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Autore Discussione: Ninni Andriolo - Fassino: «Ma quale crisi pensiamo alla dignità del lavoro»  (Letto 3218 volte)
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« inserito:: Dicembre 10, 2007, 04:54:29 pm »

Fassino: «Ma quale crisi pensiamo alla dignità del lavoro»

Ninni Andriolo


«Ancora operai che muoiono sul posto di lavoro, questo è inaccettabile». La tragedia che ha colpito la sua Torino ha commosso profondamente Piero Fassino, che ripropone in questa intervista «l’urgenza di restituire al lavoro la dignità che merita». Il governo «ha fatto molto» anche su questo terreno, afferma il segretario Ds che chiede, poi, «coesione e compattezza» alla maggioranza in vista di una verifica «che non potrà tradursi in un vecchio rito da prima repubblica che apre di fatto la crisi politica».

Le critiche di Bertinotti? «Inopportune e ingenerose, tanto è vero che egli stesso ha sentito il dovere in queste ore di correggersi». Rifondazione, esorta Fassino, «si trova in mezzo al guado» e deve sottrarsi alla tentazione di «tornare alla riva di partenza», cioè all'opposizione. Anche perché, nel solco dei risultati raggiunti, è possibile «per questo governo e questa maggioranza portare avanti nuove sfide per garantire al Paese equità e sviluppo».

Onorevole Fassino, una strage continua quella che colpisce fabbriche e cantieri. Bassi salari e insicurezza: come se ne esce?
La tragedia di Torino colpisce drammaticamente milioni di italiani. Esprimo cordoglio alle famiglie delle vittime e solidarietà a quelle dei feriti, ma capisco bene che lo stringerci intorno a loro non riduce dolore e disperazione. E' assurdo che una società permeata di tecnologia non si attrezzi al massimo per evitare che un operaio rischi la vita per un salario di mille euro. E non si può spiegare la sequenza delle morti sul lavoro solo con le categorie della fatalità e dell'incidente. In realtà, siamo tutti meno attenti al lavoro manuale di quanto non lo fossimo qualche anno fa.

Il modello imperante del successo a ogni costo lascia poco spazio a chi il lavoro se lo suda dentro un altoforno o su un'impalcatura, non crede?
Nella mia Torino leggo ancora necrologi in cui il nome di un operaio viene accostato all'identità di "anziano Fiat", titolo di cui si fregia a buon diritto chi ha lavorato per 35 anni nella stessa azienda. In quelle parole c'è l'orgoglio di una professione, la fierezza di aver fatto la propria parte per la società. Sappiamo benissimo che il mondo sta cambiando e che non viviamo piu' il tempo in cui il lavoro si identifica con la vita. Se prima ti sposavi e compravi una casa vicino alla fabbrica, certo che in quell'azienda avresti sempre lavorato e lì avresti sempre vissuto, oggi il lavoro è molto piu' mobile, flessibile, liquido. E' sempre piu' elevato il numero di coloro che nell'arco dell'esistenza cambiano occupazione. Ma una società organizzata diversamente da quella industriale fordista classica non può permettere che la flessibilità coincida con l'insicurezza e la precarietà.

Quali atti concreti, allora?
Ogni lavoratore, quale che sia l'occupazione che ha e le modalità contrattuali che la regolano, deve vedere riconosciuti uguali diritti e tutele. Le cose che dico non sono così scontate. Gli operai sono scomparsi nell'immagine della società di oggi, come fossero figure marginali. Da quanti anni un operaio non appare in uno spot pubblicitario o in una fiction, strumenti attraverso i quali la società di oggi rappresenta se stessa? E se il lavoro non viene riconosciuto c'è perfino meno attenzione a tutelarlo, a proteggerlo, a rispettarlo. E può accadere, appunto, che in una fabbrica gli estintori antincendio risultino scarichi, che il telefono d'emergenza non funzioni e che gli operai siano esposti a ogni tipo di rischio. Quanto accaduto alla ThyssenKrupp ci deve spingere a riconfermare che la lotta alla precarietà deve rappresentare la cifra fondamentale di una società moderna e giusta.

