa della transizione energetica per continuare a estrarre petrolio o produrre energia da combustibili fossili.
Il documento finale di venti pagine, firmato dagli otto Paesi che ospitano il “polmone verde” del pianeta (Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela) dopo un lungo incontro a porte chiuse, non cita fra gli obiettivi la deforestazione zero entro il 2030, proposto e difeso da Brasile e Colombia, né il bando delle esplorazioni petrolifere nella regione. Un tema, quest’ultimo, che ha diviso il “possibilista” Lula e il colombiano Petro, fortemente contrario alla «scommessa» dei combustibili fossili.
Una delle questioni più divisive è il piano di esplorazione petrolifera di Petrobras, società statale brasiliana, sul margine equatoriale della foce del Rio delle Amazzoni. Un progetto che ha spaccato lo stesso governo Lula: molto critica la ministra dell’Ambiente, Marina Silva, che avrebbe minacciato le dimissioni, mentre Lula non rifiuta gli studi esplorativi nel bioma amazzonico. La foce del Rio delle Amazzoni, nel mirino di Petrobras, scriveva già due anni fa il documentarista João Lara Mesquita «oltre ad essere un luogo di estrema sensibilità in quanto è la foce del fiume più grande del pianeta, ospita barriere coralline scoperte soltanto nel 2016 che si estendono su un’area di 56mila km2, equivalente allo Stato di Paraíba».

««Noi abbiamo sempre vissuto qui», ricordano i cartelli degli indigeni al vertice (foto di Paulo Santos/Ap)
La Dichiarazione di Belém menziona quattro volte l’obiettivo di «evitare il punto di non ritorno» nella foresta amazzonica. Tuttavia, non fissa scadenze per la conservazione della foresta e la lotta alla deforestazione. Cita solo «l’urgenza di concordare obiettivi comuni per il 2030, (...) con deforestazione zero come ideale». Nulla di vincolante per gli otto Paesi. E sul tema dei combustibili fossili parla solo di «avviare un dialogo tra gli Stati parte sulla sostenibilità di settori come l’estrazione mineraria e gli idrocarburi nella regione amazzonica», ma non di eliminare i piani di esplorazione petrolifera nell’area.
Il testo è, invece, più incisivo nel riaffermare il diritto dei popoli indigeni al «pieno ed effettivo possesso» delle loro terre, «sia per definizione, delimitazione o demarcazione, sia per titolo».

«La controversia sul petrolio ha messo in luce una contraddizione interna al gruppo dei Paesi amazzonici che indebolisce la posizione di Lula come leader forestale» commenta il quotidiano brasiliano Estadão. Molto applaudito il discorso di Gustavo Petro, che ha accusato la sinistra di negazionismo climatico. «C’è un enorme conflitto etico, principalmente da parte delle forze progressiste, che dovrebbero stare dalla parte della scienza», ha affermato il presidente colombiano. «I governi di destra hanno una via di fuga facile, che è il negazionismo: negano la scienza. Per i progressisti è molto difficile. Il che genera un altro tipo di negazionismo: parlare di transizioni energetiche». Un riferimento al termine utilizzato da molti governi - non solo sudamericani - per giustificare la prosecuzione degli investimenti in energia da fonti fossili.
Il presidente francese Emmanuel Macron, che governa la Guyana francese, ha rifiutato di partecipare all’incontro, difendendo la linea dell’Unione europea sull’accordo Ue-Mercosur. Ad aprile, Bruxelles ha approvato una legge che vieta ai Paesi Ue di acquistare prodotti derivanti dalla distruzione ambientale, il che ha fermato l’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio fra i due blocchi commerciali, firmato nel giugno 2019 ma subito congelato dall’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro. In cambio, commenta O Globo, «i Paesi dell’Amazzonia attaccano i Paesi ricchi che minacciano di imporre barriere commerciali ai prodotti delle aree deforestate , sostenendo che in tal modo penalizzano soltanto i piccoli produttori».
La Dichiarazione propone di addebitare ai Paesi ricchi i finanziamenti per investire nello sviluppo sostenibile, accusandoli di non aver mantenuto le promesse: «Esprimiamo la nostra preoccupazione per il mancato rispetto degli impegni assunti dai Paesi sviluppati», si legge, tra cui aiuti annuali pari allo 0,7% del Pil e 100 miliardi di dollari all’anno per il finanziamento del clima dei Paesi in via di sviluppo. Duro il richiamo di Lula: «Non è che il Brasile abbia bisogno di soldi. Non è che la Colombia o il Venezuela abbiano bisogno di soldi. Madre Natura ha bisogno di soldi, di finanziamenti, perché lo sviluppo industriale l’ha distrutta negli ultimi 200 anni», ha detto in conferenza stampa.

