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Autore Discussione: Sabino CASSESE  (Letto 26080 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:59:03 pm »

Nazioni e sviluppo
L’inatteso ritorno dei confini

Di Sabino Cassese

Un miliardo e mezzo di persone viaggerà da una nazione all’altra nel 2016, secondo previsioni dell’Associazione delle compagnie di trasporto aereo (sono state più di un miliardo e cento milioni nel 2011), moltissime senza bisogno di visto dei Paesi d’entrata e alcune senza neppure bisogno di un passaporto del proprio Paese. Miliardi di persone godono di maggiore benessere grazie alla liberalizzazione mondiale del commercio (e tra poco anche ai partenariati transatlantico e transpacifico sul commercio e gli investimenti). Segni di difficoltà dell’economia cinese hanno prodotto immediati effetti sulle Borse di quasi tutto il mondo. Ben 232 milioni di persone vivono in Paesi diversi da quello di nascita. Su 500 milioni di abitanti dell’Unione Europea, 33 milioni sono quelli nati fuori dell’Unione. In Italia, gli immigrati sono 5 milioni (8% della popolazione) e contribuiscono - secondo una stima - a formare più dell’8% della ricchezza nazionale.

Si poteva sperare che globalizzazione, apertura dei commerci, deterritorializzazione del potere portassero a una obsolescenza delle frontiere. Invece, ieri l’Austria ha rafforzato i controlli di polizia sui confini orientali. Nei giorni scorsi, l’Ungheria ha costruito un muro alla frontiera con la Serbia, seguendo il cattivo esempio della barriera tra Stati Uniti e Messico.

Quel che è peggio, si fanno diventare elastiche le linee di demarcazione nazionali. I l Regno Unito ha incaricato forze di polizia francesi di presidiare la frontiera, su territorio francese, come il Canada, che, d’accordo con le autorità straniere, svolge pre-ispezioni in porti e aeroporti esteri nei quali si imbarcano passeggeri diretti in Canada. Stati Uniti e Australia sono andati oltre, arretrando (sulla carta) di cento miglia i limiti territoriali per facilitare l’espulsione rapida di immigrati, che vengono trattati, quindi, su suolo americano e australiano, come se fossero presi sulla frontiera, con decisioni non sottoposte a controllo giurisdizionale.
Questa chiusura nelle proprie frontiere pone problemi enormi alla coscienza moderna. Ne voglio indicare solo tre. In primo luogo, la riscoperta delle barriere all’entrata non tiene conto che chi fugge si priva dell’appartenenza a una comunità, e, quindi, anche del «diritto ad avere diritti» che deriva da tale appartenenza. La chiusura delle frontiere lo precipita in un limbo giuridico (oltre a causarne spesso la morte).

La chiusura, in secondo luogo, è disposta da Paesi che hanno fatto propria la tradizione, risalente al 1789, secondo la quale sono garantiti i diritti «dell’uomo e del cittadino» (prima dell’uomo che del cittadino) e sono tenuti a rispettare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Dunque, da Paesi che sono obbligati a garantire non solo i diritti dei connazionali, ma anche quelli degli «altri». Da Paesi che si valgono dell’apertura delle frontiere quando fa comodo (per esportare merci, investire denaro, viaggiare), le chiudono quando si sentono minacciati dall’immigrazione di persone.

Infine, questa chiusura nazionalistica ripropone l’interrogativo al quale cercò di dare una risposta nel 1882 il grande storico del cristianesimo Ernest Renan: che cosa è una nazione? Una nazione è tenuta insieme solo da una lingua comune, da tradizioni e costumi condivisi, oppure è fatta da una comunità di ideali più ampi, che si allargano anche a chi non vi è nato? Quella comunità che chiamiamo nazione è tenuta in vita solo da una comunione di interessi o anche da una comunanza di principi (tra cui quello di dare asilo a chi fugge da guerre e persecuzioni nella propria patria)? Nazione comporta appartenenza esclusiva oppure anche partecipazione a una collettività più vasta (come dovrebbero testimoniare le migliaia di organizzazioni internazionali esistenti)?

1 settembre 2015 (modifica il 1 settembre 2015 | 07:36)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_01/inatteso-ritorno-confini-d7de1428-5067-11e5-ad2e-795b691a3a45.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Ottobre 26, 2015, 11:54:03 am »

Le timide proposte del Csm

Di Sabino Cassese

Il Consiglio superiore della magistratura ha fatto sette proposte sui rapporti tra giudici e politica al ministro della Giustizia, perché questi promuova un disegno di legge sulla materia. Sono proposte dirette ad allineare il trattamento dei magistrati che entrano nella politica locale a quello dei giudici impegnati a livello politico nazionale e a regolare, per gli uni e gli altri, i casi di prolungato impegno fuori dell’ordine giudiziario. Oggi, infatti, un magistrato può fare il presidente di una Regione o il sindaco esercitando contemporaneamente la funzione giurisdizionale, sia pure in altra circoscrizione, oppure può svolgere a lungo attività politica e al termine ritornare nei ranghi.