Il tema del lavoro e della precarietà è al centro del dibattito, ma anche dello scontro che si registra nella maggioranza...
Ed è stato al centro dell'azione svolta dal ministro Damiano in tutti questi mesi. Qualche giorno fa, in occasione del confronto sul welfare, ho ricordato alla Camera i tanti provvedimenti assunti contro la precarietà. Dall'estensione delle tutele ai giovani lavoratori dei call center e dei diritti di maternità alle donne con contratti a progetto, alle certezze previste per gli stagionali dall'accordo sui lavoratori agricoli; dalle indagini a tappeto nei cantieri edili, al forte investimento per migliorare l'indennità di mobilità e di disoccupazione; dall'aumento dei contributi previdenziali per i giovani lavoratori discontinui, al pacchetto sicurezza che impone l'applicazione scrupolosa di strumenti a garanzia dell'incolumità fisica di chi lavora. Per non parlare del programma di stabilizzazione dei precari della scuola e del pubblico impiego. Ma attenzione: la lotta alla precarietà non può essere condotta solo dalle istituzioni. C'è una responsabilità primaria delle imprese che devono sentire il dovere di tutelare i propri lavoratori, a partire dall'applicare rigorosamente le leggi e dal sottoscrivere puntualmente i contratti di lavoro.

Il 2007 è stato l'anno della nascita del Partito democratico. Che bilancio trae dai primi passi del Pd?
La partecipazione di tre milioni e mezzo di cittadini alle primarie rappresenta un fatto eccezionale. Il Pd ha ridisegnato già la geografia politica italiana. Alla nostra sinistra si è aperto il dibattito per un'aggregazione che riduce la frammentazione politica. Il Pd ha fatto esplodere tutte le contraddizioni latenti nel centrodestra, chiamato a riorganizzarsi anche perché vive una crisi strategica.

E sul piano organizzativo? Superata la contrapposizione tra partito liquido e partito di massa?
In 40 giorni si sono raggiunti molti risultati. Si sono già insediati gli organismi provinciali e regionali, e sta per partire la campagna per la costituzione delle strutture di base del Pd negli 8000 comuni italiani. Un modo, questo, per dare al nuovo partito forti radici e rispondere alla domanda di partecipazione registrata alle primarie. Quella spinta deve tradursi nella partecipazione attiva, quotidiana e costante dei cittadini ad un partito strutturato in ogni angolo del Paese. Ciò che stiamo costruendo, quindi, può consentire di lasciarci definitivamente alle spalle la dialettica astratta tra partito "leggero" e partito "pesante". La contrapposizione, cioè, tra partecipazione e radicamento, elementi che sono invece tra loro complementari, perché l'uno tiene l'altro.

Ripeterete l'esperienza delle primarie?
Chiameremo i cittadini a esprimersi direttamente, con le primarie, sulle scelte politiche e sui rappresentanti da candidare nelle istituzioni. E tutto ciò non è in contraddizione con un partito che abbia radici solide, che faccia attività politica 365 giorni all'anno e non solo quando ci sono le campagne elettorali. Con un partito che elabori proposte e progetti e formi nuove classi dirigenti. Insomma, vogliamo un Pd aperto alla società e ai cittadini, capace di tradurre nella sua politica e nella sua organizzazione le domande della società. Con il Pd stiamo raccogliendo i risultati di ciò che abbiamo seminato con ostinazione negli anni scorsi. E vorrei dire grazie alle donne e agli uomini che sono stati fino a oggi dirigenti, militanti ed elettori dei Ds. Chiedo loro di continuare a essere protagonisti della sfida entusiasmante che abbiamo davanti.

La maggioranza sembra sull'orlo di un collasso che mette a rischio la sopravvivenza del governo, non crede?
In realtà stiamo raccogliendo i frutti del lavoro che il governo ha portato avanti fin dal suo insediamento. I risultati positivi che abbiamo raggiunto dimostrano la giustezza della Finanziaria dell'anno scorso. Quella di quest'anno, piu' leggera ma coerente con l'impostazione del 2006, consente nuovi traguardi sulla via del risanamento, della crescita e di politiche sociali che sostengano coloro che hanno di meno e vivono nella precarietà del lavoro e del reddito. Le sfide che ci attendono, quindi, richiedono che la maggioranza sia unita, solida, compatta. Un'assunzione di responsabilità che eviti i rischi che comporta l'esiguità dei numeri di cui disponiamo al Senato".

La riforma elettorale sta creando molte fibrillazioni, possibile trovare un'intesa nel centrosinistra prima di tentarla con la Cdl?
La sfida della nuova legge elettorale richiede che ciascuno si liberi dalla tentazione di far prevalere piccole esigenze di bottega per guardare all'interesse generale. Il Paese ha bisogno di stabilità e governabilità per ricostruire un rapporto di fiducia tra i cittadini e la politica e per mettere in campo nuove riforme capaci di rendere l'Italia piu' moderna, piu' dinamica e piu'giusta.

