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« Risposta #255 inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:56:55 pm » |
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No per ridare voce agli italiani Pubblicato: 02/12/2016 21:58 CET Aggiornato: 02/12/2016 22:12 CET COSTITUZIONE Lucia Annunziata Nel novembre 2011, in nome della stabilità del paese, viene buttato alle ortiche Silvio Berlusconi, a favore di Mario Monti, senza elezioni. Nell'aprile 2013 si va alle elezioni e Mario Monti non supera l'esame elettorale, senza che però l'incarico di premier vada a nessuno dei due quasi vincitori, né a Bersani né a Grillo. Entra invece Enrico Letta, che non è il campione uscito dalle urne, ma appare più adatto degli altri due ad assicurare la stabilità. La stabilità però è una Musa Inquieta e nel febbraio 2014 butta alle ortiche anche Letta. Entra Matteo Renzi, un politico che al voto parlamentare nazionale non si è mai sottoposto, che passa direttamente da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. In 5 anni 4 premier, di cui 3 mai votati. Cifra da Prima Repubblica. Se era Stabilità che volevamo abbiamo in realtà prodotto il suo contrario. Né meglio è andata negli stessi anni in paesi ben più strutturati del nostro. La stabilità invocata, richiesta, organizzata dalle classi dirigenti dell'Occidente come risposta alla crisi montante delle democrazie non ha avuto nessun successo. Lo tsunami di una gigantesca disaffezione e rivolta che attraversa l'Europa, la Brexit Inglese e la vittoria di Trump ne sono la prova inconfutabile. Eppure nessun paese, nessun leader, nessuna classe dirigente ne ha preso finora atto. Men che meno l'Italia. Al referendum sulla riforma Costituzionale voterò No. Per spiegare le ragioni di questo No evito di proposito di entrare nel merito delle questioni costituzionali, perché questo voto è innanzitutto un passaggio politico, e non solo italiano. E io sono contraria alle soluzioni che ci vengono proposte. Deboli perché inefficaci. Alla crisi fra classi dirigenti e cittadini, che serpeggia da anni nelle nostre democrazie, la ricetta che i governi propongono è quella di tentare di limitare le aree dello scontento, di stringere un cordone intorno al dissenso, usando il peso delle relazioni di classe, il peso degli interessi economici, la forza delle strutture pubbliche e, infine, a volte, anche la limitazione del ricorso al voto o, quando è il caso, al referendum, come in Inghilterra e, prima, in Grecia. Nel nome di una bandiera: la stabilità innanzitutto. Finora la esperienza ci ha detto che questa soluzione non funziona. Eppure, ora che tocca al nostro paese, l'Italia in maniera ostinata e per me sorprendente si è incamminata sulla stessa strada: al No è stato attribuito il solito valore distruttivo, al Sì la funzione positiva, della continuità e della forza istituzionale. In questo senso, come ormai anche chi sostiene il Sì ammette, il referendum è un passaggio squisitamente politico - a dispetto di tutte le discussioni sul contenuto della riforma costituzionale, su cui appunto è quasi inutile a questo punto entrare - il risultato delle urne sarà un giudizio a favore o contro il governo. Una "deviazione" dell'istituto referendario su cui non si può essere d'accordo. Ma che era quasi inevitabile, vista la nostra storia recente. Nella battaglia contro il "populismo" l'Italia ha, come ricordavo all'inizio, una storia ormai di qualche anno. Dalla caduta di Berlusconi, la classe dirigente del nostro paese ha giocato con il fuoco delle crisi risolte sul filo della soluzioni non istituzionali. Il voto popolare, e la scelta dei premier, come dicevo, sono dal 2011 fuori dalle mani dei cittadini. Questa gestione delle istituzioni non solo ha però aumentato il risentimento popolare contro la politica, ha anche indebolito tutti i premier. Incluso il più forte, il più abile, e spregiudicato dei suoi predecessori, Matteo Renzi, che per arrivare a Palazzo Chigi ha accettato comunque il compromesso di arrivarci senza voto popolare. All'inizio si è probabilmente illuso che quell'entrata fatta per vie brevi sarebbe stata dimenticata presto a fronte dei suoi successi; e invece, a riprova che le istituzioni contano, la mancanza di elezione popolare ha viceversa intaccato i suoi successi. Quel condizionamento iniziale ha pesato sulle condizioni generali del suo governo: Renzi si è trovato a lavorare con un Parlamento e un potere centrale non scelti insieme a lui, e di conseguenza ha fatto in una maniera esponenziale scelte sempre più irregolari. Ha fatto ricorso a maggioranze occasionali, costruite di volta in volta. Ha dovuto forzare e personalizzare quasi tutti gli appuntamenti più tradizionali, dalle molte fiducie alle scadenze elettorali, dal Jobs Act alle elezioni europee o amministrative, ogni appuntamento ribaltato in un referendum sulla sua persona e sulla forza del suo governo, fino all'ultimo referendum in cui con lui si gioca la testa anche l'Italia. La debolezza del mancato passaggio elettorale si è riversata infine sulla riforma Costituzionale che giudicheremo. I dubbi di chi dice No oggi in Italia sono fondati nella dinamica delle cose: davvero un lavoro così rilevante come la riscrittura di parte rilevante della nostra Carta può essere fatta nelle condizioni che conosciamo, con maggioranze variabili, forzature, trattative di scambio, in un Parlamento in cui i partiti si sono sgretolati e il cambiamento di casacca è stato sfacciato? Di sicuro si può dire che far fare una riforma Costituzionale a un premier eletto avrebbe assicurato un percorso di scrittura della riforma più trasparente, più corretto, e sicuramente più solido. Evitando il sospetto che essa serva solo a rafforzare qui ed ora il futuro elettorale dello stesso premier. In altre parole, viviamo da cinque anni in un profondo squilibrio istituzionale, ma invece di affrontarlo, si preferisce, oggi soprattutto per volontà del premier, andare avanti con successive forzature. Nella convinzione, o la speranza, che le prove di forza prima o poi possano piegare lo scontento dei cittadini, o il dissenso. La formula di questi anni, appunto. Al fianco del Premier infatti è tornata a scendere la classe dirigente di sempre sollevando la paura di sempre - l'instabilità. Juncker e Schaeuble, due che amano Renzi come i bambini le vaccinazioni e che comunque lo difendono, i grandi giornali finanziari, Financial Times e Wall Street Journal, e se una voce sola, l'Economist, dissente si grida al complotto delle forze oscure europee. Quella stessa Europa che però ha aperto una nuova linea di credito all'Italia pur di aiutare il governo. Arrivano, poi, insieme ai mercati, i manager - con Marchionne il 95 per cento dei manager del nostro paese. Per finire con Romano Prodi, che per non mancare all'appello dell'Europa infine si schiera con un premier che pure critica. A proposito di Casta ed Elite, intorno a Matteo Renzi non manca nessuno. È uno schieramento imponente che probabilmente regalerà al Sì la vittoria. Ma aiuterà il paese a fare un passo avanti davvero, come si promette? La vittoria del Sì darà sicuramente un premier più forte, ma non un paese più solido. Non solo perché la battaglia prima delle urne è stata lacerante, ma soprattutto perché una vittoria ottenuta sulla paura e sulle forzature, come si diceva, aggrava la distanza fra classi dirigenti ed elettori. La vittoria del Sì assicurerà dunque un Renzi più forte, ma non una maggiore stabilità. È questo il "meraviglioso" paradosso che spiega come mai la formula non abbia finora funzionato, in nessun paese dove è stata applicata. C'è bisogno invece di fermare questa deriva, risettare le priorità e riportare l'Italia a una discussione seria, partecipata, e comunemente accettata, sul suo futuro. C'è bisogno di un segnale che, accendendosi, indichi che un limite non può essere superato. Questo segnale è solo il No. Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/voto-no-per-ridare-voce-agli-italiani_b_13378350.html?1480712356&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #256 inserito:: Marzo 06, 2017, 04:13:21 pm » |
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La nemesi del complotto Lucia ANNUNZIATA Pubblicato: 04/03/2017 21:11 CET Aggiornato: 05/03/2017 19:17 CET MATTEO RENZI Matteo Renzi è arrivato al punto in cui un politico non dovrebbe mai arrivare: il "Ci vogliono far fuori", il "disegno evidente", il "non ci faremo processare dai giornali". Parole pronunciate nel corso della intervista a Lilli Gruber. Al netto della mia parzialità dovuta all'apparentamento dell'Huffington Post con l'Espresso e con l'intero Gruppo Espresso chiamato in causa da Renzi nella persona del suo editore, se questa è la linea con cui l'ex premier va al "contrattacco" è piuttosto fragile. C'è intanto qualcosa di triste nel vedere un politico così giovane arrivare così presto a un classico della vecchia politica. Meglio: un classico dell'invecchiamento in politica. Non c'è mai stato infatti segno migliore del concludersi di un ciclo personale e di partito della famosa spiegazione dell'altro da sé. La caduta di Andreotti spiegata con la vicenda dell'Achille Lauro, il capolavoro di Bettino Craxi che della sua caduta fece una riscrittura della Storia, seguito con passo di danza pochi anni dopo da Silvio Berlusconi che trasformò in uno status quello del perseguitato politico. La tentazione di evocare le forze oscure che tramano contro le forze sane , è in verità una via d'uscita popolare in ogni stagione e dentro l'intero arco costituzionale - la paranoia dei due anni di D'Alema a Palazzo Chigi, il sospetto permanente del Professor Prodi nei confronti dei suoi alleati interni, la Guerra intorno ai 101, la rielezione di Napolitano e quella successive di Mattarella; fino ad arrivare alla denuncia delle oscure