LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 03:31:11 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: “Ciò che sta dietro il denaro” Ancora una postilla sulla Ciociara di Moravia  (Letto 3069 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« inserito:: Giugno 03, 2019, 02:02:59 pm »

“Ciò che sta dietro il denaro”
Ancora una postilla sulla Ciociara di Moravia

Di Eros Barone
Ciociara

La realtà vera, nei suoi complessi rapporti che la legano alla finzione, si dischiude solo a una coscienza sviluppata, che non è più in sé, ma è per sé e per gli altri.
György Lukács

1. Forza dialettica e oggettività del “realismo critico”
Le pagine centrali della Ciociara sono quelle più vicine alla diretta esperienza dell’autore.
1 E fra le pagine più belle perché più vere vi sono quelle dedicate alle riflessioni sulla natura e sugli scopi della guerra, uno ‘specimen’ delle quali si è scelto qui di riprodurre attraverso la figura e la vicenda di Tommasino, cioè di un personaggio legato alla monomania del negozio e, come accadeva in tempo di guerra, alla pratica della borsa nera: un personaggio quindi ferreamente condizionato dal feticismo del denaro e che pagherà con la perdita del senno e della vita la scoperta di “ciò che sta dietro il denaro”. Si tratterà allora, per un verso, della scoperta di ciò che costituisce la vera sostanza di quell’apparenza spettrale, ossia nel caso la macchina bellica, e, per un altro verso, del fatto che la merce non potrà mai sfamare il mondo, che è proprio quanto dovrà constatare amaramente a sue spese la moglie di Tommasino.
E qui Moravia, ritrovando, potenziata ‘in rebus ipsis’ dalla lezione del marxismo e del leninismo, la forza morale dello scrittore “agro e giansenista” che egli era stato nella sua giovinezza,
2 esprime una piena ed icastica consapevolezza di quale sia la realtà retrostante alla forma-denaro e alla forma-merce, ossia il nocciolo sanguinoso e distruttivo della lotta per il profitto capitalistico e per la supremazia territoriale, la cui logica – suggerisce l’autore – si esplica in tutta la sua dirompente violenza (il bombardamento a tappeto serve, innanzitutto, a terrorizzare la popolazione civile, incrinandone il consenso al governo esistente) nella guerra inter-imperialistica e nelle contrapposte occupazioni militari (quella tedesca che sarà responsabile del sequestro e dell’uccisione di Michele, quella anglo-franco-americana che sarà responsabile dello stupro di Rosetta).
Basterebbero a testimoniare tale consapevolezza le pagine dedicate alla descrizione dello stupro di Rosetta da parte di una pattuglia di soldati marocchini - atto che viene compiuto tra le rovine di una chiesa distrutta dalle bombe in cui campeggia l’effigie rovesciata di una Madonna - e la forza con la quale Moravia evoca la delusione e l’orrore suscitati da un episodio che rappresenta chiaramente l’infausto e immancabile contraltare delle speranze portate dalla Liberazione appena avvenuta.

Del resto, le pagine sui meccanismi del comportamento sociale e ‘popolare’, a cui porge una ricca materia la stessa esperienza vissuta dallo scrittore e dalla moglie in quel microcosmo degli sfollati che si aggrega sulle montagne che cingono l’entroterra di Fondi, non solo rivelano una capacità straordinaria di osservazione etnico-sociale, ma confermano senza ombra di dubbio che la Ciociara è una delle prove migliori di Moravia e un culmine della narrativa postbellica. In effetti, dal punto di vista storico-letterario, la Ciociara è un libro che non rientra per nulla nella letteratura decadente in quel periodo ancora in auge. Non solo le sue pagine sono, per lo stile e per il contenuto, del tutto estranee a questo filone ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, appartengono ad un libro scritto in prima persona proprio per assolvere ad una esigenza di ricerca dell’oggettività fortemente sentita dall’autore. In questo senso si può dire che l’adozione di un punto di vista omodiegetico, che si realizza attraverso l’uso della prima persona, è ciò che sancisce l’appartenenza di Moravia al “realismo critico”,
3 laddove è bene precisare che tale categoria non va intesa come un giudizio estetico, ma risponde esclusivamente ad un criterio di classificazione. D’altronde, per ampiezza di contenuti il romanzo di Moravia si distacca dai migliori prodotti del realismo nazional-popolare italiano del secondo dopoguerra, rispetto ai quali ha il vantaggio, per l’appunto, di non essere un miscuglio di decadenza e di populismo.

