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Autore Discussione: Glauco Mauri, l'etica del palcoscenico "In sala non cerco applausi ma silenzi"  (Letto 2554 volte)
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« inserito:: Novembre 20, 2007, 06:50:16 pm »

SPETTACOLI & CULTURA

Il "grande vecchio" del teatro italiano racconta il suo mestiere come una missione

"Voglio che la gente esca dalla sala più ricca di umanità e di punti interrogativi"

Glauco Mauri, l'etica del palcoscenico "In sala non cerco applausi ma silenzi"

Nei teatri di tutta Italia con "Faust. Un grande gioco molto serio"

Con lui Roberto Sturno, con il quale anima da più di vent'anni la Compagnia Mauri-Sturno

di ALESSANDRA VITALI


GLAUCO Mauri è lo specchio di Faust. Questo, stipula un patto col diavolo "per vivere più a lungo possibile e provare le cose più alte e tenebrose che appartengono all'uomo, tutto il bene e tutto il male, convinto che nulla potrà mai renderlo sazio". Poi però capisce che "attimo fermati, ché sei bello" è quando l'uomo può essere d'aiuto all'uomo. Allo stesso modo, il grande vecchio del palcoscenico ha stipulato un patto col teatro, mai sazio delle emozioni che può muovere e della "gioia di poter trasmettere messaggi di grandi uomini ad altri uomini". Ha superato la soglia dei settant'anni con la passione e l'energia di un adolescente, Glauco Mauri, in scena da quasi sessant'anni da attore, autore, regista. Alla ricerca costante della qualità, della comunicazione col pubblico. In questi giorni (fino al 9 dicembre) è al Teatro Quirino di Roma con Faust. Un grande gioco molto serio. Poi sarà in tournée in tutta Italia.

Nel capolavoro goethiano è affiancato da Roberto Sturno con cui da oltre vent'anni anima la Compagnia Mauri-Sturno e condivide lo studio di testi "che possano arricchire di inquietudine e interrogativi chi viene a teatro".

Mauri, dopo tanti anni di palcoscenico, com'è cambiato il ruolo dell'uomo di teatro?
"Sono convinto che l'impegno di chi fa il mio mestiere debba essere non solo estetico ma etico, civile. Brecht diceva che tutte le arti contribuiscono all'arte più grande di tutte, quella del vivere. Il teatro è così".

Andare in scena diventa una responsabilità.
"Ma è proprio questo che, alla mia età, ancora mi fa felice. Raccontare, a uomini, favole scritte da altri uomini. Testi che oltre a 'fare spettacolo' facciano uscire il pubblico più ricco di umanità, e di punti interrogativi, di quando è entrato in sala".

Cos'è che cerca nel pubblico, quand'è che capisce che si è stabilito un dialogo?
"Mi fanno piacere gli applausi, ma di più i silenzi. Quelli del pubblico attento. I silenzi mi hanno aiutato a capire alcune cose di un testo o di una battuta, che avevo solo intuìto ma non compreso perfettamente".

Crede che il teatro riesca ancora a esercitare il suo fascino sul pubblico, in tempi di monopolio televisivo, cinematografico e di altri mezzi di intrattenimento?
"Ricorda la battuta di Eduardo, quando gli telefonò un funzionario Rai dicendo 'qui è la televisione' e lui rispose 'aspetti che le passo il frigorifero'? Ecco, lui l'aveva capito: oggi gli uomini parlano con le macchine. Il teatro invece è una forma di intrattenimento e comunicazione che gli uomini scambiano con altri uomini. Quello che si stabilisce col pubblico è un dialogo produttivo".

Per esempio, quando è successo?
"Facevo Re Lear. L'ultima scena, con Cordelia morta fra le braccia. Mi capita, a volte, di commuovermi veramente, ma controllo i miei sentimenti. A un certo punto mi accorgo che piangevo lacrime copiose. Mi sono chiesto: chi è che piange, Re Lear o Glauco? Ero commosso perché pensavo: in questo momento ho il meraviglioso dono di essere interprete e donare, a chi mi ascolta, quest'immensa poesia".

Veniamo alle note dolenti. Qual è lo stato di salute del teatro in Italia. Dal punto di vista economico, intendo.
"Di grande difficoltà. Lo Stato dovrebbe fare di più. Avvicinare l'Italia a Paesi come l'Inghilterra, la Francia. Al Quirino restiamo quattro settimane ed è un'eccezione, in genere si sta un paio di settimane, a Genova, poi, faccio sei recite. Difficile sopravvivere per una compagnia che non sia teatro stabile. La nostra è una compagnia privata, gestita da due attori, deve girare per forza l'Italia e i costi sono tremendi, basta pensare ai camion, ai trasportatori. I teatri, poi, più di tanto non possono pagare. Devi affrontare grandi spese, soprattutto se punti alla qualità".

Magari pochi giorni, però la sala è sempre piena.
"Ma questo ha poca importanza. Il teatro è trasmissione, quindi anche se in sala c'è pochissima gente, sono sicuro che una o più persone per le quali valga la pena fare bene questo lavoro, ci siano sempre. Il mio scopo è quello di far vibrare corde mai mosse, in quest'arpa immensa che abbiamo dentro di noi".

(19 novembre 2007)

da repubblica.it
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