Obiettivi che devono fare i conti con la sopravvivenza del governo. Bertinotti considera chiusa l'esperienza del centrosinistra, ha letto le sue dichiarazioni?
Credo che i cittadini per primi abbiano giudicato severamente la politica ogni qualvolta sono prevalsi i litigi e le beghe interne sugli interessi del Paese. Sbaglia chi, anziché favorire un atteggiamento di coesione e solidarietà, si attarda ad alimentare polemiche, dubbi e incertezza. Penso anche io, come ha detto Veltroni, che alcune esternazioni di esponenti autorevoli della maggioranza, a partire da quella di Bertinotti, siano state inopportune e ingenerose, tanto è vero che lo stesso Presidente della Camera ha sentito il dovere, in queste ore, di correggersi. Non sottovaluto il travaglio che vive Rifondazione, lo stesso che conosce ogni forza politica di opposizione quando deve misurarsi con la responsabilità del governare e dello scegliere. Quel travaglio noi lo conoscemmo già 10 anni fa, pagandone anche i prezzi. Tuttavia il ruolo di una forza politica è innanzitutto quello di dare risposte ai problemi dei cittadini. A questi non si risponde soltanto stando all'opposizione, ma assumendo soprattutto un ruolo di governo.

I dirigenti del Prc fanno i conti con una base che chiede la rottura con il governo...
A Bertinotti, a Giordano e ai compagni di Rc, con il rispetto massimo per il loro travaglio, dico: attenzione, non cedete alla tentazione di tornare indietro. Quando si è a metà del guado la cosa piu' giusta da fare è raggiungere l'altra riva. Mi auguro che il Prc possa partecipare, assieme alle altre forze politiche del centrosinistra, al rilancio dell'azione di governo.

La verifica sembra quasi una resa dei conti, non crede?
La verifica non dovrà riproporre l'antico rito della prima Repubblica, che apriva di fatto una crisi politica incomprensibile ai cittadini. Dovrà essere, al contrario, l'occasione per ridefinire insieme, sulla base del lavoro positivo fatto fin qui dal governo, le nuove sfide da affrontare nel tratto di strada che assieme dobbiamo compiere per dare risposte all'Italia e agli italiani.


Pubblicato il: 09.12.07
Modificato il: 09.12.07 alle ore 8.22   
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 11, 2007, 11:35:55 pm »

Questione salariale: le parole e i fatti

Stefano Fassina


In Italia, è presente una difficile, per molti versi drammatica, questione salariale. Ed hanno fatto bene Cgil, Cisl, Uil a metterla al centro della loro agenda e in quella delle forze politiche. La questione salariale si manifesta in molti modi, non solo con il calo dei consumi durante l’ultima settimana di ogni mese: ad esempio, si manifesta con le tragedie che quotidianamente mietono vittime tra i lavoratori, in particolare operai. Tali tragedie, infatti, sono anche la conseguenza di troppo lavoro straordinario.

Troppo, ma necessario a compensare la insufficiente remunerazione del lavoro ordinario. La questione salariale italiana è, in parte, condivisa con gli altri paesi sviluppati: nell’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale viene descritto l’aumento della disuguaglianza dei redditi in tutti i paesi sviluppati ed individuati i fattori comuni dietro tale aumento. Negli Stati Uniti, il peggioramento relativo delle condizioni e, soprattutto, delle prospettive economiche delle working families e delle classi medie è al centro della campagna elettorale e porta anche i candidati dal curriculum pro-global, come Hillary Clinton, lungo dannose derive protezioniste.

Tuttavia, da noi, il problema salariale, come tanti nostri problemi condivisi con gli altri Paesi sviluppati, si presenta in forme più acute. Per diverse ragioni. La prima ha a che vedere con la nostra specializzazione produttiva: siamo un paese specializzato nei settori economici tradizionali (tessile, abbigliamento, calzature, cuoio, mobili, elettrodomestici, ecc), i settori dove, nel decennio alle nostre spalle, è stata più intensa la pressione competitiva degli ultimi arrivati, ossia i Paesi dell'estremo oriente e del subcontinente indiano, i quali, come noto, sono caratterizzati da un costo del lavoro molto inferiore al nostro.

Per resistere alla competizione, le nostre imprese hanno agito sul costo del lavoro e quindi sulle retribuzioni. Anzi, c’è stato un periodo durante il quale la Confindustria di D’Amato, a braccetto con il governo Berlusconi, ha tentato di sostituire irrecuperabili svalutazioni della Lira con inaccettabili svalutazioni del lavoro (ricordate lo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori?).