La formazione di una coscienza
Ovviamente, il personaggio cui l’autore affida la funzione di voce narrante, cioè Cesira, è una prima persona inverosimile e, benché essa adoperi una lingua mescidata di romanesco, coincide con il narratore onnisciente e parla il suo ottimo italiano. Dunque, niente di meno verosimile, e insieme niente di più vero. Sennonché, ancora una volta, è impossibile non ammirare la sapienza con cui Moravia fa vivere le successive fasi della formazione di una coscienza: attraverso l’atmosfera arcaica di un villaggio ad economia familiare, dove, nel difficile contatto con la durezza della vita e l’ostilità della natura moltiplicate dagli eventi bellici, la bottegaia Cesira si riscatta dalla sua rapacità piccolo-borghese; attraverso i contatti con l’intellettuale antifascista, col tedesco nazista, con lo speculatore Tommasino ecc., che le rivelano gradatamente il vero significato della guerra; attraverso lo stupro, che la ripiomba nell’incomprensione, ma portando all’estremo della negatività la sua esperienza sancisce nel contempo l’affermarsi di una piena consapevolezza (piena in quanto dialettica e pagata a caro prezzo); attraverso, insomma, situazioni e personaggi che conferiscono al romanzo un carattere radicalmente critico e schiettamente realista.

Moravia, allora, scopre, e ci fa scoprire, attraverso una vera e propria “fenomenologia dello spirito” - quella che egli tratteggia nella Ciociara -, che, a differenza del mondo borghese dei quartieri della ‘Roma bene’ da lui descritti con tanta vischiosa aderenza negli Indifferenti , la realtà oggettiva non è quella riflessa in coscienze che la vedono come alcunché di immutabile, cioè in modo non oggettivo, bensì quella riflessa da una coscienza capace di affrontare, di vivere e di elaborare “il travaglio del negativo”. Questo è ciò che accade nella Ciociara, dove la protagonista, da un lato, giunge a intendere il significato della violenza e dell’umiliazione collettiva e, dall’altro, attraverso questa lacerante esperienza giunge ad acquisire una consapevolezza nuova in cui si riflette la vicenda oggettiva còlta nella sua dinamica contraddittoria: il ricrearsi del positivo dal negativo, della storia dalla fine della storia, della vita dalla morte (si pensi a quell’episodio, anch’esso indimenticabile come tante altre pagine felici di questo romanzo, che è la lettura e l’interpretazione allegorica e laica della parabola evangelica di Lazzaro da parte di Michele, e al suo scontrarsi, pieno di amarezza e di risentimento, con l’incomprensione e la distrazione dell’uditorio popolare a cui egli si rivolge). La realtà è così riflessa nella coscienza, ma questo riflesso, lungi dall’essere una sua deformazione parziale, è adeguato alla sua essenza.

