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Autore Discussione: Invece, a volerlo credere, c’è parecchia politica anche in quelle storie.  (Letto 4606 volte)
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« inserito:: Marzo 11, 2021, 09:55:50 pm »

Tempo fa alcuni tra voi mi avevano chiesto di dedicare uno spazio qui sopra a Trieste. Tutto sommato l’occasione è arrivata con la lettura di un bel saggio-racconto-biografia di Pietro Spirito (Gente di Trieste, Laterza 2021). Ne ho scritto una specie di recensione (una specie, perché non so fare le recensioni) uscita stamane su Domani.
Vi dico subito che non è lunga, è molto più di lunga. Lunghissima.
Quindi nessuno che abbia scarso interesse al tema si forzi alla lettura. Per i pochi che, invece, vorranno farlo (sior Giuliano in testa) il ringraziamento arriva in anticipo e, se avranno voglia, ne leggerò con piacere i commenti. Un’ultima nota. Può parere (e lo capirei) che parlare oggi qui, in uno spazio quasi sempre consacrato alla politica (o ciò che ne resta), di una città lontana nel tempo (e non solo) sia un fuor d’opera. Invece, a volerlo credere, c’è parecchia politica anche in quelle storie.

Buona giornata e un abbraccio
Gianni Cuperlo
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Capisco che il nome non sia referenza di italianità, Carl Weyprecht intendo, e in effetti fu tedesco di nascita anche se triestino di adozione, come parecchi altri.
È passato alla cronaca del tempo, tra i posteri ha goduto meno fama, come pioniere dell’esplorazione polare. Era il giugno 1872, l’avventura si sarebbe prolungata un paio d’anni con uno sviluppo complicato, purtroppo doloroso. Oppure, Alice Zeriali, pittrice, classe 1909, aveva attraversato il secolo quasi per intero, intrattenendo una corrispondenza con Lionello Zorn Giorni, genero di Saba, scenografo, sceneggiatore, allievo a Berlino di Fritz Lang. Ma a scorrere i capitoli c’è pure Nazario Sauro, comandante di marina, patriota, catturato dagli austriaci dopo che il sommergibile Pullino si era incagliato all’imbocco del golfo del Quarnero, processato e impiccato a Pola il 10 agosto 1916. Il monumento che lo ricorda accoglie oggi passanti e croceristi alla Stazione Marittima, di lato alla vecchia pescheria convertita in polo culturale.
E poi la parabola umana, quella poco nota e ancor meno nobile, del poeta, l’Umberto Saba (nato Poli) omaggiato – al pari di Joyce sul canale di Ponterosso e Svevo (a sua volta nato Aron Hector Schmitz), davanti alla biblioteca civica – omaggiato dicevo di una statua bronzea senza piedistallo a immortalarne il passeggio sulla strada dove c’era e c’è la libreria col suo nome. L’elenco potrebbe allungarsi. Con Paolo Universo, letterato nativo di Pola, frequentatore di Ezra Pound, Pasolini e Queneau, solito in anni maturi a passeggiare tra viali e padiglioni dell’ospedale psichiatrico ribaltato da Basaglia, o l’infinito filone degli scienziati, da Johann Nepomuk Krieger, autore della prima mappa in dettaglio del suolo lunare ai fisici Paolo Budinich e Abdus Salam, Nobel pakistano, fondatore del Centro Internazionale di Fisica Teorica, lustro del presente.
Per concludere, volendo, coll’inventore della pasta Fissan o i nomi storici del caffè in tazzina. Un arcipelago di umanità, spesso dolente, racchiuso da Pietro Spirito, campano trapiantato alla frontiera orientale, in “Gente di Trieste” (Laterza 2021).

Ma perché parlarne oltre il Carso, al netto che si tratta di una immersione culturale e storica degna di cura? Al fondo per un paradosso. Perché quella città è stata talmente marginale all’Italia da divenire per contrasto la rappresentazione di quel che il paese non fu e avrebbe potuto essere. Mescolanza di ceppi, storie, biografie diverse e distanti, a volte tanto pazzesche da risultare impensabili, eppure fuse in un territorio stretto tra quel mare quasi sempre piatto e l’altopiano alle spalle a creare un’immagine speculare alla sentenza di D’Azeglio sul fare gli italiani una volta fatta l’Italia. Lassù, fatti i triestini si è trattato di fare Trieste.