resistenze come forma suprema dell'analisi della quotidianità dentro il Movimento Cinque Stelle. Il punto è che ogni volta che un politico o una forza politica arriva a denunciare questo passaggio, sta in realtà - la storia lo prova - affrontando una sconfitta. È quello che capita anche all'ex Premier. Ma nel suo caso l'adozione di questa linea di difesa è talmente lontana da tutto quello che ha fatto finora da essere essa stessa una indicazione. Matteo Renzi si ritrova ad operare oggi in una situazione completamente diversa da quella cui è stato fin qui abituato. Un habitat nuovo della sconfitta, peggiorato anche rispetto a quello del dopo-referendum. La strategia del ritorno di Renzi dopo il 4 dicembre è pavimentata di molte buone intuizioni rivelatesi storte. La soluzione muscolare della divisione interna al Pd si è ribaltata su sé stessa: usciti i dem, infatti, la frattura politica interna si è riaperta di nuovo, come il terremoto di questi mesi che continua a trasferirsi a faglie limitrofe. A riprova, in Umbria come nel Pd, della fragilità complessiva del territorio. Il risentimento, la diffidenza reciproca nati in questi anni, stanno ora erompendo attraverso le denunce reciproche di brogli, di tesseramenti gonfiati, di accordi spiacevoli fra capibastone. Un clima che, privo della permanente frizione dei D'Alema, Speranza, e Bersani, si rivela oggi molto più violento di quando di poteva attribuire a un nemico interno. A riprova di quanto difficile e arbitrario sia stato il percorso del Pd renziano, fra cambi di casacche interne, alleanze spurie fra posizioni fra loro inconciliabili, scandali di voti alle ultime due primarie. Complicazioni e rotture di una organizzazione che, sbandando come un toro ferito, negli ultimi anni, anche prima di Renzi, aveva già fregato Bersani, poi Letta, poi la Presidenza Prodi, e che ora arriva, ultimo nella fila, a fregare anche Renzi. La volatilità e la non trasparenza della vicenda interna del Pd è la prova che l'ex segretario in realtà non controlla il suo partito. E anche se questa ingovernabilità è stata sepolta dalla scissione, rimane il suo tallone d'Achille È abbastanza evidente a tutti infatti che, in queste condizioni e qualunque ne sarà il risultato, le primarie nascono contestate, e Renzi rischia persino di perderle. La vicenda giudiziaria che coinvolge il padre aggiunge un secondo effetto deflagrante. Al di là del risultato finale dell'inchiesta, rivela, come è stato bene scritto da altri in questi giorni, una idea di potere. È l'idea che Matteo Renzi ha tanto lavorato per affermare: un unico motore che sia capace di gestire tutto lo Stato. Una scelta che i renziani hanno sempre rivendicato come garanzia della loro possibilità di cambiamento. La reazione delle forze della "conservazione" contro questa loro ambizione al nuovo è il nemico oscuro che sostengono voglia ora farli fuori. Ma la verità politica della vicenda giudiziaria, al netto di qualunque verdetto futuro, contiene fin da ora una lezione politica: questo potere così accentrato è stato però anche così disattento. Renzi è colto in questa vicenda nella più vecchia delle trame del mondo politico, il familismo. E si difende da queste vecchie trame con il più vecchio degli argomenti del mondo politico. Primarie contese, perdita di credibilità personale, possibile sconfitta elettorale alle amministrative di giugno, una turbolenza che si estende al governo. È una combinazione di elementi che ci presenta un panorama inimmaginabile fino a pochi mesi fa: il possibile collasso del sistema legato al Pd. Ma l'ex segretario non sa o non vuole cogliere questo sviluppo. Il coraggioso ragazzo di Firenze arrivato a Roma sfondando le porte, si rifugia oggi nella denuncia di "un chiaro disegno" contro di lui. C'è una nemesi e, come si diceva, una tristezza in questa trama. Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/la-nemesi-del-complotto_b_15157870.html?1488658298&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #257 inserito:: Ottobre 14, 2017, 12:37:31 pm » |
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IL BLOG Collassa il sistema ma si salvano i suoi capi Con una discutibile manovra istituzionale un pugno di leader è riuscito a mandare all'ammasso tutti, eccetto sé stessi 12/10/2017 23:14 CEST | Aggiornato 13/10/2017 08:27 CEST Lucia Annunziata Direttore, Huffpost Italia Legislatura anomala, votata sotto i colpi di una totale rivolta contro il sistema, tra vaffa lanciati come pietre e rottamazioni imbracciate come clava; continuata nel segno dell'evaporazione delle frontiere (fra idee e partiti) e dell'assottigliarsi delle regole; insomma la XVII legislatura della Repubblica italiana che ha avuto inizio venerdì 15 marzo 2013 è di fatto finita oggi, coerentemente con il suo inizio: con un'ennesima lacerazione. La legge elettorale è stata approvata alla Camera con ricorso alla fiducia, superando il passaggio più difficile. Il voto è avvenuto alla vigilia del decennale del Pd, festeggiato senza (fra gli altri) Romano Prodi, che è stato presidente del Comitato nazionale per il Partito democratico, e poi presidente dell'Assemblea costituente nazionale del partito. Divina dissonanza, o meravigliosa coincidenza: in fondo la battaglia intorno e dentro il Pd è stata la storia che ha percorso tutta la legislatura, e il suo cambio di pelle è stato davvero il segnale di un cambiamento dei tempi. L'approvazione di una legge elettorale in queste circostanze prepara una campagna elettorale avvelenata. Ci sono pochi dubbi infatti che, qualunque sia il giudizio che si vuol dare di questa mossa – e il mio è negativo – il ricorso alla fiducia per l'approvazione delle leggi elettorali è un evento eccezionale, avvenuto solo quattro volte nella storia repubblicana. Due di queste quattro sono avvenute in questa legislatura: un altro indicatore, se ce n'era bisogno, che questa è stata una legislatura fra le più instabili. È in questa identità malata del Parlamento, nell'estrema crisi di questa istituzione, che va cercata oggi l'origine e la ragione del passo finale di queste ore. Intanto, dal 2013, abbiamo contato tre premier non eletti: Letta, Renzi , Gentiloni – più Bersani che ha vinto il voto ma non ha avuto incarico. Uno scollamento fra voto e rappresentanza potremmo dire di tripla potenza. Distanza poi riflessa dal collasso anche della stabilità parlamentare, a causa di un numero di cambi di casacca senza precedenti. Al Senato i cambi sono arrivati a 231, portati a termine da 136 senatori – cioè il 42,50% dell'Aula. Alla Camera i cambi di gruppo a oggi sono 297, e hanno coinvolto 203 deputati, cioè il 32,22%. I due rami hanno totalizzato 528 cambi di gruppo da inizio legislatura, con 339 parlamentari transfughi: il 35,68% del totale. Un continuo tremore di poltrone, anticipazione e segno a sua volta di un cambio di identità dei partiti stessi. Le entrate e uscite dalle varie case politiche raccontano infatti molto bene il cambiamento di pelle dei partiti. Alla Camera, i gruppi che registrano un saldo ingressi-uscite positivo sono il Misto (+20) con 85 parlamentari "conquistati" e 65 "persi" e Alternativa popolare (+27) con 38 nuovi ingressi e 11 uscite. Record negativo a Forza Italia (-46) con 52 perdite contro 6 ingressi. Non va meglio neppure per M5S e Pd, che perdono rispettivamente 21 e 33 deputati. Stessi trend al Senato, dove è FI a perdere più senatori (53) ed è il gruppo Misto a guadagnarne di più (46). E tuttavia questi stessi trend sono suscettibili a ulteriori cambiamenti: si segnala infatti in corso una nuova tendenza al ritorno verso Forza Italia, ora che il partito è tornato un player nazionale. Non sorprende che per governare una tale confusa identità collettiva, la fiducia sia stata usata in maniera muscolare: 98 volte dai 3 governi. Invocata per ben il 51% delle leggi dal governo Gentiloni: incluso il voto per il Rosatellum, vi ha fatto ricorso 22 volte. Il precedente esecutivo Renzi ha usato 66 voti di fiducia, cioè per il 26% delle leggi approvate. Letta ha usato la fiducia 10 volte, per il 27% delle leggi passate. Tutti questi numeri portano a una conclusione ovvia: la fiducia sulla legge elettorale che chiude la porta su questa legislatura è una scelta che è quasi un'abitudine. Frutto degli sconquassi, e delle forzature, degli assalti e della delegittimazione del Parlamento. È una scelta che svela la fragilità che ha percorso l'intero assetto di questo ultimo quinquennio politico – una storia di questo periodo molto diversa dalle retoriche ufficiali. Ma non solo di questo si tratta. La fretta di approvare la legge nasce da una fragilità ma ha uno scopo chiaro: aggirare questa incertezza per affermare un meccanismo di autodifesa degli assetti di sistema. Il Rosatellum infatti conferma la solita dote che tutte le ultime leggi elettorali hanno conferito ai leader politici: quella di designare, attraverso i nominati, un nuovo Parlamento a propria immagine e somiglianza. In altre parole, grazie alla fiducia, in fretta e in sicurezza, si sono garantiti la sopravvivenza Renzi, Salvini, Berlusconi, Verdini, Alfano – mentre al macero andranno tutti gli altri. In sintesi, alla sua fine, la legislatura XVII può dire di aver ottenuto il collasso del sistema – ma non dei capi di questo sistema stesso, che, con una discutibile manovra istituzionale sono riusciti a mandare all'ammasso tutti, eccetto sé stessi. Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/collassa-il-sistema-ma-si-salvano-i-suoi-capi_a_23241747/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #258 inserito:: Novembre 07, 2017, 11:50:44 am » |