Si tratta di proposte giuste, ma timidissime e corporative. Partono da una diagnosi parziale, quella di «gruppi politici, in crisi di autorevolezza, [che] cercano magistrati noti al pubblico per le indagini svolte o incarichi di prestigio ricoperti per candidarli ad assemblee elettive e affidargli incarichi di governo».

Non tengono conto che c’è anche l’opposto, una politicizzazione endogena, costituita da giudici e procuratori che corrono verso la politica, con una esondazione pervasiva tale da far scrivere che da uno Stato di diritto si ritorna a uno Stato di giustizia. Basti dire che i parlamentari-magistrati sono triplicati negli ultimi venti anni.

Tre gli interrogativi che la proposta suscita. Poteva, in primo luogo, il Consiglio della magistratura fare esso stesso di più, lungo la linea delle sue due circolari del 2009 e del 2014, con la sua attività «paranormativa», per arginare un fenomeno che mina l’indipendenza dell’ordine giudiziario? Proprio ieri l’Associazione nazionale magistrati, nel suo congresso barese, ha ribadito la tesi del «governo autonomo della magistratura»: perché l’organo di governo non ha invitato o non invita i magistrati a garantire la propria distanza dalle carriere politiche amministrative?

Secondo: perché il Consiglio non si preoccupa anche delle cariche non elettive? L’imparzialità del giudice non è minata anche dalla nomina governativa a posizioni di vertice dell’amministrazione o di enti e autorità pubbliche?

Terzo interrogativo: basta dire che un magistrato che si dedica ad attività politiche o politico amministrative deve farlo fuori della circoscrizione in cui ha svolto la sua precedente funzione e deve mettersi fuori ruolo, salvo ritornare, poi, nei ranghi giudiziari? Non è comunque minata la sua immagine di persona indipendente e imparziale, per aver manifestato pubblicamente una appartenenza politica, per essere andato nelle piazze a nome di un partito, per aver goduto della fiducia di un governo, nazionale o locale? Quale assicurazione di indipendenza e di imparzialità potrà dare, dopo aver svolto l’attività politica per un partito, a chi dovrà essere sottoposto alle sue indagini o al suo giudizio?

Si dirà che la Costituzione dispone che tutti possono accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici e che hanno diritto di conservare il posto di lavoro. Ma la Corte costituzionale nel 2009 ha ben precisato che ai magistrati è riconosciuta una posizione particolare, alla quale corrispondono speciali doveri. E la Costituzione garantisce il «posto di lavoro» al termine dell’esperienza politica, non la stessa funzione.

Dunque, i magistrati che si impegnino in attività estranee, presentandosi alle elezioni, svolgendo attività politica, accettando cariche amministrative per nomina governativa, dovrebbero non solo essere collocati fuori ruolo, ma, al termine, passare nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato, come anche il Consiglio della magistratura propone per un numero molto limitato di casi. Solo così si stabilisce quella distanza tra giustizia e politica che assicura al cittadino sottoposto a indagine o a giudizio di aver davanti una persona «al di sopra di ogni sospetto di parzialità».

Se il Consiglio superiore della magistratura, che dovrebbe essere il palladio della indipendenza e della imparzialità dell’ordine giudiziario, non si dà carico di questo compito, dovrebbero assumerselo governo e Parlamento, ai quali tocca ora fare il prossimo passo.

24 ottobre 2015 (modifica il 24 ottobre 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_24/timide-proposte-csm-998dbdee-7a0c-11e5-9874-7180d07bb3bf.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 31, 2015, 12:17:33 pm »

L’EDITORIALE
Istituzioni e fratture, le nostre regole perdute

Di Sabino Cassese

Che brutto spettacolo! Un sindaco rivelatosi inadatto a svolgere la sua funzione, che prima si dimette, poi ritira le dimissioni. Funzionari della Agenzia delle Entrate che si rivoltano contro la Costituzione e la Corte costituzionale, sostenendo che è legittimo essere promossi senza concorso. Giudici amministrativi che esprimono opinioni su materie sottoposte al loro giudizio e critici che pretendono decisioni che i giudici non possono prendere, perché richiedono una legge. Una Procura che inizia una indagine sul vertice della Banca d’Italia, per poi dichiarare che la questione è tutta da verificare e da valutare. Il presidente dell’Autorità anticorruzione, chiamato a svolgere compiti onerosi e importanti, che dà pagelle alle città. Parlamentari che preannunciano bordate di emendamenti a documenti finanziari che dovrebbero essere o accettati o respinti.