Due coppie di opposti correlativi asimmetrici: bene e male, proletariato e borghesia
Si sarà ormai capito, in forza delle pagine che sono state qui proposte alla lettura, che la Ciociara è un romanzo ricco di aspetti filosofici. Ad uno di tali aspetti, quello cruciale costituito dall’opposizione tra il bene e il male, mi sembra opportuno, a titolo di postilla conclusiva, prestare una certa attenzione. Se si volge infatti lo sguardo dagli eventi più atroci della storia mondiale, come lo sterminio degli ebrei e il rogo atomico di Hiroshima e Nagasaki, ai fatti della cronaca nera italiana, non mancano davvero esempi che sembrano attestare non solo la potenza, ma anche (e questo è forse l’aspetto più inquietante) la banalità del male.
4 Perciò, seguendo le orme di quei dotti dell’età moderna come Pierre Bayle, insigne pioniere della critica biblica, o di quei pensatori come Voltaire nel periodo illuministico, Stuart Mill in quello positivistico e, in età novecentesca, il nostro Piero Martinetti, i quali, di fronte allo spettacolo angoscioso e ‘perturbante’ del male fisico e morale, hanno manifestato una forte propensione verso la dottrina del manicheismo, si sarebbe tentati, per dare al male un fondamento razionale e giustificarne l’esistenza sottraendolo alla sfera terribile dell’assurdo, di concepirlo come una realtà metafisica, ossia un’entità autonoma, e non, secondo quanto afferma la dottrina cristiana, come ‘defectus boni’, ossia assenza di bene: concezione, questa, che sembra rivelare, da parte della Chiesa e del cristianesimo, una sorta di riluttanza e quasi di paura a comprendere il significato e la portata del male.
Del resto, quale problema si è dimostrato maggiormente irresolubile di quello che si riassume nella cruciale domanda: “Si est Deus, unde malum?” (‘Se Dio esiste, da dove nasce il male? ’). Domanda a cui un Padre della Chiesa come sant’Agostino, nel vano tentativo di conciliare l’attributo dell’infinita bontà di Dio con l’irrefutabile potenza del male, finì col dare risposta ricorrendo ad una dottrina, la doppia predestinazione, non dissìmile dal manicheismo, corrente religiosa dualistica e razionalistica a cui il grande teologo cristiano aveva aderito nella sua giovinezza.
In realtà, ciò che colpisce è che tante persone dimostrino verso il male un tale grado di assuefazione, per non dire d’insensibilità, da non riuscire più a percepirlo nel suo sorgere (come segnalava con preoccupazione Primo Levi nel finale del saggio I sommersi e i salvati).
5 Occorre, invece, abituarsi a guardare l’“uovo del serpente” che lascia trasparire dal suo guscio opaco la bestia terribile che nascerà (metafora, questa, usata da Ingmar Bergman come titolo del suo film sul nazismo).
6 Del resto, è difficile negare che la circostanza più sconcertante, quella da cui dipende la banalizzazione del male, è che le persone sembrano non avere più il senso del bene e del male, sino al punto di non percepire neanche la propria colpevolezza. In tal modo, grazie a questo niccianesimo d’accatto e al suo ‘maquillage’ in chiave ludico-narcisistica approntato dall’accidiosa cultura del postmodernismo, il male si espande a tal punto che investe anche le persone che sembravano buone. Quel male la cui esistenza e la cui estensione sembrano procedere di pari passo con uno sviluppo tecnologico e scientifico di cui sfuggono la natura e i fini, e con la congiunta regressione all’età adolescenziale, che tanti adulti coltìvano e che il sistema simbolico-pubblicitario in cui viviamo contribuisce potentemente ad alimentare.
Tuttavia, il pensiero dialettico, che sa cogliere il punto magico dell’unità dei contrari e, proprio per questo, ha una sua profonda forza etica, ci ripropone, sbloccando così il processo del reale e ponendo in tensione i suoi poli, la domanda con la quale gli uomini si sono sempre dovuti confrontare e dovranno anche in futuro continuare a confrontarsi: vi è un bene anche nel male e vi è un male anche nel bene?
Non vi è dubbio che questa sia la domanda che domina l’episodio dello stupro, che rappresenta un momento centrale della vicenda narrata da Moravia nella Ciociara. Così, la metamorfosi cui va incontro Rosetta in séguito a quel trauma è descritta in base ad una percezione dialettica in virtù della quale l’autore non scade mai nell’agnosticismo o nell’immoralismo, ma imposta e svolge il tema della inseparabilità del male dal bene (Rosetta prima dello stupro) e del bene dal male (Rosetta dopo lo stupro), in altri termini imposta e svolge il tema della reciproca convertibilità del bene e del male, senza mai rinunciare alla fermezza e al rigore del giudizio etico che discrimina, nelle situazioni specifiche e concrete, il bene dal male in quanto correlativi (non simmetrici ma) asimmetrici, il cui ‘status’ logico-ontologico è identico, sul piano storico-morale, alla opposizione fra proletariato e borghesia in cui si manifesta, sul piano politico-sociale e su quello ideologico-culturale, la lotta di classe.
7 Bisogna, allora, riconoscere che vi è un aspetto del male, che non è stato mai abbastanza approfondito e sul quale converrebbe iniziare una riflessione matura: esso è quello espresso da Mefistofele nel “Prologo in cielo” del Faust di Goethe (1808), quando questo dèmone si definisce «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene». E, dal canto suo, Hegel, il più grande dialettico dell’età moderna, il maestro di Marx e di Lenin, non ha forse affermato che «la storia avanza dal lato cattivo» e che «la schiavitù è la culla della libertà»?
Se non si vuole, pertanto, accettare, a causa della sua radicalità e della sua durezza, l’indicazione di Bertolt Brecht secondo la quale «bontà oggi significa distruggere coloro che impediscono la bontà»,
8 sarà almeno lecito considerare con la dovuta serietà l’analisi e la proposta, in apparenza meno dure ma altrettanto radicali, di Lars von Trier, il regista di “Dogville”,
9 che alla poetica dell’estraneazione, al teatro didattico e al pensiero marxista di Brecht si richiama esplicitamente: «Bene e male sono dentro di noi e sono le circostanze a fare uscire allo scoperto o l’uno o l’altro. Credo allora che dobbiamo lavorare sulle circostanze.»
10 Pertanto, è doveroso riconoscere come espressione della sua importanza storica e della sua persistente vitalità, pur nei differenti esiti artistici e letterari (e l’esito della Ciociara è uno dei più alti fra quelli che ha fornito la sua produzione narrativa), lo spessore dialettico e la pregnanza filosofica del realismo critico che caratterizza la prosopografia di Moravia, per il quale il “personaggio uomo”, quando patetico e quando epico, quando farsesco e quando serio, quando problematico e quando assertivo, rivela sempre una interna duplicità che solo l’urto con le situazioni specifiche della vita è in grado di sciogliere, offrendo al giudizio etico, non meno che a quello politico e sociale, il giusto legame, sempre da stabilire in modo storicamente concreto, tra il soggetto e il predicato. È difficile chiedere di più ad uno scrittore.