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Per capirlo meglio conviene tornare alla libreria antiquaria di Saba. Come detto rimane dove il poeta l’aveva rilevata. Sono tre vetrine affacciate su Via San Nicolò, al civico 30, dietro la chiesa dei serbo ortodossi. Dal punto è rapido allungarsi verso Piazza Unità, la più grande nel continente con un lato a mare e il Molo Audace, testimone del ritorno del capoluogo all’Italia, era il 1954. Lungo il tragitto di aggiunto, cioè di relativamente recente, c’è solo il D’Annunzio, bronzeo pure lui, raccolto in lettura sulla panchina di Piazza della Borsa, omaggio al centenario dell’impresa fiumana.
A piedi, tra la statua del Vate e l’antica libreria correranno sì e no trecento metri, la lontananza morale, invece, è infinitamente maggiore. Il primo, l’eroe del Vittoriale, si è lasciato dietro una scia di gloria coltivata in versi, oratoria, trasvolate e posture. L’altro, il Poeta del luogo, doveva essere il contrasto incarnato. Lo racconta di suo pugno a Scipio Slataper, scrittore e militare irredentista, siamo nel febbraio del 1911. Saba sceglie la forma dell’articolo, lo battezza “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”, dove l’aggettivo intendeva la deriva da scansare. Lui aveva le sue idee ben stampate, opponeva i versi manzoniani, mediocri e immortali, a quelli magnifici e precari di D’Annunzio.
Nel giudizio sul secondo calcava il contrasto oltre gli stili, lo accostava all’insieme dei caratteri giudicandoli dalla sincerità nel coltivare le passioni. A seguire imbastiva una tesi di particolari: quando manchi della grazia, se non vuole imbrogliare, il poeta ha il dovere di fermarsi di qua dall’ispirazione riconoscendosi imperfetto, però falso mai.
A simulare i sentimenti, proseguiva, avrebbe forse raggiunto la fama, ma a costo di tradire l’arte. Fra i due mondi la distanza diventa incolmabile perché innestata sui principi. A quel punto il monito è cogliere il fine del poetare sapendo quanto può inclinare al mondano oppure elevarsi, e qui la simbologia si complica perché, spiega Saba, la vera poesia non può somigliare al rito protestante, deve imitare l’ostia cattolica, riassumere anima e corpo. La poesia onesta, dunque. Adesso proviamo a sostituire ai versi il discorso pubblico, l’agire istituzionale, il linguaggio del civismo, e chissà non si possa scoprire nella diatriba di allora qualche motivo per riflettere sulla stanchezza dell’oggi.
   
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Sembrerà un altro paradosso, ma per un Poeta fedele all’onestà la Città si è dotata di un genio votato a svelare il vizio della menzogna. Vittorio Benussi, restituito dal saggio di Spirito al giusto ruolo, ha inciso il suo nome tra i pionieri della psicologia. Triestino per imprinting, studiò filosofia a Graz frequentando l’unico esperimento imperiale di laboratorio per la nuova disciplina. D’intelligenza acuta iniziò a sperimentare apparecchi capaci di stimare le alterazioni del respiro a conferma di emozioni e verità dichiarate. Nasceva il prototipo di lie detector (rivelatore di bugie), insomma l’antesignana macchina della verità. Da irredentista qual era, la grande mattanza del primo conflitto mondiale lo avrebbe spinto a scegliere l’Italia, ma il trauma gli sarebbe covato dentro senza nulla potere contro l’angoscia l’incarico successivo di una cattedra a Padova. Lì, tra gli allievi, avrebbe incrociato il giovane Cesare Musatti e sarebbe toccato a quest’ultimo nel 1927 rinvenire il corpo del Maestro spento da un tè al cianuro.
A lungo il padre della nostra psicoanalisi avrebbe taciuto le circostanze parlando di un malore e chiarendo i fatti solo mezzo secolo dopo. Bell’incastro. Lo scienziato votato a smascherare la simulazione avvolto nella falsità dell’atto finale, bugia alimentata dall’allievo di miglior talento.