Sembra che tutti abbiano deciso di mettersi a giocare con le istituzioni, chi facendo appello al popolo, chi debordando dal suo compito, chi dimenticando le regole, chi cercando dalle corti quel che solo il Parlamento può dare, chi dando voce agli interessi più disparati, a danno dell’equilibrio di bilancio. È una specie di «rompete le righe», dal quale saggiamente il governo si è tenuto fuori, ma che richiede una riflessione sullo stato delle nostre istituzioni e sul modo nel quale esse vengono usate da chi le gestisce, mettendole - come è stato giustamente rilevato - sotto «stress».

Questi sono casi che i sociologi chiamano di anomia, ovvero di assenza di norme o di disprezzo delle norme, siano esse leggi, siano esse regole di correttezza. E l’anomia danneggia la collettività. Mentre il sindaco di Roma dà e poi ritira le dimissioni, preoccupandosi solo del proprio ruolo, chi si interessa della città? I funzionari dell’Agenzia delle Entrate promossi senza concorso protestano e cercano sanatorie impossibili, ma chi si interessa di fare regolari concorsi per coprire quei posti? Poco opportunamente un magistrato del Consiglio di Stato ha manifestato opinioni su una questione che doveva decidere, mentre dall’altra parte si voleva la trascrizione in Italia dei legami familiari stabiliti fuori d’Italia.

Così si perde di vista il vero problema, già indicato da anni dalla Corte costituzionale: bisogna dare riconoscimento a questi legami, e deve farlo il Parlamento. Era proprio necessario che la procura di Spoleto rendesse pubblica la notizia della indagine sulla Banca d’Italia prima di verificare e valutare la consistenza delle accuse, specialmente se si considera che si tratta di corruzione, abuso d’ufficio e truffa e che si procede nei confronti di una istituzione che regge le sorti del sistema bancario? Ha considerato la Procura la ferita che viene così inferta alla fiducia che deve circondare il credito e chi lo controlla? Il presidente Cantone ha un compito molto pesante: quel che importa è che continui a svolgerlo, senza distrazioni. La Costituzione vuole che i documenti finanziari, che necessariamente richiedono il rispetto di un equilibrio tra entrate e spese, siano elaborati e presentati dal governo al Parlamento: se questo si mette a riscriverli, con migliaia di emendamenti, dove va a finire l’equilibrio di bilancio?

Abbiamo dimenticato tutti lo splendido finale di uno dei capolavori di Federico Fellini, Prova d’orchestra (1979), quello nel quale il direttore ricorda agli orchestrali, con accento tedesco, «ognuno deve dedicare attenzione al suo strumento. Le note salvano noi. La musica salva voi. Aggrappatevi alle note, seguite le note. Noi siamo musicisti, voi siete musicisti. E siamo qui per provare».

30 ottobre 2015 (modifica il 30 ottobre 2015 | 09:34)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_30/istituzioni-fratture-nostre-regole-perdute-8c3da2d2-7ed3-11e5-882e-dcc202b27802.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:46:05 pm »

Gli Stati e l’ordine mondiale

Di Sabino Cassese

Il presidente francese ha risposto agli attacchi del terrorismo globale con una triplice strategia. Ha mandato i bombardieri a colpire le centrali terroristiche: questa è la classica risposta dello Stato che vede minacciata la propria sovranità e l’ordine interno. Si è poi rivolto all’Unione Europea, invocando l’applicazione dell’articolo 42, comma 7 del trattato sull’Unione Europea, e quindi chiedendo l’aiuto e l’assistenza dell’Europa: questa è una dichiarazione di debolezza dello Stato, che richiede la solidarietà di altri Stati della regione. Infine, ha promosso l’approvazione di una risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che ha autorizzato «tutte le misure necessarie», anche se non ha richiamato il capitolo 7 della Carta dell’Onu: questo passo è diretto a ottenere la «copertura» della comunità internazionale alla sua risposta esterna all’aggressione interna.

In questa triplice mossa si rivelano tutte le caratteristiche, le forze e le debolezze della globalizzazione. Innanzitutto, risalta chiaramente che problemi globali, come quello del terrorismo internazionale, non possono essere risolti con soluzioni domestiche, nazionali. Bisogna, insomma, che vi siano polizie globali incaricate di mantenere un ordine che riguarda singole nazioni, ma che è minacciato da reti estese di terroristi. Poi, si evidenzia la duplice natura della globalizzazione: se gli Stati non possono far a meno dell’intervento di organismi sovrastatali, questi ultimi da soli non bastano, perché debbono necessariamente valersi di forze statali, nelle cui mani rimangono eserciti e polizie.