Una miniera illegale in Amazzonia (foto di Alan Chaves/Afp)
Uno dei passaggi più importanti della Dichiarazione è l’impegno degli otto Paesi a cooperare per contrastare l’estrazione mineraria illegale, in particolare d’oro, attraverso lo «scambio di informazioni sul commercio e sul contrabbando di mercurio e altri metalli pesanti e sull’armonizzazione delle politiche pubbliche per la loro regolamentazione e controllo». .

I capi-mercenari della Wagner in Africa
Mercenari della Wagner in Africa
editorialista   di GUIDO OLIMPIO
Kostantin Pikalyov, Vitaly Perfilov, Alexander Maloletko e Ivan Maslov: sono quattro russi indicati dall’intelligence britannica quali collaboratori di Evgeny Prigozhin in Africa. I funzionari operano in particolare in Centro Africa e in Mali all’interno della struttura creata dalla compagnia di sicurezza Wagner. Rilevante, sempre in Mali, il ruolo di Dmitry Syty: agente di influenza, uomo di raccordo con gli ufficiali locali, coinvolto in attività su più livelli (economia, diplomazia, sicurezza).
Dai report risulta chiaro come la società di mercenari punti molto sullo sfruttamento delle risorse - dove esistono - garantendo allo stesso tempo un sostegno ai regimi. Del resto, il numero di miliziani impegnati è per il momento estremamente ridotto rispetto all’area geografica composta da questi Paesi.
Quindi ci può essere solo un contenimento dei gruppi armati, abili nello sfruttare dissenso, povertà ed estensione territoriale.
Resta l’incognita sul futuro: la Wagner, libera da impegni in Ucraina, aumenterà il proprio contingente in Africa? Intanto c’è il concreto timore che possa sfruttare la crisi innescata dal golpe in Niger.

Il labirinto religioso della Malesia (laica e musulmana)
Celebrazione nel Kuil Sri Maha Mariamman, il più antico tempio indù di Kuala Lumpur (foto di Carlo Rotondo)
editorialista   
di VALERIA PALUMBO
Caporedattrice Oggi
La pena di morte non è più obbligatoria in Malesia per 11 reati dal 4 luglio scorso. Detto così appare un po’ strano, anche perché, a fine luglio 2023, un birmano e un indiano sono stati condannati a morte per un delitto commesso nel 2018. Ma la Malesia è uno Stato con molti volti, in cui, per esempio, la Sharia, l’insieme delle norme islamiche, governa un sistema giudiziario parallelo a quello laico.
In teoria, soltanto i musulmani sono soggetti alla Sharia. Se si vuole, però, sposare un o una musulmana (accade, ci si sposa per amore, benché in caso di singletudine prolungata le famiglie si mettono di mezzo e si rivolgono sia ad agenzie sia ad app specializzate) occorre convertirsi all’Islam. Non soltanto gli eventuali figli, in quel caso, sono attribuiti per legge alla comunità islamica, ma è molto difficile tornare indietro. In più, se non si hanno figli, l’eredità non può andare a parenti della religione originaria.
Eppure, la “tolleranza” religiosa è stabilita dalla Costituzione: si ha il diritto di professare la propria religione. Il problema è che non sempre la si sceglie e l’identificazione del termine “malese” con “musulmano” crea, anziché una più forte identità nazionale, un certo disagio nelle altre comunità, anche se le proteste hindu risalgono ormai a 15 anni fa.
Moschee, templi buddisti e hindu continuano a vivere gomito a gomito. E, per esempio, nelle comunità di origine indiana (foto sopra), che provengono soprattutto dal Sud del subcontinente, è sempre molto diffuso il culto di Mariamman (vedi foto di apertura), la dea madre che, a differenza di gran parti delle dee madri è della Pioggia e non della Terra. Mariamman è anche la dea che cura e garantisce prosperità e fecondità. Nel tempio le ragazze ballano per celebrarla, fuori passano veloci quelle velate: è raro vedere i musulmani assistere alle cerimonie altrui.