* * * *

Alla fine, ecco, all’angolo della strada spuntare un uomo che camminava piano mangiando un’arancia. Riconobbi subito Tommasino che rassomigliava tale e quale un ebreo del ghetto, con il viso lungo, la barba di una settimana, il naso ricurvo, gli occhi a fior di pelle e il passo strascicato, coi piedi in fuori. Anche lui mi aveva riconosciuto perché ero sua cliente e in quelle settimane gli avevo comprato parecchia roba; ma, diffidente, non rispose al mio saluto e venne avanti mangiando l’arancia e guardando in basso. Come ci fu vicino gli dissi subito: «Tommasino, noi siamo andate via dalla casa di Concetta. Tu ora ci devi aiutare perché non sappiamo dove andare». Lui allora si appoggiò alla spalletta del ponte, con un piede contro il muricciolo, diede un morso ad un’altra arancia che aveva cavato di tasca, mi sputò la buccia in faccia e poi disse: «È una parola. Di questi tempi, ognuno per sé e Dio per tutti. Come vuoi che io ti aiuti?». Dissi: «Tu conosci qualche contadino di montagna che possa darci ospitalità fino a quando vengono gli inglesi?». E lui: «Non conosco nessuno e tutte le casette sono occupate, a quanto mi risulta. Ma se vai in montagna qualche cosa trovi: una capanna, un pagliaio». Dissi: «No, così da sola non ci vado. Tu ci hai tuoi fratello in montagna e tu conosci i contadini. Dovresti darmi qualche indicazione». E lui sputandomi un’altra buccia sulla faccia: «Io, al tuo posto, lo sai che farei?». «Che cosa?». «Me ne tornerei a Roma. Ecco quel che farei».