G li Stati fanno parte di «condominî» sempre più ampi, senza dei quali non possono svolgere alcune attività, ma «condòmini» rimangono gli Stati. Questi ultimi debbono sottomettersi alle regole «condominiali», anche se i titoli di proprietà rimangono nelle loro mani.

Ora, però, comincia la parte più difficile. Nessuno dei membri della comunità internazionale è disposto da solo ad affrontare la sfida, che è sia militare, sia di polizia, sul terreno. Ognuna delle potenze che detengono la forza delle armi ha bisogno della collaborazione delle altre potenze. E questo pone un problema tradizionale, di intesa tra Stati, quell’intesa che il presidente francese va cercando in questi giorni. Ma c’è un problema più vasto, che riguarda tutta la comunità internazionale, tutto lo spazio globale: vi sono nel mondo territori non governati, Stati falliti (Libia, Yemen, in parte Siria e Iraq), che sono altrettanti focolai di disordine e origine di forze terroristiche. Le organizzazioni internazionali sono interessate a restaurare poteri statali in queste aree, che altrimenti diventano fattori di destabilizzazione di dimensioni mondiali e impongono costi altissimi alle popolazioni dei Paesi sviluppati. Gli Stati Uniti, il Paese che ha finora svolto (in parte) il ruolo di poliziotto mondiale, collaborando a questo compito, sembra aver sposato la tesi esposta da Henry Kissinger nel suo ultimo libro: questo compito di ordine deve essere affrontato a livello «regionale», nelle grandi aree del mondo (l’Europa, l’America del Sud, quella del Nord, il Sud-Est asiatico), dagli organismi sovranazionali della regione, ad esempio, l’Unione Europea.

Si riaffaccia qui un problema che si pone fin dalla Seconda guerra mondiale: come forze estranee, con la legittimazione della comunità internazionale, possano, con il potere delle armi, nello stesso tempo, creare Stati, dare ad essi legittimazione, assicurarvi il rispetto di essenziali regole democratiche e del diritto. E tutto questo imponendosi a comunità locali dilaniate da divisioni tribali, etniche, di clan, e quindi tradendo il tradizionale principio secondo cui sono i popoli che si danno organizzazioni statali, scegliendone i principi e le regole costituzionali.

25 novembre 2015 (modifica il 25 novembre 2015 | 07:59)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_25/gli-stati-l-ordine-mondiale-b249be6c-933b-11e5-a439-66ba94eb775e.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Dicembre 09, 2015, 07:24:34 pm »

Democrazia a rischio?
Catastrofi annunciate (e non vere)

Di Sabino Cassese

Si moltiplicano le voci di allarme sullo stato della nostra democrazia. L’astensionismo rende debole la rappresentanza. I cittadini sono privati del potere di scegliere i loro rappresentanti. Il governo fagocita il Parlamento. La dirigenza politica è inadeguata sul piano istituzionale e nello spazio internazionale. Vi sono un uomo solo al comando, presidenzialismo strisciante, pericoli di autoritarismo. Le riforme avviate vanno nella direzione sbagliata e ci conducono fuori della democrazia parlamentare e del disegno costituzionale. I poteri si spostano dallo Stato alle oligarchie finanziarie e industriali internazionali.

Sono corrette queste diagnosi catastrofiche? C’è qualcosa di vero in questi segnali di pericolo? Gli indicatori dello stato di salute della nostra democrazia non confermano queste interpretazioni allarmistiche. Se si sommano tutti i rappresentanti popolari periodicamente eletti in tutte le sedi di decisione (Comuni, Regioni, Stato, Unione Europea) si può dire che poche nazioni danno tanta voce alle scelte popolari quanto l’Italia. Se, poi, si calcolano regolamenti comunali, leggi regionali e nazionali, direttive e regolamenti europei, si nota che gli organi rappresentativi sono in buona salute, attivi, pronti a fare e disfare leggi e norme (qualche volta, anzi, troppo attivi). Se si considera il ruolo svolto dai contropoteri, si registra una loro complessiva crescente indipendenza, maggiore in alcuni casi, come quello delle corti, minore in altri, quale quello delle autorità amministrative di regolazione.

Se si misurano i poteri esercitati dal capo del governo, si nota che essi sono di dimensioni paragonabili con quelli del cancelliere tedesco, o del primo ministro inglese, o di altri capi di esecutivo, e ciò per una ragione semplice: chiamati a collaborare quotidianamente nelle sedi più disparate, dall’Onu all’Unione Europea, dall’Organizzazione mondiale del commercio al G20, i capi del governo debbono necessariamente avere poteri comparabili. Se si considerano le riforme dei «rami alti», quella costituzionale e quella elettorale, si nota che andiamo in una direzione comune a tante altre democrazie, con due Camere a diversa investitura e una formula elettorale che premia la più forte minoranza.