Ora, tornando al manoscritto di Saba a Slataper, nella memoria di Linuccia, la figlia del Poeta, spuntò tra le carte il giorno della morte del padre, 25 agosto 1957. La stessa sera Carlo Levi ne fece una lettura in casa davanti a pochi affetti e amici, gli scrittori Quarantotti Gambini, Giani Stuparich e qualche altro. Non c’era un iPhone a immortalare la scena, conferma di quanto le invenzioni arrivino fuori tempo, però rimane l’articolo e, insisto, se uno lo rilegge cercando qualcosa di sé, e di noi, può capitare di coglierlo. Almeno, a me è parso così perché in fondo descrive il guasto della retorica furba e spesso ipocrita, e di un discorso pubblico – arte e letteratura sono un’altra cosa – incapace a restituire principi e radicalità alla politica.

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Va detto che di recente Trieste ha rinnovato la sua notorietà. A molti piace pensarla, scoprirla, traversarla. Da quelle parti, si sarà compreso, il senso comune assegna alla storia un peso opprimente, per una fase neppure breve è stato inevitabile. Parliamo del confine più lacerato, quello dove l’ultimo dopoguerra si è protratto allo sfinimento. Claudio Magris ha suggerito sulla città la definizione di Dostoevskij per Pietroburgo, realtà “astratta e premeditata”, cresciuta per impulso di un governo e orfana di sviluppo organico. Luogo di contrasti capace di scovare in quei conflitti, spesso irriducibili, la propria identità. Presa così la suggestione si spinge oltre, a inglobare culture e passioni.
Si fa artefice di un mondo, o un mito, destinato a dar conto di contraddizioni del vivere civile.
Pensate pure a un universo depurato di un fondamento centrale, una unità di valori. Da Svevo a Bazlen, nume della casa Adelphi, quella è divenuta patria per “grandi narratori di terremoti spirituali che si apprestavano a sconvolgere il mondo”. In effetti è arduo sottrarre Zeno Cosini, l’anti eroe de la “Coscienza”, al romanzo della crisi dell’individuo dove si dibatte in compagnia di Musil, Kafka o Canetti. Ancora Magris estrae dal contesto il succo di vero. La tesi su Trieste come Dublino, capitale della poesia in ragione di povere tradizioni ottocentesche, periferia rispetto ai grandi filoni ideali e per questo in grado di farsi punta della crisi di quella civiltà e basamento di un’altra.
Eugenio Montale di passaggio per il centenario dell’amico Svevo riassunse la parabola parlando del capoluogo come l’unico della penisola glorificato dai propri scrittori, e in effetti la letteratura a quel punto è altro, una reazione o infrazione della norma sociale. Lo scrittore Aron Hector Schmitz (Italo Svevo) si maschera dietro il commerciante “ma ogni commerciante è un potenziale scrittore”. L’esito è un’anima mercantile in conflitto con quella italiana sul piano economico e quella poetica a livello spirituale.
Più o meno la tesi di Angelo Vivante, storico, giornalista e socialista, città divisa tra spirito e interesse, ma insieme il luogo dove più compiuta è la simbologia della pace europea, in ragione della tradizione irredentista, e poi le pietre carsiche, e trincee e musei a cielo aperto della Grande Guerra. E anche per la natura del fascismo e la repressione slovena, l’orrore della Risiera, la violenza cieca delle Foibe. Tutto racchiuso in un perimetro ridotto, da percorrere a piedi, o quasi.