L’INTERVISTA «La crisi in Niger è come una partita di poker»
Un venditore ambulante passa davanti alle auto bruciate dai manifestanti a Niamey (foto Afp)
editorialista di ALESSANDRA MUGLIA - Redazione Esteri
Il blocco dei Paesi dell’Africa occidentale ci riprova a trovare compattezza sulla linea da perseguire per porre fine alla crisi nigerina. A quattro giorni dalla scadenza dell’ultimatum lanciato ai golpisti, i leader degli stati dell’aerea hanno preso tempo rispetto all’intervento armato ventilato come estrema ratio in caso di mancato reinsediamento del Mohamed Bazoum entro la scorsa domenica: si ritrovano da stamattina ad Abuja, in Nigeria, determinati a insistere sulla via diplomatica per quanto «nessuna opzione è stata esclusa dall’Ecowas», come ha fatto sapere ieri il portavoce del presidente nigeriano Bola Tinubu, attualmente capo dell’organizzazione. E come ci aveva anticipato il politologo francese Dominique Moïsi in questa intervista (uscita l’8 agosto sul Corriere)
«Scaduto l’ultimatum ai golpisti, tutti gli scenari restano aperti in Niger: soluzione diplomatica, contro golpe o intervento militare» osserva il politologo francese Dominique Moïsi. Prendono tempo i leader del blocco africano che avevano minacciato l’intervento militare se i generali non avessero reinsediato il presidente Bazoum entro domenica. Ieri hanno annunciato che si ritroveranno giovedì in Nigeria, per decidere se continuare con le sanzioni, astenersi dall’intervento e chiedere un ritorno al governo civile dopo le elezioni. Opzione che la giunta è disponibile a discutere.
Cosa le fa ritenere ancora possibile una soluzione diplomatica della crisi?
«Siamo come in una partita di poker: tutti minacciano la guerra ma nessuno la vuole. Sotto sotto i golpisti non credevano all’ultimatum. Sanno che l’Ecowas è divisa. E anche nell’altro fronte, lo stesso premier nigerino Mahamadou da Parigi ha definito “minacce vuote” quelle lanciate dagli Stati alleati dei generali, Mali e Burkina. I loro eserciti mal equipaggiati faticano a contenere le loro insurrezioni islamiste».
Anche la Nigeria, peso massimo dell’Ecowas, fatica a domare le incursioni di jihadisti, banditi e secessionisti. E i senatori non vogliono l’intervento.
«Vedremo. Il fronte anti-golpista può contare anche sui militari del Senegal, Paese che non ha particolari problemi interni di sicurezza. Poi ci sono le truppe occidentali che, pur non direttamente impegnate nei combattimenti, potrebbero fornire supporto logistico. I golpisti hanno agito pensando di replicare senza problemi quanto accaduto in Mali e Burkina Faso. È stata una scommessa sbagliata. In Niger invece si è aperta una crisi unica, non ci sono precedenti in Africa per almeno tre motivi: qui si è consumato il terzo golpe nell’area in due anni, il Paese ospita tre basi Usa, ed è cruciale per la lotta al jihadismo, l’uranio e le sue frontiere».
Migliaia di nigerini parlano di «rivoluzione». Non vedono quello che succede in Mali e Burkina Faso? Come possono pensare di fare la «rivoluzione» rimpiazzando gli occidentali con i russi?
«Non si tratta di una reazione razionale, ma di una risposta emotiva. Vogliono riuscire a sfamare i propri figli e vivere senza paura. Le cicatrici del colonialismo invece di guarire con il tempo si sono aggravate mentre la Russia non è mai stata imperialista in Africa. Ma la propaganda russa non avrebbe attecchito se non ci fosse stato questo forte risentimento anti francese».
Il presidente Macron ha cercato di correre ai ripari, con l’addio alla Francafrique. Troppo tardi? Perché non ha funzionato?
«Forse si è avventurato in una missione impossibile. Forse è un’eredità troppo pesante. Colpisce che militari africani addestrati in Francia si siano rivoltati contro il potere, a iniziare dal leader dei golpisti. I francesi hanno rispettato la suscettibilità dei militari africani o li hanno trattati come subalterni?».
Parigi non richiamerà i suoi militari.
«Ha risposto: “Siete voi a non essere legittimati a restare, ce ne andremo soltanto se dopo regolari elezioni lo decideranno i nuovi leader”. La Francia fa bene a non cedere all’onda emotiva. Il problema per i francesi è riuscire a trovare un discorso coerente: siamo stati tutt’altro che perfetti ma davvero credete che i russi siano migliori? Ma questo è un argomento razionale. La cosa importante per la Francia è non cedere alle pressioni dei golpisti e non essere in prima linea, ma dietro ai Paesi africani».