Questo non vuol dire che vada tutto bene. Ma lamentare catastrofi oscura alcuni mali del nostro sistema politico, dei quali dovremmo invece preoccuparci. Il primo riguarda la debolezza del capitale sociale. La società italiana non ha mai avuto un buon tessuto e, se ha dato prova di capacità di mobilitazione nelle emergenze, non ha mostrato buone capacità aggregative nella vita di ogni giorno. Ora i corpi intermedi languiscono. Le fondazioni, che si sperava dessero voce alla società civile, sono nelle mani di ristrette oligarchie che si autoperpetuano.

I partiti, ridotti in organizzazioni di seguiti elettorali, si sfaldano in Parlamento. I sindacati sono chiusi nel loro particulare. Le élite - quelle poche che abbiamo - si comportano da caste.
Il secondo riguarda le forme della dialettica politica. Qui le opposizioni non cercano una voce per sé, un riconoscimento formale, un proprio «statuto», in vista di diventare maggioranza, ma tentano solo di buttare sabbia nelle ruote di chi governa. La politica (alleanze, schermaglie, rinvii, tattiche di ogni tipo) oscura sempre le politiche, cioè gli indirizzi, di governo e di opposizione, rendendo incomprensibili all’elettorato le linee di azione delle varie forze. Infine, la macchina dello Stato da troppo tempo è senza una guida. Quindi, i migliori suoi servitori sono disorientati, mentre i peggiori traggono profitto dall’assenza di orientamenti per consolidare posizioni di potere, corporative, o semplicemente benefici e rendite di posizione. Gli utenti, i cittadini, subiscono e si lamentano, pagando la tassa occulta che deriva dalla cattiva gestione dei servizi.

Sono questi i veri problemi, che gli annunciatori di catastrofi finiscono per oscurare. La loro soluzione non è facile, non dipende dal governo, è legata alla storia, al modo in cui si è formata la società italiana, al ruolo svolto dalla classe dirigente, al non sanato divario tra Nord e Sud, alla insufficiente cultura organizzativa diffusa, allo stile e ai costumi della politica. Questo non vuol dire che non possano essere affrontati e risolti. Vuol dire che richiedono un’opera di ingegneria sociale lunga e complessa, non pianti, sgomenti e allarmi.

9 dicembre 2015 (modifica il 9 dicembre 2015 | 07:45)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_09/catastrofi-annunciate-non-vere-27442e8a-9e38-11e5-a090-5b8c3aeb1ca0.shtml
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 23, 2015, 06:14:27 pm »

Il paradosso delle regole (inesistenti) per i magistrati

Di Sabino Cassese

Prima un magistrato siciliano e uno napoletano, ora, per condotta ben diversa e persino autorizzata dal Consiglio superiore della magistratura (incarico non retribuito all’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio dei ministri), uno aretino: nell’attesa di rapidi chiarimenti da parte degli inquirenti e del Consiglio superiore della magistratura, questi segni di crisi di alcune parti del sistema giudiziario, complessivamente sano, indicano che c’è un vuoto di regole di condotta. Un vuoto che potrebbe essere riempito da un forte spirito di corpo, da un’etica condivisa dalla maggioranza; o che potrebbe essere colmato da una coraggiosa reazione del Consiglio superiore della magistratura; oppure un vuoto al quale dovrà porre rimedio il legislatore. C’è carenza di regole morali e giuridiche e, dove presenti, sono elementari o rudimentali.

E non basta siglare protocolli di intesa con Cantone, invocando l’Autorità nazionale anticorruzione da mettere per ogni dove. Bisogna rendersi conto che più il sistema giudiziario si sposta verso il centro del potere e il cuore dello Stato, più diventa inaccettabile che i magistrati siano tanto legati ai luoghi dove si esercita il potere, sia la sanità, o l’amministrazione, o la politica, o gli uffici legislativi. Questo è un paradosso di cui il corpo dei magistrati dovrebbe rendersi conto: più essi parlano al popolo e all’opinione pubblica in nome della giustizia, più forte diventa il bisogno che la loro legittimazione discenda dalla loro indipendenza e imparzialità.

Un altro paradosso è questo. Grazie a leggi che hanno affidato la loro attuazione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e all’Autorità nazionale anticorruzione, il personale politico e il personale amministrativo è ora stretto da norme talora eccessivamente severe in materia di incandidabilità, conflitti di interesse, incompatibilità, incarichi esterni, altre regole di condotta miranti ad assicurare l’imparzialità dello Stato. I magistrati, quelli ai quali spetta il potere ultimo, quelli che possono decidere della dignità e della libertà delle persone, quelli che possono mettere alla gogna e talora tenere alla gogna per anni indagati, sono invece immuni da queste norme di condotta.

