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Autore Discussione: Angelo De Mattia - Chi vuole affossare la «class action»  (Letto 2736 volte)
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« inserito:: Dicembre 02, 2007, 07:04:44 pm »

Chi vuole affossare la «class action»



Oltre cento emendamenti potranno essere discussi alla Camera sulla class action. Tra di essi, diversi dovranno essere attentamente valutati perché contengono proposte non infondate.
A ben vedere, ci sono due modi per tentare di affossare la normativa, approvata dal Senato, che introduce la class action. Il primo, sostenuto dalle componenti più arroccate del mondo imprenditoriale, con sponde in quello politico di minoranza, è riuscire a ottenere lo stralcio dalla Finanziaria di questa disciplina, vista addirittura come una clava anticapitalistica, magari motivando l’operazione con la necessità di radicali riforme e, comunque, con la inadeguatezza del veicolo legislativo. Il secondo consiste nell’accettare, obtorto collo, l’ipotesi di una legge in materia, sostenendo però che occorre una nutritissima serie di modifiche le quali, alla fine, queste sì, creerebbero un monstrum giuridico, di assai dubbia efficacia. Non rientrano in questo novero alcuni intelligenti emendamenti a cui prima ho fatto cenno e, certamente, nemmeno quelli, rigorosi e coerenti, che il governo si accingerebbe a presentare, sui quali si ritornerà quando saranno pubblicati. Ma vi rientra la previsione di un preventivo giudizio del magistrato sulla opportunità della class action nella fattispecie concreta.

Dunque, non una pronuncia - filtro sulla procedibilità dell’azione collettiva sulla base di parametri predefiniti in sede normativa - cosa senz’altro necessaria per evitare iniziative pretestuose o temerarie - ma un non meglio precisato provvedimento, impregnato di discrezionalità, sulla idoneità e, addirittura, sulla opportunità della class action. Anche l’idea di inserire la pubblica amministrazione tra i soggetti passivi dell’azione legale, giusta in via di principio, poiché deve fare i conti con l’impianto della ricorribilità degli atti del settore pubblico e con la relativa architettura giurisdizionale alla cui base è la tutela non di diritti ma di interessi legittimi, rischia o di allungare i tempi del necessario approfondimento, o di fabbricare una norma inadeguata. Se ne potrebbe utilmente parlare in un secondo momento. Altre posizioni, pure esse espressione del mondo confindustriale, vorrebbero distinguere tra categorie di beni e di servizi e, conseguentemente, ammettere o negare la proponibilità dell’azione nei confronti delle corrispondenti imprese.

Entrambe le linee contro la class action vengono fatte assurgere, dai massimi esponenti confindustriali, addirittura a cartina di tornasole della ininfluenza delle cosiddette forze estreme o marginali sulla politica del governo: diversamente, si daranno «forti ragioni a chi chiede di cambiare musica e orchestra», come ha dichiarato Montezemolo, il quale ha nuovamente parlato dell’azione collettiva, nel testo approvato a Palazzo Madama, come di un istituto contrario all’interesse del paese.

Poiché questa tesi è infondata - essendo in via di principio la class action un avanzato strumento di democrazia economica che riequilibra i rapporti tra imprese e consumatori, questi ultimi contraenti deboli, ed è suscettibile di aprire una fase nuova di trasparenza e competitività - sarebbe singolare se le richieste sopra riportate, esse sì estremiste, fossero accolte. Che il testo pervenuto a Montecitorio debba essere ben emendato e migliorato, non v’è dubbio. Su l’Unità se ne è scritto in momenti non sospetti, prospettando le parti da modificare. Ma gli emendamenti da apportare si concentrano su punti fondamentali, che vanno dalla previsione di una corretta pronuncia-filtro del magistrato (non certo sulla opportunità) alla più adeguata individuazione dei soggetti che possono proporre l’azione, alla possibile abolizione, per questa materia, del patto di quota-lite, alla migliore definizione del rapporto tra pronuncia di condanna e risarcimento dei danni, all’inglobamento nella azione di categoria anche delle cause minori. Anziché, come vorrebbero alcuni, eliminare la nullità dei contratti, ora contemplata dal testo del Senato, stipulati a seguito di pubblicità ingannevole, la si potrebbe sostituire con la previsione della annullabilità.

Aspetti tecnico-giuridici o più strettamente processuali potrebbero essere meglio messi a punto con normative secondarie. Anzi, data la complessità, si potrebbe ricorrere allo strumento della delega fissando, per alcune materie, principi e criteri direttivi per l’emanazione, da parte del governo, di un decreto legislativo entro tempi ristretti, sentite le commissioni parlamentari competenti. Ma, come è stato giustamente detto, entro il 31 dicembre, pur con i più ampi termini della delega, l’Italia deve essere annoverata tra i paesi - nessuno dei quali ha un’economia collettivista - in cui è in vigore la class action, senza che alcuno, a maggior ragione se esponente del sistema imprenditoriale, abbia mai ritenuto che una legge del genere sia una clava contro l’interesse nazionale: magari dopo essersi salvata l’anima affermando che la class action è fondamentale in un paese moderno, ma non la si può mettere in piedi in 24 ore, con uno schema logico che ricorda l’albero di Bertoldo.

Che cosa possano temere le imprese sane e corrette, se si previene adeguatamente - come è necessario - il rischio di azioni pretestuose, e se si definisce una normativa rispettosa della Costituzione a partire dall’articolo 24, è difficile capire. Sembra quasi che contro la class action si manifesti una reattività di parte imprenditoriale così dura - tanto da appaiare la materia al protocollo sul Welfare - che ricorda momenti di ben altra portata, come la nazionalizzazione delle imprese elettriche. Sarebbe una prova di effettiva compenetrazione con gli interessi nazionali che tutti lavorassero a rendere migliore, ma da approvare definitivamente entro l’anno, una normativa che, emendata, può costituire un passo in avanti di civiltà. Se si andrà al sodo, probabilmente anche il mondo imprenditoriale troverà, nelle modifiche da introdurre, ragioni di convergenza. In ogni caso, va fermamente evitato che il tutto finisca a coda di pesce (desinit in piscem, come dicevano i Romani).
Gli utenti, i consumatori, i risparmiatori, sanno, debbono sapere, che non di una astratta querelle si tratta, ma di una sensibile innovazione capace di migliorare il loro potere negoziale.

Le imprese, da una normativa del genere, potranno trarre la spinta per una maggiore capacità di competere, per un miglioramento della qualità dei prodotti, per una più diffusa trasparenza, per una più forte attenzione alla clientela.

Pubblicato il: 02.12.07
Modificato il: 02.12.07 alle ore 14.44   
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