Capii che faceva il sordo perché ci credeva due poverette e sapevo che lui non pensava che al denaro e finché non c’era di mezzo il denaro lui non faceva niente per nessuno. Non gli avevo mai detto che portavo sopra di me una grossa somma di denaro, ma adesso capivo che era giunto il momento di farglielo sapere. Con lui mi potevo fidare perché era della mia stessa razza: era bottegaio come me, avendo un negozio di alimentari a Fondi, e adesso faceva la borsa nera esattamente come l’avevo fatta io e, insomma, come si dice, cane non morde cane. Così, senza insistere oltre, dissi: «Io a Roma non ci vado, perché ci sono i bombardamenti e la carestia e non ci sono più treni e mia figlia, qui, Rosetta è ancora sotto l’impressione delle bombe. Io ho deciso di andare in montagna e di trovarci un alloggio. Pagherò. E voglio anche fare qualche provvista come sarebbe a dire olio, fagioli, arance, formaggio, farina, insomma un po’ di tutto. Pagherò tutto in contanti perché ci ho i soldi, ho quasi centomila lire. Tu non vuoi aiutarmi: va bene, mi rivolgerò a qualcun altro, non sei mica il solo qui a Fondi, c’è Esposito, c’è Scalise, ce ne sono tanti. Andiamo Rosetta». Avevo parlato risoluta; quindi ripresi la valigia sul cercine e Rosetta fece lo stesso e ci avviammo per la strada in direzione di Monte San Biagio. Al sentirmi dire che avevo centomila lire, Tommasino aveva sgranato gli occhi rimanendo per un momento coi denti sull’arancia che stava sbucciando. Quindi, buttata via l’arancia, mi corse dietro. Per via della valigia che tenevo in bilico sulla testa non potevo girarmi dalla sua parte ma sentivo la sua voce roca e affannosa che pregava: «Ma un momento, fermati, che diamine, che ti prende, fermati, parliamo, ragioniamo».
****

11 Tommasino, quel giorno stesso [quando Cesira, Rosetta e Tommasino che le accompagnava si erano salvati per un pelo da un pauroso bombardamento che li aveva sorpresi lungo la strada e che aveva fatto perdere il senno a Tommasino], scappò su su, alla località sopra Sant’Eufemia dove ci aveva la famiglia. Il mattino seguente mandò un contadino con due muli a prendere, nella casetta che aveva a valle, tutta la sua roba, compresi i materassi e le reti dei letti e si fece portare ogni cosa in cima alla montagna. Ma la casetta dove si trovava la sua famiglia non gli sembrò abbastanza sicura; e così, qualche giorno dopo, si trasportò con la moglie e i figli in una grotta che stava proprio sotto la vetta del monte. Era una grotta spaziosa e profonda, con l’imboccatura che non si poteva vedere da fuori perché tutta nascosta dagli alberi e dai rovi. Sopra questa grotta si alzava una rupe enorme, grigia, alta alta, in forma di un pan di zucchero, che si vedeva benissimo anche dalla valle, tanto era grossa; e così il soffitto della grotta ci avrà avuto uno spessore di parecchie decine di metri di roccia piena. Lui si mise con la famiglia in questa grotta che, nei tempi andati, era stato un rifugio per i briganti e voi penserete che ormai si sentisse al sicuro dalle bombe e che la paura gli fosse passata. Ma lui aveva avuto una tale paura che, per così dire, gli era entrata nel sangue come una febbre; e adesso, con tutta la grotta e la rupe che la proteggeva, non faceva che tremare tutto il giorno, dalla testa ai piedi, standosene appoggiato or qua or là, con il capo e le spalle avvolte in una coperta. Non faceva che ripetere: «Sto male, sto male», con voce fioca e lamentosa e non mangiava più e non dormiva più e, insomma, deperiva a vista d’occhio, sciogliendosi come una candela, ogni giorno un poco di più. Io lo visitai uno di quei giorni e lo trovai magro e abbattuto da far pietà, che tremava, appoggiato contro l’ingresso della grotta, tutto imbacuccato nella sua coperta; e ricordo che, non rendendomi conto che era malato sul serio, lo presi un po’ in giro dicendogli: «Ma, Tommasino, di che hai paura? Questa grotta qui è a prova di bombe. Di che hai paura? Forse che le bombe girino per questo bosco come serpenti e ti vengano a cercare dentro il tuo letto?». Lui mi guardava come se non mi comprendesse e badava a ripetere: «Sto male, sto male». E insomma, dopo alcuni giorni, venimmo a sapere che era morto. Era morto di paura perché non aveva ferite né malattie: soltanto l’impressione di quelle bombe. Io non andai al funerale perché mi metteva tristezza e di cose tristi ce n’erano già tante. Ci andò la famiglia di lui e Filippo con la sua; e il morto non lo chiusero in una cassa da morto perché non c’erano assi né falegnami, ma lo legarono tra due rami d’albero; e il beccamorto, uno spilungone biondo che era anche lui sfollato e adesso faceva un po’ di borsa nera girando per le montagne con il suo cavallo nero, legò Tommasino in sella al cavallo e, passo passo, per la mulattiera, lo portò giù al cimitero. Mi dissero poi che non riuscirono a trovare alcun prete perché tutti erano scappati, e così lui, poveretto, dovette contentarsi delle preghiere die congiunti; che il funerale fu interrotto tre volte dagli allarmi aerei; che, sulla tomba, in mancanza d’altro, ci misero una croce fatta con due assicelle strappate da una cassetta di munizioni. In seguito seppi che Tommasino aveva lasciato alla moglie parecchio denaro ma niente provviste: commerciando e negoziando, si era venduto tutto, fino all’ultimo chilo di farina e all’ultimo etto di sale; e così la vedova si ritrovò con il denaro ma senza niente da mangiare e, per campare, fu costretta ad acquistare al doppio ciò che il marito aveva venduto alla metà e credo che, alla fine della guerra, di tutti quei denari che Tommasino le aveva lasciato, non le era rimasto quasi niente, anche per via della svalutazione della moneta. Volete saperlo che disse Michele alla morte dello zio? «Mi dispiace perché era un buon uomo. Ma è morto come potrebbe domani morire tanta gente come lui: correndo dietro al denaro e illudendosi che non ci sia che il denaro; e poi, improvvisamente, restando agghiacciato dalla paura alla vista di ciò che sta dietro il denaro». 12