Conosco l’obiezione: anche i magistrati vivono in una società, hanno famiglia, fanno parte di gruppi, associazioni, comitati di volontari, sono depositari di saperi specialistici, non possono recidere tutti i legami con il mondo circostante. Ma a speciali poteri debbono corrispondere doveri particolari di astenersi, di isolarsi, di evitare rapporti. La Corte costituzionale l’ha detto a chiare lettere, sia in termini generali, sia quando si è trattato di salvaguardare stipendi e pensioni dei magistrati dai tagli disposti dal Parlamento. Per la loro posizione, i magistrati non debbono essere costretti a negoziare con il governo il loro trattamento economico. Ma proprio perché non debbono essere costretti ad agire come gruppo di pressione a difesa del loro trattamento economico, essi debbono astenersi da rapporti che possano stabilire legami, o dare il segno esterno di legami in conflitto con la loro funzione imparziale e indipendente. Per questi motivi sono urgenti interventi moralizzatori, non quelli sanzionatori, ma quelli preventivi, che fissino regole chiare sulla partecipazione, in generale, dei magistrati alla vita pubblica, sui conflitti di interesse, sulle incompatibilità, sugli obblighi di astenersi, sulle incandidabilità, sugli incarichi esterni. In una parola, c’è bisogno anche e soprattutto per i magistrati di quelle «regole dell’onestà» che essi fanno valere ogni giorno nei confronti di tanti cittadini.

21 dicembre 2015 (modifica il 21 dicembre 2015 | 09:07)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_21/paradosso-regole-inesistenti-magistrati-11d3021a-a7a7-11e5-927a-42330030613b.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:40:36 pm »

I burocrati e il passo che manca

Di Sabino Cassese

«Un buon passo avanti», l’ha definito il presidente del Consiglio dei ministri. Dei primi dieci testi di riforma amministrativa conosciamo i titoli e la direzione di marcia, che è quella giusta, nel segno della semplificazione. Qualche anno fa, venne calcolato in una decina di giorni per anno il tempo sottratto in media a ciascun italiano maggiorenne dai contatti con la burocrazia. Se un governo riuscisse a restituire anche la metà di questo tempo agli italiani (e a eliminare le rendite parassitarie dei mediatori che servono ad agevolare questi rapporti), compirebbe una fondamentale opera di giustizia risarcitoria. Ma semplificare non è facile, perché gli stessi governi che si propongono questo obiettivo, spesso per giusti motivi (ad esempio, aumentare la trasparenza e ridurre la corruzione), introducono nuove complicazioni.

Questo primo pezzo della riforma viene annunciato con un misto di aggressività (licenziamento dei «furbetti») e di timore (per gli esuberi che produce). Poiché in un’amministrazione ben funzionante c’è poco spazio per «furbetti» (e per corrotti), non si vede perché non fare il primo passo migliorando il modo in cui funziona la macchina dello Stato. La spiegazione va forse cercata in una certa ambivalenza della riforma amministrativa, che spinge il presidente del Consiglio dei ministri a usare il tema dell’anti-burocrazia, senza tuttavia andare fino in fondo.

Renzi sa che i vizi del pubblico impiego sono censurati anche in Quo vado? ma con occhio divertito e tutto sommato benevolo, e che il pubblico dipendente è diviso tra la difesa dei suoi piccoli privilegi e la sofferenza per un sistema complessivamente poco funzionante, di cui quei piccoli privilegi fanno parte.

Il «piatto forte» della riforma deve ancora venire. È la nuova disciplina della dirigenza (per ora ci si è limitati ai dirigenti sanitari, con una soluzione di compromesso), per la quale si deve uscire dal vicolo cieco del sistema di patronato politico imboccato alla fine del secolo scorso, aprendo nuovi canali di promozione a «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» (è uno dei sogni costituzionali rimasti inattuati).