Giuramenti di fedeltà ai (brevi) Califfi islamici
Membri Isis giurano fedeltà al Califfo
editorialista   
di GUIDO OLIMPIO
Lo Stato Islamico ha accusato la fazione ribelle siriana HTS di aver ucciso il suo leader, il Califfo Abu al Hussein al Husseini al Qurashi, e di aver catturato il suo portavoce nella regione di Idlib. Operazione concordata con i servizi segreti turchi. Attacco che avrebbe costretto il movimento a nominare un nuovo capo, identificato con il nome di battaglia di Abu Hafs al Hashimi. I guerriglieri, però, hanno smentito l’accusa.

Militanti del Sahel durante una cerimonia di giuramento
Fino a qualche anno fa la notizia avrebbe dominato sui media, invece è passata quasi sotto silenzio. Sono altre le priorità. Interessante la “scheda” postata su twitter dall’account @switched sulla durata del “regno” dei Califfi jihadisti. Eccola:

Abu Bakr al-Baghdadi: 6 anni, 203 giorni.
Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi: 2 anni, 95 giorni.
Abu al-Hasan al-Qurashi: 219 giorni.
Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi: 150 giorni.
Abu Hafs al-Hashimi al-Qurashi: attualmente in carica.

Giuramento di fedeltà in Ciad
La sintesi è che durano sempre meno. Un declino legato alla debolezza (ma non alla sconfitta totale) di quello che è nato come Isis, alla maggiore conoscenza da parte degli apparati di sicurezza, alla pressione militare di Stati e gruppi rivali.

Caldo record nell’inverno dell’America latina
di NATACHA PISARENKO
Fotografa dell’agenzia Ap
Nella foto sopra, ufficiali della marina cilena trasportano un team di scienziati alla stazione Bernardo O’Higgins in Antartide. Un nuovo studio pubblicato martedì 8 agosto conclude che l’Antartide continuerà ad essere colpita da frequenti e gravi eventi meteorologici estremi, risultato del cambiamento climatico causato dall’uomo.