Note
1 Per l’articolo principale sulla Ciociara si veda in questa sede al seguente indirizzo: https://www.sinistrainrete.info/cultura/14914-eros-barone-alcune-geniali-intuizioni-di-alberto-moravia-nel-romanzo-la-ciociara.html.
2 Il giudizio, acuto, è espresso da Geno Pampaloni nel suo bel profilo dedicato a Moravia in Storia della letteratura italiana, vol. IX, Garzanti, Milano 1976, pp. 667-681.
3 La categoria di “realismo critico”, riferita a Moravia, è stata formulata da Edoardo Sanguineti nella sua importante monografia (Alberto Moravia, Mursia, Milano 1962, più volte ristampata).
4 Cfr., per questa nozione, H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1999 (ed. or. 1963).
5 P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991 (prima ed. 1986).
6 L'uovo del serpente (The Serpent's Egg) è un film del 1977. 
7 Per una corretta impostazione di questa problematica si veda la Parte Prima, dedicata al materialismo dialettico, del saggio di G. Bottiroli, La contraddizione e la differenza, Giappichelli, Torino 1980, pp. 9-120.
8 Bertolt Brecht, L’anima buona del Sezuan, Einaudi, Torino 1965.
9 Dogville è un film del 2003 scritto e diretto da Lars von Trier.
10 Cfr. sulla Rete la seguente intervista: https://www.sentieriselvaggi.it/io-credo-che-il-bene-e-il-male-siano-delle-componenti-basilari-nellessere-umano-incontro-con-lars-von-trier/.
11 A. Moravia, La ciociara, Bompiani, Milano 1966, pp. 78-80.
12 Ibidem, pp. 197-199.

Da - https://www.sinistrainrete.info/cultura/15000-eros-barone-cio-che-sta-dietro-il-denaro.html?utm_source=newsletter_857&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-sinistrainrete
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!