E deve ancora venire il coinvolgimento della pubblica amministrazione nell’opera di riforma. Come osservò qualche tempo fa un acuto osservatore francese, noi italiani mettiamo troppa enfasi sul testo: fatta la legge, pensiamo che sia fatta la riforma. Perché i buoni intenti legislativi e governativi divengano realtà, occorre una cabina di regia, la preparazione della burocrazia al cambiamento, un accurato monitoraggio dell’attuazione e dei risultati, la segnalazione dei punti da correggere. Le riforme amministrative non si compiono da un giorno all’altro, con una sola decisione. Finora, il governo ha dato prova di attivismo, ma non è riuscito a far passare nelle istituzioni il «soffio repubblicano» (Léon Blum adoperò questa espressione al termine della sua esperienza di governo). Tra azione di governo e azione amministrativa vi è ancora scollamento, continue difficoltà, scarso dialogo. Questi si faranno sentire in particolare nella traduzione in realtà del disegno riformatore, che deve ancora affrontare il difficile percorso parlamentare di esame dei decreti delegati approvati dal governo.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 07:39)
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 25, 2018, 05:23:49 pm »

L’INTERVISTA

Cassese: «Il paradosso di riportare l’autostrada al costruttore»

Di Carmine Fotina   @CFotina 21 agosto 2018

Un’eventuale procedura di nazionalizzazione ha vincoli costituzionali precisi e presenta rischi di natura economica. Il professore Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, delinea i contorni del caso Autostrade.

L’ipotesi di nazionalizzazione lanciata dal ministro Toninelli riapre il tema del rapporto tra pubblico e privato. È giusto invertire la rotta rispetto alle scelte degli ultimi decenni in alcuni settori strategici? È possibile farlo entro i confini del dettato costituzionale?

Il termine nazionalizzazione è espressione generica per indicare una pluralità di misure, in particolare una espropriazione, una riserva originaria e una assunzione singolare dell’impresa, atti regolati dall’articolo 43 della Costituzione. Questo articolo richiede che tali misure siano adottate in settori specifici, mediante legge e con indennizzo.

Ma sul tema specifico dei servizi autostradali?

Nel caso dei servizi autostradali, bisogna considerare che si tratta di attività sottoposta a concessione. E va ricordato che il tratto Genova-Savona fu costruito proprio a cura dell’Anas (che allora aveva diversa natura giuridica rispetto ad oggi) e da questa collaudato. Dopo il collaudo, passò nella gestione di Autostrade (allora società privata in partecipazione pubblica, dell’Iri). L’Anas, ora società per azioni, potrebbe essere considerata come affidataria dell’attività sottoposta alla procedura di “nazionalizzazione”. In tal caso, vi sarebbe il paradosso che l’autostrada ritorna nelle mani di chi l’ha costruita.

Sui collegamenti tra concessione di opere pubbliche e partecipazioni statali è comunque tempo di un ripensamento generale?

Non dimentichiamo che la costruzione dell’Autostrada del Sole, fatta dalla società Autostrade, viene considerata uno dei grandi successi della imprenditoria italiana, in particolare di Cova; 755 chilometri di autostrade costruite in meno di otto anni, su un territorio orograficamente difficilissimo. Su questa grande impresa Francesco Pinto ha scritto un romanzo (La strada dritta), edito da Mondadori, nel 2011. E non dimentichiamo, invece, in quali condizioni è stata ed è la Salerno Reggio Calabria, che è in gestione diretta dello Stato.

Le ipotesi di un ritorno dello Stato attraverso partecipazioni dirette, da Alitalia al caso Autostrade, sopperiscono a un’assenza del mercato o sono un freno al mercato?

A questa domanda non bisogna rispondere essendo prigionieri di pregiudizi. Ben venga lo Stato. Ma prima bisogna metterlo in grado di funzionare. Il ministero dei Lavori pubblici – ora delle Infrastrutture e dei trasporti– ha prima visto la fuga dei tecnici (lo storico Guido Melis ha documentato questo fenomeno), poi ha avuto il colpo finale con l’istituzione delle regioni, nel 1970, quando si dissolse il Genio Civile, che tanto bene aveva fatto nel passato. Uno Stato senza tecnici, come può gestire autostrade? Quindi, prima una cura di vent’anni, per riportare nello Stato capacità, per premiare dipendenti maltrattati dallo “spoils system”, per incentivare i migliori.

Secondo problema: le risorse finanziarie. Lo Stato si vale di privati anche perché questi possono convogliare risorse finanziarie, oltre a correre i rischi d’impresa, come è evidente per chiunque legga la delibera Cipe 39/2007 sul regime autostradale.

In prospettiva, secondo lei come potranno essere fugati i dubbi giuridici che con questi ultimi giorni si stanno addensando sulla gestione delle infrastrutture?

