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« inserito:: Gennaio 08, 2019, 11:53:15 pm »

Il racconto delle religioni.

Un saggio di Giovanni Filoramo spazia dall'Australia al Corano, dalla Cina al Regno del Padre.

E divide la materia in quattro fasi: divinità-natura, interiorità, trascendenza, svolta antropologica

Adorare Dio è cosa molto umana

Giuliano Boccali

«Tutte le cose sono opera del Grande Spirito, Egli è presente in ognuna: gli alberi, le graminacee, i fiumi, le montagne, i quadrupedi e gli uccelli...»: le parole di Alce Nero, insieme con una misteriosa non-definizione del Dao emblematicamente figurano sul retrocopertina di un’opera importante di Giovanni Filoramo pubblicata da il Mulino, un’opera che mantiene quello che promette il suo titolo: Il grande racconto delle religioni. Mantiene la promessa perché lungo uno sviluppo di oltre 500 pagine, che spaziano dal Tempo del sogno degli Aranda australiani al Corano, dallo yin yang cinese al Regno del Padre, sviluppo caratterizzato dal rigore scientifico e culturale cui l’autore ci ha abituati, serba felicemente tono e ritmo narrativi mentre in più d’un passaggio offre il sapore della scoperta e della conquista. Il pregio della scrittura elegante e scorrevole è rinforzato dalle citazioni appropriate e frequenti dei testi originali e dalla suggestione del corredo iconografico dove si alternano immagini coeve ai fatti religiosi evocati e loro rappresentazioni in tempi e civiltà diverse. Solo un esempio: la sequenza dedicata all’“uovo cosmico” unisce fra le altre a raffigurazioni hindu, mitraiche e medievali un quadro di William Blake, un Concetto spaziale di Fontana e una scultura di Antoine Pevsner.
Il percorso del libro è saldamente ancorato a un impianto originale, che rappresenta a mio parere un altro dei suoi punti di forza: il racconto delle religioni, infatti, non si snoda secondo un’astratta cronologia, per quanto successione narrativa e successione temporale dall’antichità in avanti spesso finiscano per coincidere, ma è palesemente scandito in quattro parti o – si potrebbe anche dire – dimensioni. Si trovano così al principio le visioni religiose cosmocentriche, «in cui il divino tende a coincidere con la natura», come quelle degli aborigeni australiani e dei nativi nordamericani, ma anche – con declinazioni assai diverse – delle civiltà mesopotamiche e della Cina. Hanno qui adeguata espressione fenomeni culturalmente imponenti, e spesso fraintesi almeno fino al principio del secolo scorso, quali il totemismo e lo sciamanesimo.
Irrompe nella seconda parte la dimensione dell’interiorità; ciò accadde nel modo più evidente in India, fra i boschi e i grandi fiumi nella vasta zona intorno a Benares. Qui sono impegnati in ardue ricerche gli shramana (VII-VI secolo a.C.), «coloro che si sforzano»: non solo il Jina, fondatore del jainismo e il Buddha, che per nascita erano principi di sangue reale, ma anche medici ante litteram, nichilisti e fatalisti, rappresentanti cioè di correnti che in India sarebbero state minoritarie. Vincenti sono invece, oltre ai due grandi iniziatori eterodossi, i maestri hindu delle Upanishad che procedono a una rilettura profonda del sacrificio vedico, inaugurando con il loro insegnamento esoterico un orientamento destinato a un futuro straordinario ancora oggi vitale. Grazie alla loro ricerca avviene infatti la svolta decisiva dai valori mondani alla scoperta e alla coscienza di se stessi: il sacrificio, un tempo inteso a glorificare e corroborare gli dèi per averne in cambio benefici terrestri – lunga vita, salute, prole numerosa, ricchezze, fortuna nell’amore e perfino ai dadi – è ora concepito e praticato come offerta di se stessi, cioè del proprio sforzo di conoscersi, di penetrare il mistero del destino dell’uomo e dell’universo lasciando cadere le attrattive e le paure fenomeniche. Questo passaggio epocale, come nel libro tutti i momenti e gli aspetti della narrazione, è inquadrato efficacemente sul piano storico-sociale. Nel caso specifico Filoramo non manca di ampliare l’orizzonte all’intero mondo allora noto: citando Karl Jaspers, sottolinea infatti come il periodo tra l’VIII e il III secolo a.C. rappresenti un’“età assiale” nello sviluppo spirituale dell’umanità. Perché in Paesi diversi (Grecia e Magna Grecia, mondo ebraico, Iran, India appunto e Cina) ma quasi contemporaneamente, ricercatori diversi: i presocratici, i profeti biblici, Zoroastro, i maestri delle Upanishad, Confucio e Laozi, ripropongono le domande fondamentali ed elaborano attraverso un’indagine profonda visioni originali, capaci di riplasmare per i secoli a venire l’immagine del cosmo, delle diverse comunità, dell’interiorità e della persona umana.
Con la menzione dei profeti biblici si introduce la terza dimensione dell’opera: la scoperta della trascendenza, con la concezione rivoluzionaria del Dio unico; questa parte opportunamente non trascura lo zoroastrismo, con il suo instabile equilibrio fra monoteismo e dualismo e con la sua coraggiosa, radicale sfida al problema del male, «realtà ineliminabile e onnipervasiva, una realtà mentale, che aggredisce quella creazione materiale essenzialmente buona del mondo a opera del dio Ahura Mazda». Ma il drammatico assalto ottimisticamente avrà esito favorevole al bene, un esito al quale non è affatto estraneo il contributo decisivo degli esseri umani che per loro scelta cooperano con il Creatore.
L’ultima parte del Grande racconto delle religioni è dedicata alla «svolta antropologica», ossia ai grandi “mediatori della rivelazione” Gesù il Cristo e Muhammad, e la scansione quadripartita rappresenta in modo vivido il processo dell’acquisizione al “religioso”, o meglio al “sacro”, di zone diverse della realtà esterna e interiore, naturale e trascendente. Ma forse, più che di “acquisizione”, si dovrebbe parlare di “invenzione”, termine usato a proposito del monoteismo anche dall’autore. Questi ha dunque saputo mediare fra storia e morfologia (dicotomia ricorrente) e sventare al tempo stesso due rischi molto seri, sempre in agguato in un’opera di quest’ordine: lo svolgimento evoluzionistico della trattazione ed eventualmente l’indirizzo cristiano-centrico. Il messaggio implicito, ma oggi quanto mai urgente, è invece che sul piano delle religioni non si procede dall’elementare all’evoluto, né tanto meno si possono stilare graduatorie. Tutte le tradizioni e le predilezioni sono legittime nella loro specificità e, soprattutto oggi, tutte reclamano l’atteggiamento che Filoramo ricorda introducendo il suo volume, un atteggiamento davvero benefico innanzi tutto per chi lo assume: «Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano». La celebre frase del commediografo latino Terenzio, scritta nel lontano 165 a.C., mi viene in aiuto: come uomo, non ritengo a me estraneo nulla che abbia a che fare con la religione in quanto realtà umana. Per affacciarsi sul mistero dell’uomo, che cosa di meglio che scegliere questo punto di osservazione privilegiato?»
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il grande racconto delle religioni
Giovanni Filoramo
il Mulino, Bologna,
pagg. 542, € 50

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