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IL BLOG In Sicilia muore il Nazareno 06/11/2017 19:43 CET | Aggiornato 3 ore fa Lucia Annunziata Direttore, Huffpost Italia Se la Sicilia è, davvero, il laboratorio di cui tanto si parla, il suo voto ci dice che la grande coalizione, il Nazareno, o come volete chiamarla, insomma l'accordone fra la destra e il Pd è stato ucciso prima ancora di nascere nelle urne della Trinacria. La forma, i modi e i numeri della vittoria del centrodestra dell'Isola, letti insieme a quelli del disastro Pd provano infatti che Renzi potrebbe essere parte di una grande coalizione con Silvio solo come junior partner: una posizione definitivamente impossibile da accettare da parte del segretario del Pd, o da chiunque altro nei suoi panni. Guardiamo ai numeri. Nel centrodestra ci sono stati tre canali di raccolta del voto. Vince col 16 per cento Silvio Berlusconi – prova di una imperitura fedeltà di una parte dell'elettorale italiano a questo leader, che viene messo da questo risultato in una posizione indiscussa a capo della sua area. Il numero che salda la vittoria del centrodestra viene dunque dalla lista Musumeci che prende il 7 per cento dei favori degli elettori. Buona parte di questo consenso viene dal serbatoio di Fratelli d'Italia - come è naturale che fosse visto che si tratta dopotutto della stessa farina. Non sono esaltanti i risultati di Meloni e Salvini, a cavallo della soglia del 5 per cento per entrare nel Consiglio Regionale, anche se il valore di questo risultato per Fratelli d'Italia è che si fonde con quello di Musumeci che viene dalla stessa area. Quel 5 per cento rimane però la prova che la seduzione sovranista, o antisistema che sia, agitata dai due partiti, non parla molto alla base del centrodestra, almeno al Sud. Né fa meraviglia questa freddezza. L'Isola che ha un Statuto speciale, ha 5 volte il numero di impiegati pubblici della Regione Lombardia, e trattiene il 100 per cento delle proprie tasse, non è esattamente il terreno più fertile per spinte radicali antistatali o antieuropee. La lettura finale di questi dati è che il centrodestra che ha vinto in Sicilia si presenta oggi sulla scena politica in una versione in parte inedita. È un blocco abbastanza compatto, a dispetto di quel che si diceva prima del voto, quando inquietava la tenuta della coalizione; ma questa compattezza trovata assorbendo voti della Lega e di Fratelli d'Italia dà al blocco moderato che la compone una inclinazione molto conservatrice, una forte venatura identitaria. Anche i 5 Stelle escono dal voto con una sorte di nuova pelle. Hanno perso, ma sono il primo partito perché il loro voto è quasi duplicato, e questo grazie alla grande attrazione che hanno esercitato sul voto della sinistra: il centrosinistra perde 10 punti ma, anche se la misura non è sicura, ne guadagna otto Cancelleri. Il Pd si ritrova a questo punto in una situazione in cui con i suoi voti non è più centrale né numericamente né culturalmente nell'eventuale schema del Nazareno. La coalizione permette infatti una quasi autosufficienza al centrodestra e la sua caratura ideologica moderata, ma spostata a destra, non include i moderati del Pd. L'unico ruolo possibile al Partito democratico potrebbe esser quello del junior partner, appunto; una sorta di appoggio esterno/interno a un governo di centrodestra. Un suicidio per Renzi che nella sua vita politica ha saputo fare spesso patti, ma non è mai stato incline ad accettare condizioni di servitù. Insomma, la Sicilia doveva ristabilire per il futuro dell'Italia uno schema binario: Governo di Grande coalizione nazarenica, con il movimento pentastellato tenuto finalmente fuori. La debacle del Pd, che di fatto diventa irrilevante con il suo serbatoio di voti, ci riconsegna al solito schema che ha dannato la politica di questi ultimi cinque anni: il tripartito di fatto. Se dovessimo oggi guardare al futuro politico dell'Italia attraverso la lente siciliana, in Italia nel prossimo futuro si potrebbe materializzare un governo di centrodestra, solido a sufficienza da garantirsi la possibilità di governare – magari con apertura ad alcuni apporti "tecnici". All'opposizione ci sarebbe M5S che a quel punto però dovrebbe prendere marcatamente le distanze dalla sua componente interna di destra. E un Pd, esso stesso all'opposizione del centrodestra. Con la conseguenza che fra M5S e Pd si eserciterà una nuova competizione – sull'unico possibile terreno di opposizione: l'attacco al sistema. Scenario che del resto si è già materializzato in questi ultimi mesi, su molte proposte di legge e sociali incrociatesi fra Pd e pentastellati. Con una piccola, ma non insignificante, inversione di ruoli. Il Pd che finora era al governo, in questa ipotesi, è il terzo partito, diventando la ruota di scorta di una opposizione alla destra in cui M5S fa la parte del leone. Tutto questo, ovviamente, come si diceva, a patto che la Sicilia sia un laboratorio nazionale. E probabilmente non è così. Troppe unicità nell'Isola e troppe eccezioni di capibastone, flussi elettorali, e leggi amministrative. Ma le suggestioni che rilasciano nell'aria alla loro aperture queste urne siciliane, non sanno, comunque, esattamente, di zagare. Per il Pd in particolare. Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/in-sicilia-muore-il-nazareno_a_23268399/?ref=RHPPLF-BL-I0-C8-P1-S1.8-L
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« Risposta #259 inserito:: Dicembre 09, 2017, 12:52:04 pm » |
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Le illusioni dei partitini svaniscono Pubblicato il 08/12/2017 LUCIA ANNUNZIATA Meno male. Diciamocelo: la fine di un po’ di liste minori, un po’ di addii al futuro politico, lo sciogliersi e il formarsi ancora prima di entrare in azione di micro-coalizioni intorno al Pd, provoca – almeno nel mio cuore di elettore – una celebrazione. Capisco che il fallimento delle ambizioni di un progetto politico, di lista o personale, è in una democrazia un fallimento, sempre. Ma sempre davvero? In questa spietata vigilia elettorale stiamo assistendo a un ciclo di eventi che, a memoria dei più giovani, non si vedeva da anni. Dopo aver navigato sotto le vele sicure di un ferreo bipolarismo, introdotto in Italia a furor di popolo nel 1994, il sistema politico – modificato di nuovo a furor di popolo nel tripolarismo a sorpresa uscito dalle urne del 2012, con la affermazione di un terzo partito, il M5S – si è infine spappolato tornando al buon vecchio schema del proporzionale. Il che significa, per chi non ricordasse il passato, che ogni uomo vale un partito e ogni partito può ambire ad essere determinante nella formazione di un governo. Il massimo della democrazia, appunto. Anni di Prima e Seconda Repubblica ci hanno insegnato che governi senza salde coalizioni e chiari progetti possono essere una giostra irrefrenabile, e che a volte persino nel sistema bipolare più solido, le grandi coalizioni senza programmi consolidati hanno i piedi d’argilla. Come non confessare dunque che la crescita esponenziale di micropartiti, microsigle e microambizioni individuali nelle passate settimane non è mai stata, ai miei occhi, una espressione di superiore democrazia, tantomeno di rassicurazione? Per cui, lo ripeto: meno male che è finita come sta finendo. La caduta di accordi, il ritiro dalla scena di leader politici come Pisapia ed Alfano, e ora l’incertezza di quel che resta va vista come una salutare presa d’atto, un bagno di realismo, che per la prima volta da parecchi mesi reintroduce la realtà al posto dei sogni. Quello che viene visto da molti come un «fallimento», di individui e di ipotesi politiche, è nei fatti una grande e molto necessaria pulizia. Che ci fa intravedere qualche barlume di verità. La crisi infatti riguarda un panorama di illusioni, un racconto di macchine che in realtà non avevano motore. Giuliano Pisapia è un uomo che è sempre stato un leader riluttante e un politico luterano – negli anni ricordiamo la certezza con cui nonostante il dispiacere abbia preso posizioni scomodissime, rispetto alla sua area di appartenenza, come quella garantista. A Milano aveva funzionato perché la istituzione eminentemente monocratica del sindaco lo ha messo in grado di esercitare il suo ruolo senza venire a compromessi con sé stesso e le sue idee – a cominciare da piccole grandi scelte come quella del non accesso al centro città. Non poteva assolutamente sopravvivere in una condizione in cui le alleanze sono fluide e il programma secondario rispetto alla necessità di trovare numeri elettorali. Ha fatto bene ad andare via dunque, e a lui va il ringraziamento degli elettori per il chiarimento che la sua scelta introduce. Uguale merito condivide Angelino Alfano, un uomo che è stato fino a pochi giorni fa la nemesi di Pisapia, una delle ragioni della impossibilità a mettersi in una coalizione con il Pd. Anche Angelino, esatto opposto di Pisapia nel percorso e nella opinione popolare, Angelino morbido, accomodante nelle scelte, pronto a farsi, come dicono al Sud, concavo e convesso, anche questo Angelino ha detto addio con una frase bellissima per un politico «mi cercherò un lavoro». Alle orecchie dell’elettore attuale, questa frase è un intero programma. Un altro grande chiarimento. Restano le sorti di quelli che rimangono – tutti con mal di pancia. I radicali ed europeisti, scontenti della politica del Pd sull’immigrazione; i membri del partito di Alfano, da Lorenzin a Lupi, essi stessi divisi su quale parte scegliere; e i moderati ancora in attività come Casini. Mentre a sinistra si battono colpi in tutte le direzioni: cosa farà il presidente Boldrini ci si chiede? E ci sarà un qualche pezzo di sinistra a sinistra che rimane intorno al Pd? E alla sinistra intorno a Liberi e Uguali, si aggregheranno alcuni di questi pezzi di moderati? Domande che, nel grande quadro del voto, sono quasi irrilevanti nella loro dimensione. Mi piacerebbe, anche, qui, ricordare che se anche il disastro che descriviamo va dal centro a sinistra, il panorama che si disegna dal centro alla destra non è meno fluido. Le inquietudini di Salvini, la rimonta dei favori dei camerati neri, la moderazione di Silvio a malapena tenuti insieme da una qualche certezza di poter vincere uniti. La liquefazione dei partiti è in effetti un dato strutturale delle nostre democrazie: nei passati cinque anni si sono dissolti i parametri e le macchine di funzionamento di tutte le nazioni europee – la Germania e l’Inghilterra esempi massimi di quanto in alto è arrivato lo tsunami – e degli Usa. Rispondere a questo orizzonte di crisi con tentativi superficiali, operazioni politiche rabberciate senza programmi e idee, sarebbe come curare una ferita d’arma da fuoco con un cerotto. Per questo è giusto dire che i fallimenti anticipati di cui siamo testimoni sono un bene per tutti – politici ed elettori. Ripuliscono l’orizzonte e rimettono la verità al centro della scena. Dunque, è ora rimasto solo Matteo Renzi, come tutti scrivono in queste ore? La risposta è no. Questo processo di chiarimento è anche per lui un’operazione verità. E’ la prova di quanto diverso sia diventato il Pd ricostruito da lui in questi anni; così diverso da non poter più coalizzare una parte di moderati e di sinistra che prima si riconosceva nel Pd. Accettare questo dato di fatto non costituisce per Renzi né fallimento, né solitudine. Al contrario, è per lui una incredibile opportunità per far progredire il suo progetto – che, dopotutto, si chiama «un uomo solo al comando». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/12/08/cultura/opinioni/editoriali/le-illusioni-dei-partitini-svaniscono-WlqWJAomNm7J43OYFRswnL/pagina.html
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« Risposta #260 inserito:: Dicembre 29, 2017, 11:37:06 pm » |
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Tutti in corsa per i voti dei moderati Pubblicato il 28/12/2017 LUCIA ANNUNZIATA Il convitato di pietra della prossima campagna elettorale non è un’idea, ma uno stato d’animo: il malcontento. Chi più riuscirà a rappresentarlo, o a sanarlo, sarà il vincitore, si dice. Come mai allora ovunque si guardi, a destra come a sinistra, tutte le forze politiche lanciano messaggi mirati soprattutto ad ottenere i consensi dell’area moderata? In primissima fila ai blocchi di partenza, non a caso spicca la figura di Silvio Berlusconi, l’unico leader che ha attraversato (quasi) intatto il ventennio. E’ nella sua versione proporzionale, ma fa da perno all’unica coalizione che può raggiungere una maggioranza. Silvio e il partito che guida da sempre sono entrambi ridotti nelle forze: Silvio ha venti anni in più, ha varcato gli ottanta, e Forza Italia quasi venti punti in meno rispetto ai fasti del passato. Ma entrambi sono, in questa loro semplice resistenza all’usura, diventati la prova materiale (e psicologica) che non tutto cade, o si deteriora. Questo atto di sopravvivenza, in tempi che hanno consumato ideologie, idee, partiti e reputazioni, vale da solo un programma politico. Curiosamente, infatti, il Silvio che oggi torna a raccogliere consensi indossa abiti totalmente diversi da quelli del primo Silvio. La discesa in campo nel 1994 fu un atto di sfida, la promessa/minaccia di un Prometeo che voleva riscrivere il panorama della politica italiana – e ci riuscì, rompendo il panorama tardo post-guerra-fredda che durava in Italia da troppo tempo. Il sistema dell’epoca non lo amò molto – come poi si è visto. Ma non è stato alla fine cancellato. E oggi torna come la nemesi di sé stesso: Silvio oggi è leader rassicurante (per la sua stessa durata). Promette tranquillità, continuità, non si è fatto attrarre da sovranismi, da guerre contro l’Europa, ma nemmeno dalla favola del populismo che accontenta tutti gli altri leader a destra. Il re dei moderati, insomma. E qui incontriamo Matteo Salvini, erede ma solo per via formale, di quella Lega con cui Silvio ha costruito in passato le sue fortune. Passato il tempo in cui la sua attività politica sconfinava nel goliardismo, con provocazioni più atte ad attirare l’attenzione mediatica che a costruire un partito, Salvini guida una Lega che del passato ha perso persino il nome Nord con cui si identificava. La Lega è sempre forte lì dove è nata e governa, il Veneto e la Lombardia, ma a Salvini è sempre stata stretta questa regionalissima identità – le patrie locali un po’ lo fanno soffocare, si ha l’impressione. Da quando ha mosso i suoi primi passi, molti di questi passi hanno calcato suolo e suggestioni estere: la Russia di Putin, l’identitarismo dei francesi lepenisti, l’ironia separatista inglese di Farage, e l’America di Trump. Salvini ama i grandi temi, e ne ha trovato uno perfetto alla fine: il rifiuto dell’immigrazione come grande collettore di ogni suggestione identitaria, bianca, e indipendentista. Ovviamente a Salvini è rimasto il gusto di scuotere, e dunque di spararle grosse – ma alla fin fine in questa vigilia elettorale le parole più gravi le ha già messe nell’armadio – di rompere con l’Europa non si parla molto, e di campagne contro i migranti non si sente tanto. Del resto Salvini ha davanti una partita ben più grande: quella di declinare il malcontento in chiave tale da attirare anche una parte dei moderati di destra che sta oggi con Berlusconi. E questo sì che sarebbe un colpo: come va ripetendo da un po’, «se batto Silvio anche di un solo voto faccio il premier». Il Principe dello «scontento» è per ora, comunque, il più giovane dei politici che calcherà la scena elettorale. Luigi Di Maio è il candidato premier del movimento che ha per primo intercettato e aiutato a coagulare lo scontento in forza politica. Sono stati i pentastellati il maglio che ha spaccato la struttura (già esanime) della Seconda Repubblica. Il loro programma appare dunque, fin da questo inizio, quello destinato al maggior successo. Le cifre dei poll gli danno numeri da primo partito. Alla lettura dei quali sorge tuttavia una domanda: ma perché un movimento dedito ad aprire il sistema «come una scatoletta da tonno», presenta come proprio candidato a Palazzo Chigi Luigi Di Maio, giovane con abiti ed abitudini, nonché idee molto istituzionali, o magari meglio ancora dire moderate? Il punto di caduta per i pentastellati nella campagna elettorale è dunque, un po’ come per la Lega, il giusto equilibrio che saprà trovare fra scontento e moderazione: dopotutto, una cosa è aizzare con i «vaffa», altro è governare. L’area moderata, chiamata riformista e moderna, è dichiaratamente anche il bersaglio di Matteo Renzi in questa che sarà la sua prima campagna elettorale nazionale: come ricorderete l’ex premier è riuscito ad arrivare a Palazzo Chigi prima che in Parlamento. L’idea con cui si è presentato in politica è quintessenzialmente moderata – rompere con il passato ideologico della sinistra tradizionale. A questa idea ha sacrificato molto. Ha subito la sconfitta del referendum, ha perso Palazzo Chigi ed ha rotto (o ha subito la rottura, come preferite) un partito forte e di lunga tradizione quale il Pd. Ora che c’è un nuovo Pd renziano, è l’ora per Matteo Renzi di mettere alla prova davvero la sua capacità di attrazione nonché la sua capacità di formare il destino della nazione. Sullo stesso banco di prova anche per lui: l’area moderata. Direttamente, prendendone i voti. O indirettamente, magari, come tutto lascia pensare dalle scelte del Pd, in una grande coalizione fra le forze di Berlusconi e quelle di Renzi. Che sarebbe poi la creazione di un grande fronte moderato al centro. Le forze radicali sono invece quasi tutte raccolte intorno a nuclei minori. Liberi e Uguali, movimento dei fuoriusciti dal Pd non pare goda al momento di grandi favori elettorali. In ogni caso, la nuova formazione ha scelto come guida un ex magistrato, una figura superistituzionale come l’ex presidente del Senato Grasso. Cos’è questa scelta se non una forma di rassicurazione contro gli strappi per chi vota a sinistra? Moderati ovunque, insomma. Sotto la coltre pesante di scontento, appare la richiesta di non portare il Paese a sbattere. Ma se questa è la domanda segreta delle urne, va a finire che vero vantaggio nella campagna elettorale lo godrà il governo Gentiloni che ha chiuso le Camere ma non si è dimesso, e che, secondo molti auspici, potrebbe essere pronto a continuare anche dopo il voto. Dopotutto, è il governo che finora, poll alla mano, pare abbia più rassicurato il Paese. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/12/28/cultura/opinioni/editoriali/tutti-in-corsa-per-i-voti-dei-moderati-7TUEIiuiHS4zFLa9NgtqJJ/pagina.html
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« Risposta #261 inserito:: Gennaio 24, 2018, 11:36:23 pm » |