Una calda giornata invernale a Santiago del Cile (foto di Elvis Gonzalez/Epa)
Quest’anno il Sud America sta sperimentando temperature record nel cuore dell’inverno. La crisi climatica e il fenomeno oceanico di El Niño stanno livellando le stagioni, in particolare nei Paesi del Cono sud. Il Cile ha registrato un’ondata di calore senza precedenti che ha sciolto completamente la neve in alcune zone della catena montuosa delle Ande e ha raggiunto temperature record in diverse città centrali. A Vicuna si sono toccati i 37°C all’inizio di agosto.

Città del Capo: cinque morti durante lo sciopero dei tassisti
Cinque persone sono state uccise a Città del Capo durante uno sciopero dei tassisti di minibus. Violenze sporadiche sono scoppiate in diverse parti della città dopo che la scorsa settimana la polizia ha iniziato a sequestrare alcuni veicoli per violazioni come guida senza patente o targa. Almeno 120 sospetti sono stati arrestati per danneggiamento di proprietà, saccheggio e violenza pubblica.

IL TACCUINO Ombre & Spie
Il dittatore nordcoreano Kim Jong-un in visita ad una fabbrica di armi
editorialista di GUIDO OLIMPIO
Scoop dell’agenzia Reuters: hackers nord coreani sono penetrati, ripetutamente, nella rete di una fabbrica missilistica russa a Reutov, vicino a Mosca. Non è però chiaro se siano riusciti a impossessarsi di dati cruciali. Quattro punti:
I cyber pirati del regime sono tra i più abili al mondo.
Pyongyang ha cercato in questi anni di migliorare la propria tecnologia cercando anche materiale all’estero.
Il leader Kim ha appena compiuto una visita “pastorale” alle industrie belliche del Paese (vedi foto), esortando a moltiplicare gli sforzi per avere un arsenale poderoso.
Per l’intelligence occidentale Nord Corea e Russia hanno intensificato la collaborazione diretta in campo militare: la recente visita del ministro della Difesa Shoigu sarebbe servita a ottenere munizioni d’artiglieria per la guerra in Ucraina.
Il Tesoro Usa ha inserito nella lista nera una ventina di maldiviani affiliati allo Stato Islamico. La cellula ha creato società, ha cercato di organizzare attacchi, è rimasta in contatto con referenti basati in Medio Oriente, in particolare in Siria. La decisione americana è una conferma indiretta di un vecchio filone: al Qaeda aveva reclutato elementi sfruttando tensioni sociali e politiche locali. Il testimone è poi passato, in parte, ai seguaci del Califfo. Con una doppia chiave: gli estremisti sono partiti per i fronti di guerra mentre altri sono rimasti nel paradiso del turismo a condurre opera di proselitismo.
Cittadino marocchino, stabilitosi in Europa, spesso in movimento tra l’Olanda e la Spagna. È stato fermato dalla polizia spagnola perché sospettato di essere il “rappresentante” del cartello messicano dei Los Zetas da questa parte dell’Atlantico. L’organizzazione è al ribasso in Messico, superata dai rivali e indebolita dalle faide, tuttavia non rinuncia alle attività illegali. Secondo alcune indiscrezioni l’arrestato potrebbe essere Said H., noto anche come El Hermano oppure El Sami. In passato avrebbe affiancato un esponente di rilievo mandato dai Los Zetas a gestire i traffici. Altro segnale investigativo. Smantellato un laboratorio per la cocaina a Pontevedra, in Galizia. A gestirlo un patto tra criminali messicani e colombiani.