Non vedo dubbi giuridici. Nella collana dei saggi di diritto amministrativo che dirigo, l’anno scorso ho pubblicato un volume curato da un gruppo di esperti del settore, diretto da Lorenzo Saltari e da Alessandro Tonetti, intitolato “Il regime giuridico delle autostrade in Italia”, in Europa e nelle principali esperienze straniere (Giuffrè). Da esso emerge che in Italia abbiamo un quadro giuridico del regime delle infrastrutture in concessione che è conforme a quelli degli altri Paesi, in alcuni punti migliore. Tenga presente anche lo sforzo fatto dalla presidenza del consiglio dei ministri, sotto la responsabilità di Fabio Gobbo e ad opera del Nars, in ausilio al Cipe, nel rideterminare i rapporti finanziari con i concessionari. I punti deboli sono purtroppo nel Ministero, che è stato privato di tante energie e competenze e dove pochi valorosi funzionari fanno del loro meglio, e nell’Anas, che ha dovuto subire tanti cambiamenti di natura giuridica negli ultimi anni.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-08-20/cassese-il-paradosso-riportare-l-autostrada--costruttore-221911.shtml?uuid=AETtH1cF&cmpid=nl_morning24
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 27, 2018, 12:48:02 pm »

 Corriere della Sera, 10 marzo 2016

"Paese reale" e "Paese legale", i cittadini e il diritto di contare

 Di Sabino Cassese

Accanto all'aumento di offerta di democrazia, all'apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un aumento della domanda di democrazia. I votanti diminuiscono, i partiti si svuotano, i sindacati divengono afoni.
Ha ragione Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 5 marzo 2016) nel rilevare che si apre un fossato tra cittadini e istituzioni. Il divario tra "Paese reale" e "Paese legale" - come si diceva nell'Ottocento - è un problema che si riaffaccia periodicamente, ma in termini nuovi, in tutte le democrazie. Una volta era questione di ampiezza del suffragio.
Conquistato il suffragio universale, è divenuto problema di canali di comunicazione tra società e Stato, prima tenuti aperti da partiti e sindacati (di lavoratori e di datori di lavoro). Questi hanno sempre meno iscritti, sono meno vitali, meno diffusi sul territorio. Non assicurano, quindi, quella trasmissione di domande sociali alle istituzioni che costituisce il loro compito principale.
Contemporaneamente, nelle istituzioni, c'è dovunque la necessità di un accentramento dei poteri, imposto dalla globalizzazione: basti pensare ai diversi vertici europei e mondiali, ai quali non possono certo partecipare gli interi governi e che richiedono la presenza dei soli capi degli esecutivi. Questo malessere, se non crisi, della democrazia, emerge in un momento nel quale, paradossalmente, l'offerta di istituzioni democratiche aumenta, gli stessi partiti si aprono, il "capitale sociale" cresce. Basti pensare alla diffusione mondiale di organismi intermedi, tra Comune e Stato, chiamati Regioni, territori, comunità, per dare un'altra voce ai cittadini. Basti pensare alla introduzione di elezioni primarie, sull'esempio americano, per aumentare il tasso di democraticità degli stessi partiti (che, da strumento della democrazia, divengono essi stessi obiettivi della democrazia) e all'aumento del "capitale sociale", costituito da quelle reti di cooperazione che arricchiscono il tessuto comunitario e danno occasione ai cittadini di "svolgere la propria personalità", come dice la Costituzione.
L'apparente contraddizione si spiega in un solo modo: accanto all'aumento di offerta di democrazia, all'apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un aumento della domanda di democrazia. Dopo un ciclo secolare o semisecolare - a seconda degli Stati - di vita del suffragio universale, i cittadini si sentono padroni e questo fa emergere la debolezza originaria della democrazia moderna: essa è in realtà una oligarchia corretta da periodiche elezioni delle persone alle quali è affidato il potere (democrazia delegata o indiretta). Di qui la ricerca di rimedi, surrogati o alternative. I referendum, che si prestano però ad appelli al popolo di tipo gollista. La democrazia detta deliberativa, cioè la consultazione dei cittadini sulle politiche pubbliche, che però non può esercitarsi su tutte le decisioni e non può condurre a una integrale socializzazione del potere (un sogno inseguito da varie correnti del socialismo nell'Ottocento e all'inizio del Novecento). Il ricorso alla rete, con tutte le arbitrarietà alle quali si presta.
In Italia il malessere dei cittadini è più accentuato perché non funzionano male solo i rami alti, ma anche quelli bassi delle istituzioni, scuole, ospedali, università, trasporti, strade, giustizia. Ne sono un segno i periodici sondaggi sulla fiducia dei cittadini, che mettono in alto forze dell'ordine, chiesa, autorità indipendenti e molto in basso amministrazioni pubbliche, servizi a rete, corti. Giustamente Maria Elena Boschi (Corriere della Sera del 6 marzo 2016) punta su "un Paese più semplice e più giusto", perché il malfunzionamento dei rami bassi produce diseguaglianze tra chi non può fare a meno di servizi pubblici e chi ha i mezzi per evitare di ricorrere a essi.

Da - http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/qpaese-realeq-e-qpaese-legaleq-i-cittadini-e-il-diritto-di-contare
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