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La strana coppia della rivolta Pubblicato il 24/01/2018 LUCIA ANNUNZIATA Abitano entrambi lo stesso spicchio di cielo politico, ed è solo naturale dunque che insieme agitino questo lembo di terra dove si svolgono le elezioni. Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono i giovin signori del malpancismo e della rivolta. I leader dello scontento e della estraneità alle istituzioni. Insieme sono finiti nella lista nera del populismo - quando l’Europa pronuncia moniti all’Italia sul rischio della instabilità di governo è a loro che pensa; quando i mercati fanno sapere che la ripresa c’è, ma potrebbe essere messa a rischio dal risultato delle urne, è ai due che è indirizzato l’avvertimento. Una vicinanza, la loro, che può far immaginare sviluppi ancora più pericolosi. Nella incertezza della vigilia elettorale, in effetti, la più semplice soluzione alla impossibilità numerica di formare domani un governo sarebbe proprio la somma della Lega e dei Cinquestelle. Una alleanza fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio potrebbe formare un governo di ferro che, in quanto a numeri, supererebbe la famosa quota di sicurezza del 40 per cento. I due sanno molto bene il valore di una loro coalizione, e l’usano spregiudicatamente come uno dei migliori strumenti di pressione sulla opinione pubblica in questa campagna. Inseguendosi e smentendosi, in un gioco a rimpiattino fatto di promesse e dinieghi, in modo da lasciare sempre un’ampia zona grigia da cui disimpegnarsi se necessario. Tra la Lega e i Cinquestelle ci sono in effetti, aree di grande vicinanza. La più importante riguarda l’immigrazione, seguita dalla promessa di un drastico abbattimento delle tasse, e da un polemico rapporto con l’Europa. Tutti e tre gli obiettivi sono presentati con modi e linguaggi diversi: Luigi Di Maio, che in queste elezioni lavora soprattutto a vestire il manto della credibilità, parla forbito di «taxi del mare» quando si discute di accesso troppo libero delle nostre coste, e propone «una separazione immediata», già all’arrivo, fra coloro che hanno diritto di restare e coloro che non ne hanno, per procedere poi all’immediato rimpatrio. Al netto della difficoltà di decidere con velocità su temi così complessi come il diritto di asilo, il rimpatrio di massa e immediato è certamente il comune denominatore fra Movimento Pentastellato e Lega, anche se Matteo Salvini parla di espulsione senza peli sulla lingua. Anche sulle tasse i due leader hanno uguali desideri, ma coniugazioni diverse. Di Maio entra nel merito, chiedendo abbattimento per le piccole imprese e per gli strati più poveri, ma attento a lasciare ampio spazio al rimprovero agli evasori e ai ricchi, con toni che fanno immaginare in un futuro persino una possibile patrimoniale. Salvini invece ha scelto la strada più semplice: la tassa unica, la flat tax, slogan popolare, semplice e mobilitante. Sulla collocazione dell’Italia nelle relazioni con il resto del mondo Lega e M5S vanno invece davvero di pari passo: sono contro l’Europa che ha affamato con i suoi burocrati i nostri Paesi, amano Putin, e adesso, grazie a un giro perfetto della storia, anche Trump. Alla fine, a scriverne così, la competizione fra queste due figure si rivela quasi sovrapposizione. I due in fondo lavorano sullo stesso segmento e gli stessi sentimenti di popolo. L’alleanza appare dunque inevitabile. Se non fosse che nelle campagna elettorali val la regola che tutto è un gioco di specchi. E, anche nel caso di cui si parla, le assonanze paiono un fatto verbale, un tono, uno spartito musicale più che proposte comuni. Al di sotto dei toni ribelli e al di sopra delle affermazioni eccessive, la Lega e M5S hanno un rapporto con il potere molto diverso. E questa è una differenza essenziale. La Lega non è affatto un partito contrario al governare. Fin dalla sua comparsa sulla scena politica si pose come il protagonista di una profonda rivoluzione sociale - indipendenza del Nord dalla Capitale, dunque rifondazione dello Stato - attuata attraverso la conquista del governo. Questo desiderio si rivelò così forte da prestarsi a spericolate manovra pur di arrivare a partecipare al processo decisionale - il ribaltone con cui nel 1996 Bossi abbandonò Berlusconi per dare la vittoria alla sinistra guidata da Prodi è uno degli esempi (mai dimenticati). Del resto la Lega ha sempre voluto il governo delle Regioni e da decenni ne è una forza decisiva. Al di là dei toni, la Lega non è dunque un partito anti-istituzioni. I pentastellati nascono invece all’ombra della critica alle istituzioni, nutrita da sospetti, complottismi e letture economico/sociali venate di paranoia. I pentastellati sono i figli del dubbio sull’11 Settembre, del sospetto delle élite nato nelle pieghe del globalismo feroce, dello sbandamento indotto dalla rapida rivoluzione tecnologica e la combinata crisi sociale. I pentastellati sono entrati in campo per demistificare, svelare, e insomma «aprire come una scatoletta di tonno» le istituzioni che governano. Insomma, la Lega vuole governare per difendere indipendenza territoriale, nazionalismo o piccole patrie, come si preferisce. Ha solo bisogno di avere alleati che rispettino questi punti del suo programma, sul resto può trattare. Anche i pentastellati vogliono governare - specie ora che si avviano ad essere il primo partito - ma devono poter «giustificare» la loro scelta di guidare il Paese senza essere accusati di essersi svenduti, presso la loro base sociale. Dunque non possono allearsi con nessuna delle forze politiche tradizionali, e devono dimostrare di stare nelle istituzioni differentemente da chiunque altro ci sia stato prima. Questa differenza fra leghisti e M5S è l’unica vera, sostanziale. Per forma forse ancora prima che per contenuti, non riconciliabile. I due uomini antisistema, i cui discorsi e percorsi oggi ogni tanto si incrociano, sono destinati dunque a non ritrovarsi alleati. Bensì in gara per la rappresentanza del malumore popolare, in una competizione infinita come quella dei «Duellanti» di Joseph Conrad. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2018/01/24/cultura/opinioni/editoriali/la-strana-coppia-della-rivolta-2zxEKKaKxwrlBH6KGHcxpK/pagina.html
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« Risposta #262 inserito:: Marzo 23, 2018, 05:49:48 pm » |
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Silvio mette in trappola i due vincitori Pubblicato il 23/03/2018 LUCIA ANNUNZIATA Per diciannove giorni esatti, due uomini, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno girato l’Italia in lungo e in largo, in un tour della vittoria, raccontando a tutti di aver vinto le elezioni. Intessendo intorno a questo concetto un racconto fatto di emozioni («saremo sempre fedeli a chi ci ha scelto») e parole d’ordine («nulla sarà come prima») che ha rapito anche le migliori menti nella seduzione di una idea - l’inevitabilità di un governo Lega-M5S, dannazione, disperazione, entusiasmo, come preferite, in Europa, in Usa, in Russia. Ma, come nelle favole, a 24 ore dall’inizio della prima scelta che avvia la strada per formare un esecutivo, tutto svanisce, e i due uomini, Salvini e Di Maio, come la ragazza che porta la ricottina al mercato, scoprono che la vittoria nelle urne è stata solo un rapido sguardo riflesso in uno specchio. Avevano fatto un accordo che contentava entrambi: al primo la presidenza del Senato, al secondo la presidenza della Camera. Intesa viatico di un futuro accordo di governo. Salvo scoprire che per fare un governo ci vuole ben altro dei voti fin qui raccolti, e molto molto altro che una semplice somma numerica. È bastato che si rialzasse dal suo dispiacere il vecchio leone della politica italiana, per scompigliare ogni progetto. Nelle prime ore dopo i risultati sembrava morta, Forza Italia. Vergognosa, schiacciata dal sorpasso inflittogli dalla Lega. Poi, tre giorni fa l’arrivo a Roma di Silvio Berlusconi. A differenza degli altri leader che hanno solo partiti, il Cavaliere può contare anche su una poderosa macchina che ha costruito negli anni, e che, sebbene sminuita di peso, schiera un’ampia articolazione di ruoli e intelligenze, come Ghedini e Letta, giornali e televisioni, relazioni istituzionali e fedeltà consolidate. Fili sono stati tirati da questa macchina, progetti sono stati abbozzati. Discreti approcci, telefonate, amicizie riascoltate, una tela è stata sistemata, a Roma, per provare a rimettere l’esuberanza salviniana in un progetto logico. Un richiamo al realismo di un accordo: alla Lega l’incarico di governo, a Forza Italia la presidenza del Senato. Carica, quest’ultima da non sottovalutare, essendo la seconda dopo il Presidente, e la guida della più incerta delle ali del Parlamento, dove le maggioranze sono più ristrette e dunque più decisive. Come mai questo ovvio accordo fra alleati non fosse stato definito finora, è una domanda superflua. La matematica anche in politica è una scienza esatta: un Salvini in uscita dalla coalizione con Forza Italia, per fare un governo con i Cinquestelle sarebbe stato il leader di una forza politica del 18 per cento che si univa a una forza politica con il 33 per cento. Un progetto suicida per se stesso e per tutta la destra. L’accordo con i Cinquestelle era dunque, dopotutto, solo un po’ di scena, da parte di Salvini, per spingere la coalizione ad assicurargli l’incarico di fare il governo. E per rendere nullo ogni accordo fin qui fatto tra Lega e Pentastellati non è stato nemmeno necessario fare una telefonata o mandare una nota: per Di Maio una cosa è giocare con Salvini, altro è allearsi con Berlusconi. L’intesa che doveva sconvolgere l’Italia si è rivelata alla fine solo un classico «teatrino» politico. Potremmo persino felicitarci per questa lezione di realismo che scuote tutti ancora prima dell’insediamento del nuovo Parlamento. Se non fosse che ora sul tavolo non rimane uno straccio di idea su future maggioranze. Il Pd ex partito di governo oggi disorientato, diviso, è senza una strategia. Certo non gli sarà facile accodarsi a un centrodestra unito; d’altra parte non è nemmeno pronto a costruire un rapporto con l’acerrimo nemico M5S. In ogni caso, la lacerazione interna, dopo la sconfitta, lo tira su aree politiche opposte. Gli M5S che finora pensavano di poter giocare usando i due forni, la Lega e il Pd, magari mettendoli su piani di competizione, oggi si ritrovano a dover cambiare del tutto schema. Se il voto per le presidenze di Camera e Senato che inizia stamattina vedrà un centrodestra compatto sul nome di Romani, come è stato detto ieri sera dopo il vertice dei capigruppo, la destra sarà l’unica area con una strategia chiara. Se c’è un incrocio dove nei prossimi giorni ogni accordo sarà fatto o disfatto, questo è l’incrocio fra piazza Venezia e via del Plebiscito, dove si erge Palazzo Grazioli, da anni casa del Cavaliere. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2018/03/23/cultura/opinioni/editoriali/silvio-mette-in-trappola-i-due-vincitori-D12vYIik5jSide3eyeEXxM/pagina.html
