Così stanno uccidendo la sanità pubblica.
Il Servizio sanitario nazionale compie quarant’anni, sempre più aggredito da tagli e privatizzazioni.
E mentre la fetta di Pil per gli ospedali sta scendendo sotto la soglia che garantisce l’accesso alle cure, le liste d’attesa si allungano, i giovani medici vengono sottopagati e gli infermieri sono costretti a turni di 16 ore
DI GLORIA RIVA
23 gennaio 2018
Quella mattina del 24 agosto Giuseppe Teori, ortopedico all’ospedale San Camillo de Lellis di Rieti, se la ricorda benissimo, anche se ha perso il conto dei volti scioccati che gli sono passati davanti. Su 240 barelle allineate c’erano i corpi martoriati degli abitanti di Amatrice. Lesioni, ferite di ogni tipo, fratture da schiacciamento. Nella notte, mentre dormivano, la terra aveva tremato e le case erano crollate su di loro. «È stato un miracolo», racconta l’ortopedico. Già, ma il miracolo l’hanno fatto soprattutto i 400 giovani medici accorsi da tutte le province del Lazio per salvare vite umane: «Molti di loro li conosco, è gente che da 16 anni tira avanti con un contratto a termine, sono giovani che prendono 100 euro per una guardia medica notturna o si accontentano di 20 euro e una pizza per fare il medico alla partita di pallone». E un altro miracolo, quel giorno, l’hanno fatto i macchinari dell’ospedale che una volta tanto non si sono inceppati, nonostante vent’anni di carriera e rattoppi continui, che spesso obbligano il dottore a ripetere più volte gli esami.
Quella dell’estate 2016 è stata una situazione straordinaria, estrema, in cui il Sistema sanitario nazionale ha dimostrato di essere all’altezza di una catastrofe. Ma poi ci sono poi i miracoli ordinari, nelle corsie d’Italia. Quelli che si fanno tutti i giorni da dieci anni, da quando è cominciato il mantra dei tagli: meno 70 mila posti letto, meno diecimila professionisti, meno 175 ospedali. Giovani medici precari, macchinari nell’83 per cento dei casi obsoleti. E vecchi primari: il 52 per cento dei camici bianchi ha più di 55 anni, record europeo.
Nel 2018 il Servizio sanitario nazionale compie quarant’anni. Fu istituito nel ‘78 (Tina Anselmi ministro della Sanità) con il compito non solo di curare la malattia, ma anche di prevenirla e di educare i cittadini alla salute. Un compleanno poco allegro. Perché proprio quest’anno, per la prima volta in assoluto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato l’allarme sulla sostenibilità del modello italiano.
La spesa sul Pil cala
Stando ai dati pubblicati dal Consiglio dei ministri nel Documento di economia e finanza, nel 2018 il rapporto tra la spesa sanitaria e la ricchezza prodotta nel Paese, cioè il Pil, scenderà a quota 6,5 per cento, soglia limite indicata dall’Oms. Sotto, non è più possibile garantire un’assistenza di qualità e neppure l’accesso alle cure, con una conseguente riduzione dell’aspettativa di vita. L’emergenza continuerà nel 2019, quando si scenderà al 6,4 per cento, per poi sprofondare al 6,3 nel 2020. «Fino al 2015 i tagli sembravano giustificati dalla crisi economica, ma anche adesso che abbiamo imboccato la ripresa il definanziamento è inarrestabile», dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, dove da anni si studia con analisi e report la sanità italiana.
Impietosa è la fotografia scattata dal Cergas, il centro studi dell’Università Bocconi di Milano, che ogni anno tasta il polso alla salute nel nostro Paese. «Il nostro è il sistema che costa meno in assoluto: con pochi soldi riusciamo ad avere livelli qualitativi di cure intensive simili a Francia e Germania. Ma stiamo ponendo una pesante ipoteca sul futuro, perché manca tutto il resto. Dopo l’ospedale, non c’è assistenza per gli anziani non autosufficienti, che oggi sono 2,8 milioni e tra 10 anni saranno 3 e mezzo. Non avendo altro posto dove stare, il 60 per cento di quelle persone continua a entrare e uscire dagli ospedali, ingolfandoli. E il carico dell’invecchiamento è sulle spalle delle famiglie, che non possono reggere oltre», spiega Francesco Longo, direttore del Cergas.
Liste d'attesa fuori controllo
Un segno tangibile dell’affanno del sistema sono le liste d’attesa fuori controllo. Qualche esempio? Tre mesi e mezzo per una visita oculistica a Milano, quasi quattro per una mammografia al Sud, dicono i numeri di Cittadinanza Attiva. Il risultato è che molti italiani “consumano meno sanità”, cioè spesso rinunciano: alle analisi, alla prevenzione, alle terapie. Dice l’Istat che il 6,5 per cento della popolazione ritarda o non si cura più.