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Bisogna chiudere il cerchio, non quello del saggio prezioso di Spirito, quello di un nesso da trovargli con l’attualità nostra, di gente vissuta altrove, è anche il mio caso, eppure convinta, soprattutto in età matura, di una necessità: ricongiungere spirito e interesse dovrebbe diventare la bussola per questa Italia politicamente scomposta e alla ricerca di un assetto futuro. Per la Città è avvenuto sull’onda di eventi che hanno stravolto la geo-politica: da porto di un Impero a città marginale orfana di quasi tutto in un centro Europa diviso da barriere doganali, per di più esposta alla concorrenza di altri sbarchi peninsulari. Insomma, da economia florida a polo assistito, non più valore da esportare, ma peso da caricarsi con l’eccezione del mai depresso mercato assicurativo. Poi però, in anni prossimi a noi, la svolta. 
Non parliamo di retoriche nostalgiche, la materia è attuale. Dall’oleodotto in partenza da lì passa il trenta per cento del petrolio destinato a Vienna, il quaranta di quello in arrivo dalla Germania e la totalità della fornitura alla Baviera. Numeri, potenzialità, destinati a risvegliare umori autonomisti mai del tutto sepolti e interessi delle grandi potenze, compresa la Nato sensibile alla sorte dello scalo giuliano e del suo gemello a Capodistria perché snodi della direttiva tra Balcani, Adriatico e il Nord. In questo Trieste somma in sé, dentro sé, politica interna ed estera. Combina le due vocazioni, non le si può districare e diventa per ciò una risorsa, ma è la sua natura, nulla più.

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A modo suo uno che doveva averlo intuito è stato il “medico dei matti”. Quando Franco Basaglia arrivò in città, era il 1971, un gruppo di giovani medici, da ogni parte, chiese se potevano salire a dare una mano, imparare, condividere l’esperimento, e davvero ne sbarcarono diversi, parabola minima di cosa può indurre l’attrazione. Peppe Dell’Acqua, amico ed erede di quella pagina, in un dialogo a teatro con Massimo Cirri, parlando di sé, quell’incontro lo ha ricostruito così: “Trieste porta in quel momento le tracce di un’immigrazione davvero imponente, difficile e dolorosa. Il giorno dopo la festa della Vittoria, Basaglia ci riunisce nel suo studio. Comincia il lavoro. Pronuncia un breve discorso, ci dice a grandi linee cosa faremo, e soprattutto cosa non faremo, e assegna ognuno di noi a un reparto. Siamo perplessi, senza parole, sorpresi, intimiditi. Qualcuno trova il coraggio di parlare. “Ma professore, noi non sappiamo niente di psichiatria”. Un altro, “io non ho fatto nemmeno l’esame di Stato” e un terzo “e io degli psicofarmaci non so nulla. È la prima volta che mi trovo in un ospedale psichiatrico…”. Lui ascolta, ci guarda con un’espressione ironica e ride bonario mentre ci manda via dicendo: “Andate, andate”. Ci spedisce al fronte, insomma. E mentre usciamo, “Andate, tanto non potrete fare più danni di quelli che sono già stati fatti”.

Ecco, chissà cosa avrebbe significato un Basaglia di più nella storia nostra, intendo la storia di queste settimane e mesi di chiusura forzata di tutto, compresa la mente di parecchi. Forse non per caso quel mezzo miracolo doveva maturare tra San Giovanni e gli scogli di Barcola. Tutto per dire quanto distante sia quella terra dall’idea di isolamento e perdita del senso di sé come riflesso della vita degli altri. Quando una società si chiude muore, se spalancata riscopre una potenza singolare. È così, da sempre, e allora un ultimo pensiero viene naturale: non è un caso se lì, al confine più confine tra tutti, diventa possibile colmare oggi la distanza tra spirito e interesse. Dovrebbe valere anche per gli altri. E comunque gli altri la pensino come vogliono. Mi contenterei valesse per noi, per chi si ostina a credere che tra il fare e l’agire corra la stessa distanza che divide il robot dall’umano. Insomma, si tratterebbe di capire come senza ricostruire in mezzo a noi – nei partiti e nelle aule dove si studia, nei sindacati al pari delle parrocchie – senza ricostruire, dicevo, una idea dell’avvenire sganciata dal decalogo del prossimo semestre riusciremo certo a sopravvivere all’ennesima stagione dominio di tecnici attrezzati, ma non avremo ricostruito l’identità di una nazione. Capirlo, prima che si faccia tardi, dovrebbe aiutarci a imboccare il sentiero giusto. Per cui ai più giovani, titubanti sulla possibilità di provarci, verrebbe solo da ripetere “Andate, andate. E provateci che tanto non potrete fare più danni di quelli che sono già stati fatti”.

PS. Se siete sopravvissuti arrivando in fondo, sappiate che vi voglio bene!

Da Fb del 11 marzo 2021 - Gianni Cuperlo.
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