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« Risposta #263 inserito:: Marzo 30, 2018, 04:50:43 pm » |
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IL BLOG Metodo Salvini Predicare al "fuori" della politica, riversando poi il peso di questo voto di opinione sul "dentro" del circuito politico. Questa è la differenza tra populismo e politica 24/03/2018 20:14 CET | Aggiornato 27 minuti fa Tempo di battezzare una nuova categoria della politica: il Salvinismo, cioè il metodo con cui Matteo S. sblocca le situazioni a suo favore. Un misto di forzatura, calcolo, imprevedibilità e azzardo – che ne ha fatto il protagonista di questo primo round post elettorale, la elezione dei Presidenti di Senato e Camera. Il metodo, dunque. Salvini si è trovato spinto dai risultati delle urne elettorali nella posizione scomoda che conosciamo: essere il primo partito, con il 18 per cento, in una coalizione del 37 per cento, ancora dominata dal prestigio e dalla macchina politico economica di Silvio Berlusconi, leader in calo di consensi, di freschezza anagrafica, ma non di ambizioni. Posizione quasi insostenibile - rimanere potrebbe significare essere messo a balia da Silvio, uscire significherebbe diventare il leader di un partitino del 18 per cento, con unica possibilità quella di diventare partner di un Cinque Stelle con il 33. Una cosa alla Fini, insomma, come gli è stato spesso ricordato. Il Cavaliere, e il suo apparato, in queste prime due settimane dopo il voto, non hanno mancato di far sentire il proprio peso, ricordando la forza di Silvio, i suoi poteri. Richiamandolo insomma alla realtà. E proponendogli lo scambio fra il ruolo (al di là da venire) di rappresentante del centrodestra alle consultazioni (con un occhio all'incarico per formare il governo) e la Presidenza del Senato a un uomo di strettissima fiducia di Silvio, Paolo Romani, molto sgradito ai cinque stelle. Insomma lo scambio fra una leadership futura e l'oggi di una nomina, quella di Romani, sgradita ai Cinque Stelle, potenziali alleati di Salvini. Un incrocio che solo 48 ore sembrava aver reso ancora più scomoda la posizione del leader leghista. E qui rientriamo sul metodo Salvini. Nelle categorie tradizionale della politica esiste la regola per cui la leadership di un'area politica, dopo un voto, la si consolida, stabilisci contatti, apri discussioni, proponi alleanze e piani. Entri insomma dentro le dinamiche di questa area, e provi a stabilizzarle a tuo favore. Salvini invece ha fatto il contrario: ne è uscito fuori. Con dichiarazioni pubbliche ha ribaltato lo schema, rifiutando Romani, così da dare soddisfazione alle richieste M5s (e ottenerne i voti), e dando conto alla pubblica opinione di quello che faceva, con un indovinato refrain politico di fedeltà al centrodestra "Noi non chiediamo poltrone per noi: stiamo solo mettendo alla prova il M5S, che fin qui ha rifiutato Romani, e lavorando a raggiungere l'obiettivo che Berlusconi vuole, la presidenza del Senato a uno dei suoi". Una sorta di "disobbedire obbedendo", o viceversa. Ci sono voluti, ovviamente, più passaggi per portare al termine l'operazione sui nomi finali ma l'operazione ha mantenuto il metodo: tutto in chiaro sotto le luci delle Tv e davanti ai taccuini dei giornalisti. Che è, poi, il metodo praticato da Matteo fin dalla sua entrata in scena: rivolgersi, nel corso di una campagna politica permanente, al voto di opinione, predicare cioè al "fuori" della politica, riversando poi il peso di questo voto di opinione sul "dentro" del circuito politico. Infatti, anche questa volta, dopo l'apertura delle urne è ripartito per una coda di tour elettorale, invece di sedersi a tavoli, o caminetti. Facendo montare il suo consenso pubblico, allargando il suo perimetro a vere e proprie trattative con i pentastellati mentre Silvio Berlusconi li attaccava. E quando gli accordi su chi votare alle presidenze si sono avviati, li ha virtualmente condotti tutti fuori dalle mura di Palazzo Grazioli. Il risultato finale ha un doppio e forse triplo segno per tutti i protagonisti: Forza Italia ha avuto al Senato, come aveva chiesto, una berlusconiana di ferro, ma il Cavaliere ha subito un bel taglio di unghie. I Pentastellati, come volevano, hanno ottenuto la cancellazione di Romani e alla Camera hanno eletto Fico. Ma le prove d'amore di Salvini hanno avuto il caro prezzo di ridurli al traino di quel che succedeva dentro il centrodestra. Una sminuizione di ruolo. Ovviamente, come sempre in politica, nel risultato finale c'è da valutare che prezzo futuro avrà per Salvini la disponibilità dei Pentastellati a seguirlo; e, va presa in considerazione la possibilità che Silvio Berlusconi più che ridimensionato, sia stato complice del percorso. Qualunque sia il retroscena, oggi il leader leghista può dire di aver guadagnato per sè e per la sua coalizione la posizione migliore per l'incarico al centrodestra, quando inizieranno le consultazioni. Dimostrando, anche, che il centro destra è oggi l'area, e l'arena dentro cui si stanno decidendo i giochi. che la partita delle leadership tra Lega e Forza Italia è il motore che può sbloccare una situazione di governo, per ora inchiodata. E, infine, che il cosiddetto metodo Salvini altro non è che la differenza tra il populismo e la politica. Da - https://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/metodo-salvini_a_23394427/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #264 inserito:: Aprile 13, 2018, 04:11:19 pm » |
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IL BLOG 12/04/2018 22:59 CEST | Aggiornato 2 ore fa Di Maio come Zuckerberg Il leader M5s, Salvini, Berlusconi, il Pd: a sei settimane dal voto possiamo dire che un giro vero di vincitori e vinti cominciamo a vederlo. Lucia Annunziata Direttore, Huffpost Italia Livido, deluso e arrogante. Il gran fallimento della seconda giornata di consultazioni ci svela il vero volto di Di Maio. Spettacolo ultraterreno vedere quel viso levigato, impassibile sotto ogni pressione, quella fronte senza mai una ruga di fatica, cedere sotto la umanissima mazzata della delusione. Sembra un po' di rivedere la stessa trasformazione che ha attraversato poche ore prima, oltreoceano, un altro trentenne di successo, Mark Zuckerberg, la cui immacolata immagine di sicurezza si è sciolta nelle gocce di sudore che hanno alla fine invaso la sua implacabile fronte, sotto lo sgarbato interrogatorio del Congresso americano. Capita ai giovani leader quando escono dal terreno di sicurezza che si sono costruiti intorno. Nulla di male. Son giovani e si faranno. Le loro debolezze non gli fanno male sul piano personale. Quello che ci riguarda è invece che il nuovo Di Maio, nell'ora della sua difficoltà, ci ha anche rivelato la debolezza e la supponenza etica che si celano dietro il teorema politico su cui si sono mossi i 5 Stelle in questo periodo. Abbandonato da Salvini, irriso da Silvio Berlusconi, anche di fronte alle macerie in cui un anziano leader ha ridotto l'attento piano di arrivare a palazzo Chigi, Luigi Di Maio si presenta sulla tribuna del Quirinale e non fa un minimo di autocritica. Ripropone i propri mirabili sforzi, la propria giustezza, e ancora ha la forza di dare ordini e condanne a tutti. "Berlusconi deve fare un passo di lato", "la posizione di Salvini non la comprendo", "il Pd è fermo su posizioni che non aiutano". A che titolo gli altri debbano fare quello che lui dice loro si fa finalmente chiaro nell'affanno del momento. I pentastellati sono i possessori unici del diritto morale nella terra della politica. Per cui ognuno deve fare quello che loro vogliono, se vogliono essere salvati. Che è poi il vero pensiero accuratamente nascosto della presenza politica dei 5 Stelle. È proprio infatti con la stizza da predicatore stufo dei suoi peccatori che Di Maio chiude con secchezza il discorso e se ne va. Lasciando il povero elettore che lo segue da casa senza un straccio di proposta per la sua resurrezione, per non parlare del futuro prossimo. Eppure, bastava che Di Maio, o chi per lui, facesse meno giochi, avesse un minor alto senso di sé, e forse avrebbe capito che è difficile mettere qualcuno nel sacco in politica. La politica essendo il posto dove si scaricano, in generale, tutti i più competitivi e furbi del pianeta. In politica valgono reti di rapporti seri, costruzioni di relazioni non strumentali, e concretezza. Ma i pentastellati si sentono al di sopra di queste cose. In questo senso sembrano già Renzi senza nemmeno essere andati a palazzo Chigi. E infatti alla fine sono stati messi nel sacco proprio da colui che è il più resistente inquilino della politica, nonché il più furbo dei furbi, Silvio Berlusconi. Un Silvio doc che esercitando la sua forza di trattativa in privato e accennando qualche mossa da cabaret in pubblico ha in un colpo solo distrutto il piano "dei due vincitori", ha sminuito Di Maio, ha convinto Salvini a stare nel centrodestra, dandogli il diritto all'incarico, e si è intestato una leadership moderata e rassicurante sulla politica estera in un momento in cui il Quirinale ha bisogno di ogni possibile aiuto per formare un governo che appaia solido a sufficienza da reggere i tremori delle esplosioni in Siria. Anche questa nel centrodestra è stata una molto dovuta operazione chiarezza. Sul Pd invece non c'era da far chiarezza perché la inadeguatezza dell'organizzazione è stata alla luce del sole per tutto questo mese post elettorale: oggi alle consultazioni questa assenza di iniziativa è stata solo confermata dalla catatonica fibra delle dichiarazioni della delegazione. L'unica verità che luccicava, dietro le solite parole di ragionevole necessità di "dare al più presto un governo al paese" è che il Pd oggi ha un'unica speranza: quello di essere la plastilina in mano a Mattarella. A sei settimane dal voto possiamo dire che un giro vero di vincitori e vinti cominciamo a vederlo. Da - https://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/di-maio-come-zuckerberg_a_23409987/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #265 inserito:: Aprile 25, 2018, 04:15:39 pm » |