Eppure qualcuno ce l’ha fatta ad affrontare il problema delle liste. Come l’Emilia Romagna, che ha usato la strategia del bastone e della carota. La carota sono i 15 milioni l’anno di incentivi alle aziende sanitarie virtuose; il bastone è stata la minaccia di licenziare i dirigenti incapaci di risolvere l’emergenza entro 18 mesi. In più la regione si è dotata di un software che settimanalmente monitora il servizio in ogni struttura. «Siamo disposti a regalare il nostro modello alle altre regioni», dice Antonio Brambilla, responsabile sanità dell’Emilia. Chissà chi accetterà la sfida. Per ora solo il Lazio si è messo in scia. L’Emilia ha anche messo una spada di Damocle sui reparti che funzionano peggio, minacciando la sospensione della libera professione fino a che non si riducono le liste d’attesa. Già, perché la metà dei medici del Servizio sanitario nazionale ha l’abitudine di tenere il piede in due scarpe, metà giornata lavora nel pubblico, l’altra nel privato. Tutto legale, ci mancherebbe. Ma discriminante socialmente: i benestanti possono avere diagnosi e terapie molto prima di chi benestante non è.
La correlazione fra libera professione dei medici e liste d’attesa è un tema su cui si sofferma anche Raffaele Cantone, il capo dell’Anac, l’agenzia nazionale contro la corruzione: «La sanità è ai primi posti per il rischio corruzione e le liste d’attesa ne sono uno snodo importante, perché rappresentano uno degli strumenti attraverso cui si verifica lo sviamento dal pubblico. È legittimo che un cittadino scelga il sistema privato, ma quando quest’ultimo diventa di fatto obbligatorio, allora è certamente un fatto illecito. Servono regole più chiare», avverte Cantone. Del resto le cifre parlano da sole: le liste d’attesa hanno fatto impennare la spesa privata per la salute, le famiglie sono arrivate a sborsare - di tasca propria o tramite una mutua privata - oltre 35 miliardi.
Eppure l’ultima classifica Bloomberg colloca la sanità italiana al terzo posto al mondo per efficacia: «Succede perché l’ente americano mette in relazione l’aspettativa di vita con i soldi spesi per la salute. E visto che gli italiani, per vari motivi, sono particolarmente longevi, la contestuale riduzione del finanziamento ci fa conquistare il podio», spiega Cartabellotta. Che mostra invece il dato più puntuale (e drammatico) dell’Euro Index Consumer Health: qui l’Italia è al ventiduesimo posto su 35 paesi, ma soprattutto è crollata di 11 posizioni in dieci anni. Uno dei nostri beni più preziosi, in termini di welfare, si sta sgretolando. Aggiunge Cartabellotta: «L’indice più accurato per valutare l’efficacia del sistema sanitario è la cosiddetta “aspettativa di vita in buona salute”, per la quale siamo al di sotto della media europea. Insomma viviamo sì a lungo, ma peggio che altrove».
La vergogna dei doppi turni
Intanto i sindacati di medici e infermieri hanno deciso di entrare in “stato d’agitazione” dal 22 gennaio, preannunciando disagi negli ospedali pubblici. La protesta, dicono, è l’unico modo per attirare l’attenzione dei politici, tutti presi dalla campagna elettorale. «Il diritto alla salute è già stato tolto. E i politici hanno il dovere di dirci quale modello di sanità intendono dare agli italiani», dice Costantino Troise, segretario dell’Anaao, il maggior sindacato dei medici.
Anche il ministro uscente della Salute, Beatrice Lorenzin, è in campagna elettorale con il suo nuovo partito, Civica Popolare, per il quale ha lanciato lo slogan «nido gratis per tutti». Ma secondo Troise la sua gestione della sanità non merita la sufficienza: «Sono state fatte anche cose positive, non lo nego. Ad esempio l’Italia è fra i pochi paesi a garantire i costosi farmaci per la cura dell’epatite C. Ma questa è anche la legislatura che ha accentuato più di tutte il definanziamento del servizio sanitario. Forse perché è il ministero dell’Economia a decidere tutto?», si domanda Troise. E snocciola i dati: nel 2013 la quota di spesa pubblica era del 7,1 per cento sul Pil, nel 2018 è scivolata al 6,5. «Francia e Germania spendono il 30 per cento più di noi», incalza il sindacalista dei medici.
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I dottori chiedono anche più soldi (i loro salari sono fermi da dieci anni) e lo sblocco del turnover, che consentirebbe l’ingresso di nuovo personale negli ospedali. Legittimo, ma il rapporto Cergas dice che l’emergenza più grave è un’altra: mentre il numero dei medici è pressoché in linea con quello della Germania e della media europea, sul fronte degli infermieri andiamo malissimo: ci sono 5,4 unità ogni mille abitanti contro i 9 della media Ocse, i 10,2 della Germania, i 18 della Svizzera. E in Italia quelli in servizio, sia per far quadrare i conti famigliari (guadagnano 1.200 euro al mese o meno) sia per non lasciare i reparti scoperti, sono spesso costretti a doppi turni, fino a 16 ore consecutive: con un inevitabile crollo d’ attenzione e di cura per i pazienti e con un massacro per loro. All’inizio di gennaio, ad esempio, un’infermiera di 66 anni dell’ospedale di Anzio ha dovuto fare un doppio turno al termine del quale è caduta a terra colpita da un’emorragia cerebrale. Come - o peggio - che in un film di Ken Loach.