È la giornata mondiale del leone
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Foto di Karin Leperi (WWF)
Oggi, 10 agosto, è la Giornata mondiale del leone. Una specie in pericolo: le popolazioni presenti in Africa hanno perduto il 90% del loro areale originario e il numero di leoni è calato drasticamente nell’ultimo secolo, passando da 200.000 agli inizi del ‘900 a meno di 30.000. Dai dati più recenti emerge che, solo negli ultimi 20 anni, la popolazione ha subito un declino del 43%. I leoni sono presenti in 27 Paesi africani, ma solo in 7 di questi si contano popolazioni con più di 1.000 individui. L’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) classifica la specie come “vulnerabile”, mentre risulta ormai estinta in 26 Stati del suo areale di origine.
Il WWF sta contribuendo al censimento dei leoni nel Parco Nazionale di Tsavo, in Kenya, attraverso l’implementazione di un metodo innovativo, basato sull’acquisizione e l’analisi di migliaia di immagini di leoni. Fra gli scatti, leoni che sbadigliano o dormono, alcuni sembrano più attivi e solitari mentre altri si muovono in branco. Aumentare la precisione delle stime della popolazione è fondamentale per migliorare gli sforzi di conservazione e salvare la specie.
Le minacce principali per la sopravvivenza del leone sono il degrado dell’habitat, la diminuzione di alcune delle sue prede elettive, il conflitto diretto e indiretto con l’uomo e il bracconaggio, legato anche al commercio illegale di pellicce e altre parti del corpo. Altra minaccia che mette a rischio la conservazione sul lungo termine di questo felino è l’aumento degli accoppiamenti tra consanguinei e la conseguente perdita di diversità genetica, causato dalla frammentazione dell’habitat e dalla presenza di popolazioni sempre più piccole e isolate tra loro.

Siria, storia di Abdel: arrestato, torturato e tornato cadavere
di FARID ADLY
La Rete siriana per i diritti umani informa in un rapporto che il siriano Mohammed Abdel-Rahman, originario di Aleppo, è tornato dal campo di sfollamento dove risiedeva da diversi anni a causa della guerra, è stato prelevato da casa sua da un reparto di agenti della polizia, in abiti civili, ed è stato fatto sparire senza dare notizie alla sua famiglia sul luogo della detenzione.
Dopo una settimana, è stato restituito cadavere con evidenti segni di torture. La famiglia non ha potuto far ricorso alla magistratura per timore di vendette da parte delle forze di sicurezza. Abdel-Rahman era sposato e padre di due bambini. Non era un miliziano, ma un attivista politico, sfollato da Aleppo verso la città di Atareb, ad ovest del capoluogo, dopo la sconfitta dell’opposizione.
Lo scorso maggio aveva deciso di tornare nella città d’origine, dove abitano ancora i suoi genitori, ed aveva presentato una domanda alle autorità di sicurezza per “Sistemare la propria posizione”, come si dice in gergo burocratico, cioè per sottoporsi ad un interrogatorio. La sua domanda era stata accettata e quindi aveva fatto ritorno con tutta la sua famiglia nella città natale. A metà luglio è avvenuto il blitz, nel cuore della notte: è stato arrestato senza un mandato. La scorsa settimana una telefonata anonima ne annunciava la morte.
La certezza dell’impunità rende le forze di sicurezza del regime sfacciate nel loro agire criminale. L’agente di polizia che ha consegnato il corpo si è rivolto alla vedova con queste parole: «Lei si deve ritenere fortunata, perché ci sarà una tomba dove potrà andare a piangere». Il riferimento è alle 150 mila sparizioni - denunciate dalle organizzazioni di difesa dei diritti civili - nelle carceri del regime dal 2011 ad oggi.
Liberato un ostaggio romeno nel Sahel, tre italiani ancora sequestrati
(g.o.) Iulian Ghergut, un romeno in ostaggio dei qaedisti, è stato liberato. Ancora pochi i dettagli, Bucarest ha ringraziato chi ha permesso la soluzione del dramma. Responsabile della sicurezza in una miniera del Burkina Faso, l’uomo era stato catturato nell’aprile del 2015 da un commando armato. La foto lo mostra in un video diffuso qualche tempo fa dai terroristi. Attualmente sono ancora prigionieri nella regione del Sahel tre italiani, un tedesco e un sudafricano.

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