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IL BLOG 24/04/2018 20:25 CEST | Aggiornato 2 ore fa Non ci credo Un Governo fra 5 Stelle e Pd, nonostante le prime buone intenzioni, rimane poco fattibile Lucia Annunziata Direttore, Huffpost Italia In effetti, a meno di essere estremamente ottimista (ma molti dentro il Pd sostengono che il presidente sia incline all'ottimismo quando si parla del Pd), è molto improbabile che un partito che ancora non ha trovato una versione comune su cosa sia successo il 4 dicembre 2016 (la sconfitta del referendum), e il 4 marzo 2018 (le elezioni nazionali), e il cui segretario è dimissionario ma non sostituito (l'assemblea che doveva decidere sulla successione il 21 di questo mese è stata spostata a data da definire), riesca a decidere addirittura su una alleanza di peso quale quella che gli viene richiesta in questo momento. E forse non ci crede, sotto sotto, nemmeno lo stesso presidente che ha dato a Roberto Fico, per esplorare la possibilità di fare un Governo fra i 5 Stelle e il Pd, sole 72 ore. Tempo maledettamente breve se si considera che le esplorazioni per un Governo centrodestra-M5S hanno avuto tre settimane. Anche questo ultimo giro di consultazioni sembra dunque parte di quegli "atti dovuti", da fare e mettere nello scaffale, dove finiscono "tutti i tentativi espletati". Ma se anche questo ultimo giro fallisse, cosa avremmo davanti? Davvero siamo destinati a un Governo del presidente? Non necessariamente. Al di là dei fallimenti formali, l'unico "forno" che ha davvero funzionato è stato proprio quello del Colle, che con la sua lentezza ha bruciato tutte le scorie della varie finzioni, facendo emergere il quadro reale. A 50 giorni dall'apertura delle urne abbiamo così molti più elementi di conoscenza sul posizionamento e sulle intenzioni di tutti i protagonisti di questo semi-dramma. Silvio Berlusconi è forse il leader che ha più perso in queste settimane. Consacrato dalle urne moderato di reputazione internazionale, reinventato in questo suo ruolo dalla necessità delle istituzioni politiche di trovare un garante, un'alternativa, al sovranista Matteo Salvini, il leader di Forza Italia è stato reinghiottito dalla sua storia. Dopo essere stato umiliato dalla più umiliante delle trattative - la richiesta della sua testa come condizione per la creazione di un nuovo governo – Silvio è stato raggiunto dalla più antica delle ombre sulla sua reputazione, il rapporto con la mafia, dopo la sentenza di condanna in primo grado a Marcello Dell'Utri sulla Trattativa Stato-Mafia. 50 giorni dopo Silvio è più debole di prima. Matteo Salvini, proprio grazie all'indebolimento del suo partner, si è sempre più convinto che la sua leadership non passi per una rottura con Forza Italia. Al contrario, mai come oggi, il centrodestra è una prateria aperta alla sua conquista. La permanente incertezza di Forza Italia rende ormai molto possibile, oltre che probabile, che i voti e gli eletti del partito di Silvio individuino in lui il leader di un nuovo centrodestra unito. Altro che rompere per unirsi ai 5 Stelle. Matteo Renzi, di cui si parla poco, è in realtà già rientrato nel gioco. Il segnale del suo rientro dall'Aventino, su cui per altro non è mai davvero salito, si è avuto il giorno in cui ha spostato l'assemblea ( convocata per sabato scorso, 21 aprile) che avrebbe dovuto nominare il suo successore o deciso il percorso per scegliere il suo successore. Spostamento a data da definire – il che vuol dire che un Renzi non sostituito è ancora il segretario sia pur dimissionario, e che qualunque processo ripassa per lui. La partita che ha avviato non sembra difficile da capire: piegare i 5 Stelle. Gli serve intanto per vendicare quella dignità politica che i 5 Stelle hanno ferito nel corso di una lunghissima campagna contro la sua persona oltre che contro il suo Governo: quando Di Maio avrà bisogno di lui per decidere su un governo con il Pd Renzi gli dirà, come già si capisce "solo se tu non sei il premier". L'umiliazione di Luigi Di Maio è però anche funzionale per il futuro posizionamento dell'(ancora non) ex segretario Pd. Un partito già oggi lacerato uscirà ancora più diviso da questa scelta o meno di Governo con M5S. Ma il collasso dell'unità avrà fatto chiarezza e liberato Renzi, permettendogli di collocarsi su diverse basi: il declino di Forza Italia su cui opererà Salvini sarà un terremoto interno alla destra che lascerà in libertà voti di forzisti che non condividono il sovranismo e che cercano, per amore o per forza, una via d'uscita moderata. Esattamente l'uscita su cui si collocherà Matteo Renzi, con il Pd o con il famoso partito tutto suo. La direzione convocata dopo le esplorazioni potrebbe dare già una indicazione sulla praticabilità o meno di questo percorso di Renzi. Luigi Di Maio, nonostante il suo clamoroso 33 per cento, è diventato oggi l'anello più debole di questa catena di reazioni e controreazioni innescata dalle consultazioni. È il più debole perchè in trattative in cui ognuno dei leader ha varie opzioni, si è fidato, si è limitato, e si è fissato su un unico gioco: essere il premier. Ambizione giusta e peraltro dovuta, visto il risultato delle urne. Ma nelle fluidità delle relazioni politiche attuali, la fissità del suo percorso ha fatto di lui un facile obiettivo da abbattere – l'unico a testa emersa in un gioco di trincee dove tutti stanno coperti. È bastato dire no a questa condizione, come ha fatto Salvini, e come intende fare Renzi, per distruggere la sua posizione. Di Maio pare aver peccato di ingenuità nonostante l'aria di politico adulto che mostra: si è fidato di Salvini e rischia ora di fidarsi di Renzi ed è probabile che si tornerà a fidare di Salvini. I pentastellati, e Di Maio, cominceranno a sapersi affermare quando ammetteranno, innanzitutto a se stessi, che il Governo, lo Stato, la politica sono elementi complessi. Cosa questo significhi, se mi si permette una piccola digressione, è rappresentato dalla foto di Roberto Fico che va a piedi al Quirinale, in un'ottima scelta di semplicità che diventa, nella realtà, una scelta disfunzionale, come ha ben colto su Repubblica Sergio Rizzo. Misure, alleanze, passaggi, è l'itinerario che i pentastellati dovranno percorrere – senza diventare venduti al sistema – per diventare forza di governo. Un vero calvario per certi versi, ma necessario. ***************** Essere nei panni di Mattarella in questi giorni deve essere molto difficile. Come si vede, i partiti oggi già non sono quelli del 5 marzo mattina. Ma il problema, l'intoppo, il busillis direbbe Totò, è che tutte queste trasformazioni non rilasciano comunque numeri sufficienti a nessuna alleanza. Nemmeno quella per un forte "Governo del presidente" su cui peseranno i rifiuti incrociati di tutti a cedere sovranità a qualunque altro leader o partito. Un'ultima opzione ci sarebbe: potrebbe accadere che, dopo un lungo giro, si torni indietro. Domenica prossima si sarà esaurito anche l'ultimo appuntamento elettorale del Friuli, e Matteo Salvini, con Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio a penne basse dopo tante smusate, potrà mettere infine in moto la sua macchina di conquista del centrodestra rilanciando un governo con i pentastellati. Di Maio e Salvini hanno vinto il voto popolare, hanno programmi comuni e sono compatibili l'uno con l'altro. È questa in fondo l'unica vera soluzione, sostenibile nei numeri e coerente con il risultato delle urne. Che poi questo governo piaccia o meno, è un altro discorso. Il voto rimane sovrano. E la democrazia italiana non è così fragile, come si è visto nella forza e nell'ostinazione di queste consultazioni, da non permettere una vigorosa opposizione. Da - https://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/non-ci-credo_a_23419165/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #266 inserito:: Giugno 09, 2018, 06:18:41 pm » |
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Il Corriere, Lucia Annunziata e il piano B del ministro Savona 'in busta chiusa' Il quotidiano milanese ricostruisce una speculazione sui titoli italiani seguita alla pubblicazione sull'HuffPost del famoso piano per uscire dall'euro da cui sono cominciati i guai finanziari degli ultimi giorni 09 giugno 2018, 17:26 “Oggi il Corriere della Sera pubblica un pezzo a firma Federico Fubini che sostiene che un fondo inglese avrebbe organizzato una speculazione scommettendo sulla crisi italiana dovuta a un eventuale uscita dall'euro. Questa operazione, sostiene il Corriere, sarebbe avvenuta anche grazie alla pubblicazione della prima bozza del contratto di governo Lega-5 stelle che conteneva, per l'appunto, elementi del cosiddetto "piano b", pervenuta in una busta anonima all'HuffPost”. Sono le 11,45 quando Lucia Annunziata, direttrice dell’HuffPost, pubblica sul suo sito una breve replica, in risposta ad un articolo uscito sul Corriere della Sera. Articolo di una grande firma del quotidiano milanese, Federico Fubini, in cui in sostanza si ipotizza che il famoso ‘piano b’ degli economisti vicini a Paolo Savona (uscito nei giorni finali delle trattative tra Lega e M5s per la formazione del governo) sia stato inviato al sito della Annunziata per farlo uscire e dare il via ad un attacco speculativo contro l’Italia. Scrive Fubini: "Chissà se quella mano anonima davanti alla buca delle lettere era consapevole delle conseguenze: quelle per il Paese e anche quelle per gli investitori che ne seguivano gli sviluppi. Il crollo del mercato italiano ha già