Anche per i posti letto in Italia siamo molto indietro: 3 ogni mille abitanti contro i 4 della media Ocse e gli 8,1 della Germania. «In Italia un medico costa come tre infermieri. Forse bisognerebbe puntare su questi ultimi, ma una svolta di questo tipo, in Italia, non è facile da mettere in atto», dice il professor Longo della Bocconi.
L’altra emergenza sono i giovani. Spiega Andrea Filippi della Cgil medici che il calvario della precarietà è iniziato nel 2001, quando sono comparsi i primi contratti a termine. Oggi ci sono 12 mila specialisti con rinnovo annuale e una paga base di circa 80 euro al giorno. Gli anni di attesa per una stabilizzazione sono 15. Dalle regioni al collasso, tipo la Campania e la Calabria, i giovani fuggono e cercano lavoro al nord. Come ha fatto Chiara (nome di fantasia necessario per garantirle il suo posto da medico precario), napoletana, emigrata in terra comasca: «Ho provato a cercare lavoro a Capua, dove riuscivo a guadagnare 100 euro netti ogni dodici ore di turno in guardia medica, meno di una colf. Poi sono venuta in Brianza: qui ho un contratto di sostituzione in guardia medica e prendo 240 euro per 12 ore di turno notturno, sempre con partita Iva. Ma non basta per arrivare alla fine del mese, così nelle altre notti lavoro all’Humanitas, un ospedale privato di Milano che mi paga 14 euro netti all’ora».
Ma per i medici la discesa verso gli inferi del precariato è ancora lunga e dal girone del cottimo si passa a quello del caporalato. Così lo definisce Alessandro Vergallo, presidente dei medici anestesisti e rianimatori, che ha inviato una serie di segnalazioni al ministero indicando i nomi delle cooperative che, in regime di subappalto, gestiscono interi reparti di ospedali pubblici e cercano urgentemente medici. Succede a Caorle e Bibione, dove la cooperativa Cssa cerca medici «per il weekend nei punti di primo intervento». Succede al San Camillo di Roma e all’ospedale di Cervia dove la Medical Line Consulting cerca specialisti per poterli inserire «all’interno di alcuni di questi progetti lavorativi», come recita l’annuncio. Accade a Pieve di Coriano (Mantova), dove la Medical Service Assistance ricerca «collaboratori per il presidio ospedaliero, da inserire in sala operatoria». Vergallo sostiene che l’assunzione di medici attraverso coop è diventata una prassi, avallata dalla patologica carenza di personale: «Un fenomeno che fior di commissari e direttori generali nominati dalla politica non sono stati in grado di prevedere. La situazione è drammatica, ma non per questo bisogna tappare i buchi in modo illegale», dice Vergallo.
Camici bianchi in fuga
In fondo alla catena sanitaria, gli ultimi sono i medici neolaureati e gli specializzandi. Il sistema formativo permette a un solo medico laureato su due di accedere al percorso di specializzazione. Quest’anno per 6.676 contratti di specialistica, si sono presentati in 15 mila, dicono da Federspecializzandi. Sono rimasti appiedati ottomila neolaureati, costati allo Stato 24 mila euro ciascuno per la formazione. Ed è probabile che molti prenderanno la via dell’estero, e che saranno ben accolti da Inghilterra, Germania e Francia.
Chi invece resta in Italia per la specializzazione si fa carico di grossissime responsabilità. Carte alla mano, il sindacato dei medici anestesisti mostra come alle volte nelle sale operatorie di Borgo Trento e nell’azienda ospedaliera universitaria integrata di Padova l’unico anestesista presente sia in realtà un giovane specializzando, che in teoria dovrebbe essere affiancato da un anestesista vero. Idem nelle sale rianimazione post operatorie. «Per far fronte all’assenza di anestesisti, in una sala operatoria interviene lo specializzando che si registra con la sigla Mif, “medico in formazione”. In un’altra sta l’anestesista, che fa da tutor e, in caso di urgenza, dovrebbe correre ad aiutare il giovane», racconta Vergallo. È sempre filato tutto liscio, tranne una volta. Era il 2008 e un giovane anestesista, lasciato solo in sala rianimazione, sbagliò una manovra. Il paziente morì. Il giovane fu accusato di omicidio colposo. Il miracolo, quella volta, non ci fu.
© Riproduzione riservata 23 gennaio 2018
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