La seconda ragione, soltanto in parte connessa alla prima, per spiegare il nostro problema salariale è l’andamento della produttività. Nell’ultimo decennio, la produttività nell’economia italiana ha smesso di crescere, anzi nei primi anni del secolo, è addirittura diminuita. Ecco il punto. Retribuzioni e produttività viaggiano di pari passo: le prime non possono aumentare sistematicamente senza corrispondenti aumenti della seconda. La produttività di una comunità dipende, a sua volta, da molte variabili: dall’innovazione di prodotti e processi, alla regolazione concorrenziale dei mercati; dall’efficienza delle pubbliche amministrazioni, al livello e qualità della scolarizzazione; dalla dotazione di infrastrutture materiali, alla dimensione e agli assetti di governance delle imprese. Per affrontare la questione salariale è necessaria, quindi, una politica economica di attacco alle cause della stagnazione della produttività.

Se l’analisi appena abbozzata ha qualche fondamento, dovrebbe essere chiaro che la piattaforma approvata il 24 novembre a Milano, all’assemblea nazionale delle confederazioni sindacali è fuori tiro, nonostante il bel titolo («Per valorizzare il lavoro e far crescere il Paese») e qualche frase di circostanza sull’importanza della crescita economica nell’incipit del testo. Ovviamente, è sacrosanto invocare un assetto fiscale con maggiore efficacia redistributiva e chiedere la riduzione delle imposte sul lavoro dipendente e sui pensionati. Tuttavia, dare priorità, ora, ad ingenti interventi fiscali non porta da nessuna parte. È una scorciatoia illusoria, forse segno di subalternità culturale delle classi dirigenti dei sindacati. È vero, va di moda attribuire alla pressione fiscale l'origine di tutti i mali italiani. Lo fanno quotidianamente tutti i leader delle associazioni di rappresentanza delle imprese e del lavoro autonomo. Invocare la riduzione delle imposte si dimostra finanche utile ad essere annoverati, strumentalmente, tra i “moderni”, dai certificatori del riformismo doc assisi in via Solferino. Tuttavia, rimane una scorciatoia illusoria. La priorità, oggi, in Italia è l’accumulazione del reddito, non la sua reditribuzione. Infatti, se la produttività fosse aumentata a fronte di retribuzioni ferme, avremmo avuto un problema di distribuzione del reddito. Poiché, anche la produttività è ferma, il problema è l’accumulazione del reddito. Pertanto, anche una riduzione di imposte della dimensione prospettata a Milano dalle tre confederazioni sindacali (un punto di Pil, ossia 15 miliardi di euro all’anno alla fine di un indefinito medio periodo) potrebbe solo rallentare la caduta del reddito pro-capite dei lavoratori italiani (e dei pensionati). Così come, simmetricamente, una riduzione di imposizione fiscale sul reddito d’impresa di analoga portata darebbe soltanto una effimera boccata di ossigeno agli imprenditori in difficoltà. Invece, per invertire la caduta del reddito da lavoro e per dare solide fondamenta alla competitività delle nostre imprese si deve insistere sulle riforme. Quelle riforme sulle quali è impegnato, con fatica e contraddizioni, il governo Prodi. Allora, Cgil, Cisl, Uil per affrontare seriamente la questione salariale dovrebbero insistere per la riqualificazione di scuole ed università, per il completamento delle infrastrutture materiali in cantiere da decenni, per la diffusione dei principi di merito e di responsabilità nelle pubbliche amministrazioni, per l’operatività dei programmi di «Industria 2015» a sostegno di ricerca ed innovazione, per l’approvazione in Parlamento delle misure di liberalizzazione di mercati di beni e servizi, in particolare servizi professionali e servizi pubblici locali. Queste sono le priorità. Se affermate, determinerebbero effetti sul reddito disponibile di lavoratori e pensionati molto più forti di quelli derivanti dalla riduzione di imposte invocata a Milano. Quindici miliardi di euro divisi per lavoratori dipendenti e pensionati darebbero, alla fine del medio periodo previsto dalla piattaforma sindacale, circa 600 euro all’anno a lavoratore o pensionato. Meno, molto meno, di quanto lavoratori e pensionati potrebbero guadagnare in termini di potere d’acquisto se si approvasse e fosse poi resa operativa la terza “lenzualata” di misure di liberalizzazione bloccate in Parlamento da corporazioni miopi.

Per valorizzare il lavoro e far crescere il Paese, Cgil, Cisl e Uil e le associazioni di rappresentanza delle imprese dovrebbero parlare un po’ meno di tasse e un po’ più di riforme strutturali. Riforme necessarie a rafforzare e diffondere i processi di riorganizzazione in atto in molte unità produttive. Riforme necessarie a generare la produttività da ridistribuire per via fiscale e contrattuale.


Pubblicato il: 11.12.07
Modificato il: 11.12.07 alle ore 12.51   
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