cancellato circa 400 miliardi di valore in azioni e obbligazioni pubbliche o private. Almeno i due terzi di queste perdite sono a carico di cittadini italiani. E se c’è un momento in cui tutto è iniziato, a giudicare dal grafico di mercato qui accanto, è il giorno e l’ora della lettera allo «Huffington Post Italia». Il momento di martedì 15 maggio nel quale qualcuno fa trovare una busta anonima con dentro una bozza del «contratto di governo» M5s-Lega alla sede della testata diretta da Lucia Annunziata. Così ricostruisce sulla «Stampa», mai smentito, un editorialista amico di Annunziata quale Francesco Bei". Il testo affidato all’Huffington Post, aggiunge il Corriere, contiene due proposte che hanno tutto per destabilizzare la fiducia degli investitori verso l’Italia: “L’opzione di uscire dall’euro e l’intenzione di azzerare il valore dei titoli di Stato comprati nel piano di interventi della Banca centrale europea. Ovvio che conseguenze non potessero tardare. Poco importa che nelle versioni successive del «contratto» quelle due proposte scompaiano: gli investitori sanno che i vertici di M5s e Lega hanno potuto concepire quelle idee - default e uscire dall’euro - dunque temono che prima o poi esse riemergano. La fiducia è una porcellana cinese difficile da ricomporre, una volta finita in pezzi. Da allora il mercato precipita. Il 22 maggio ha già bruciato circa 200 miliardi, di cui una sessantina in titoli di Stato a scadenza medio-lunga. Il 29 maggio il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni, che si muove in senso opposto ai prezzi, è ormai esploso al 3,16% quando era all’1,95% subito prima che quell’anonimo si presentasse allo «Huffington Post». Il differenziale fra titoli biennali tedeschi e italiani, appena allo 0,40% prima, arriva a toccare il 3,55%. La distruzione di risparmio per il 75% di debito pubblico detenuto da italiani (anche tramite fondi esteri) è enorme”. Sul Corriere (leggi qui l’articolo integrale) si racconta poi per filo e per segno la storia di un fondo inglese che nei giorni successivi ha segnato un rendimento superiore del 200% superiore a quello registrato negli ultimi 5 anni. Aggiunge Lucia Annunziata nella sua replica: “Il tono e il contenuto dell'articolo del Corriere fa supporre che l'HuffPost abbia pubblicato un documento senza conoscerne le fonti prestandosi dunque a essere uno strumento di un complotto ai danni dell'Italia. Peccato che questa parte della ricostruzione sia fantasiosa. Il documento di 39 pagine è arrivato effettivamente in una busta chiusa e anonima, come è logico che sia trattandosi di documenti riservati, ma la fonte era conosciuta da me, di grande reputazione e l'arrivo del documento in quella forma e modalità era stato concordato. Per avere queste informazioni, bastava farmi una telefonata, caro Fubini. Speriamo che il Corriere continui a indagare su questo presunto complotto ai danni del Paese”. La direttrice ha chiuso così: "Per quanto mi riguarda sono disponibile a rendere conto del mio operato, portando tutte le prove della veridicità di quanto scrivo, nelle sedi in cui eventualmente mi sarà richiesto". Da - https://www.agi.it/politica/piano_b_savona_corriere_huffpost_lucia_annunziata-4012379/news/2018-06-09/
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« Risposta #267 inserito:: Ottobre 06, 2018, 12:37:27 pm » |
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Confessione di una deficiente.
di Lucia Annunziata
Confesso, sono una deficiente. Pur avendo questo giornale scoperto il piano B del primo accordo di governo, l'ho poi lasciato da parte, cullata lentamente in uno stato di semicosciente ottimismo, perché poi, alla fine, chi mai davvero potrebbe esporre il paese alla destabilizzazione politica? Una cosa sono le idee altro è la responsabilità di governo, mi sono ripetuta. In fondo quale politico accetterebbe mai di giocare a carte con il Destino del Popolo in nome del Popolo? Non lo avevo messo in conto. Questo azzardo non l'ho visto arrivare perché era sempre stato lì, nello stesso atto fondativo della coalizione di governo. Il Def, presentato ieri da Luigi Di Maio (con tutti i mezzucci comunicativi di un partito che della comunicazione ha fatto il suo unico Dio), e definito come l'abolizione della povertà, è solo una povera misura elettorale.
L'asticella del deficit al 2.4, per i prossimi tre anni, non è infatti una manovra e nemmeno una proposta di manovra. E' solo una sbruffonata, inaccettabile non tanto dall'Europa e dai mercati quanto, e innanzitutto, dai portafogli degli Italiani. E' la bizzarra proposta di indebitare ulteriormente una famiglia che non riesce a liberarsi dei debiti. Difficilmente il modo per combattere la povertà. Sono tutte cose queste di cui gli economisti discutono da tempo, e che lo stesso Di Maio (che deficiente non è) conosce bene. Il suo Def è in realtà un mezzo per intraprendere un altro percorso, in base al quale l'Italia starà meglio solo se viene esposta oggi a un grande scontro: lo scontro frontale con l'Europa per ottenerne o le proprie condizioni (il 2.4) o lasciarla. E' il piano B, appunto, che era in quella prima versione del contratto di governo, che, scoperto, fu cancellato. L'idea dello scontro per liberarsi dai lacci europei venne attribuita allora soprattutto all'anima sovranista della Lega. Lo scossa che si avvertì mise in dubbio persino la formazione del governo, e il professor Savona non divenne Ministro del Tesoro.
Di Maio in quelle ore si presentò invece come il paladino della continuità, l'interlocutore delle istituzioni, il contro bilanciamento di Salvini. E siccome tutti crediamo solo alle cose in cui vogliamo credere, tutti gli credemmo, dimenticando l'originaria piattaforma dei Pentastellati a favore dell'uscita dall'Euro. L'obiettivo, invece, è rimasto lì – la rottura con la Ue come elemento palingenetico di una sovranità nazionale, di una nuova economia, e di un nuovo popolo. Il Def presentato, con i suoi numeri gonfiati, è l'avvio di questa rottura, anzi il mezzo scelto per "creare" in vitro il Cigno nero, l'evento imprevisto con cui giustificare l'avvio del conflitto. Il discorso di ieri di Luigi di Maio davanti a Palazzo Chigi è dunque una dichiarazione di guerra, nemmeno tanto mascherata.
Che apre per il paese due scenari. Il primo punta sull'effetto too big to fail : l'Italia è un paese troppo grande per potere essere davvero punita. In particolare da una Unione Europea molto indebolita ridotta a una collezione di Stati mai così disuniti. Il cosiddetto motore dell'Europa è imballato; Macron e Merkel per diverse ragioni avvitati in una spirale discendente, l'Inghilterra fuori, e buona parte dell'Europa dell'Est in ribellione. La disaffezione e il sovranismo sono galoppanti. Insomma l'Europa è in condizioni tali da poter essere sfidata, con una possibilità di vittoria – e in questo caso forse lo sfondamento del livello di deficit potrebbe accontentarsi di una messa a cuccia dei poteri deboli europei.
Il secondo scenario ci porta invece alla esposizione "senza se e senza ma" alla reazione dura dell'Europa, e dei mercati che, a differenza della politica, vivono e ingrassano nelle crisi. Nel qual caso, si tratterà di una "vera guerra" come avrebbe detto oggi il Professor Savona a un think tank, "ll nodo di Gordio". In entrambi i casi siamo entrati ieri in una nuova fase in cui nessuna opzione sarà indolore. Il valore dei nostri risparmi, delle nostre case e delle nostre pensioni si abbasseranno. La manovra di Luigi di Maio si rivelerà una specie di commedia dell'arte con un Pantalone che con una mano dà e con l'altra toglie.
Ma c'è terzo scenario, peggiore. Qualcun infatti dovrebbe ricordare a Palazzo Chigi che il discorso sulla debolezza dell'Europa ha fatto il suo tempo. Nelle istituzioni europee da tempo la fragilità del sistema ha convinto molti leader a cominciare a pensare a un modello nuovo, fondato sulla accettazione della fine di una Europa unita e paritaria. C'è già al lavoro nei fatti lo sviluppo di doppie e triple velocità istituzionali, e persino abbandoni. Basta osservare la Brexit e alle delusioni di quella Gran Bretagna che ha guardato con sufficienza alla debolezza europea e ha sopravvalutato la propria forza negoziale. Salvo trovarsi poi davanti a un conto miliardario da pagare presentatogli dalla Ue che si è impuntata contro ogni mediazione, ribaltando la sua crisi in una crisi interna degli stessi Tory. O pensa la coalizione gialloverde che alla fine della guerra saranno capaci anche di non pagare nessun prezzo all'addio dell'Europa? Se dobbiamo misurare dai festeggiamenti in piazza ieri sera, Palazzo Chigi non ha nessuna paura. E perché averla dopotutto? Nell'attesa della guerra, la decisione presa è per la coalizione comunque win- win.
Qualunque sarà lo scenario Luigi di Maio potrà tessere nei prossimi mesi la narrazione che già da tempo è diventata la colla che tiene insieme questa fragile coalizione. Potrà sempre dire, "Vedete, noi siamo con voi, vi abbiamo dato tutto, vi abbiamo liberato dalla povertà. Ma i poteri forti, il grande capitale, quei burocrati dei ministeri, quei giornalisti venduti, quei giudici che si sono messi a servire la politica invece di affiancare il popolo, ci hanno fermato". Una narrativa perfetta per sostenere la prossima campagna per le europee, alimentando il risentimento del Popolo e fare il pieno di voti alle prossime europee. Una soluzione perfetta. Sempre che Salvini, che per ora segue lo schema, non metta in campo i suoi, di interessi. E sempre ammesso che le fake news dei 5 stelle, le caleidoscopiche balle create per fomentare questa narrazione, non vengano erose dalla realtà. Perché dopotutto io sono una deficiente, ma il popolo italiano ha sempre dato prova di non esserlo.
Da Fb del 29 settembre 2018
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