CARLO FORMENTI - Il negazionismo dei globalisti
Andrew Spannaus, giornalista americano attivo in Italia di cui abbiamo potuto apprezzare il pamphlet “perché vince Trump”, torna con un nuovo saggio sul conflitto fra popoli ed élite, “La rivolta degli elettori” (targato Mimesis come il precedente).
Il testo affronta in particolare tre temi: le cause del crescente rigetto nei confronti dell’attuale sistema politico ed economico, le sue forme politiche, l’incapacità dei vecchi poteri di affrontarlo.
Le cause sono sotto gli occhi di tutti, a partire dal vertiginoso aumento delle disuguaglianze, effetto dello sforzo di abbassare il costo del lavoro attraverso outsourcing, precarizzazione, tagli salariali, e della finanziarizzazione dell’economia. Due processi che investono l’intero mondo occidentale, e hanno assunto forme esasperate in Europa dopo Maastricht e l’unificazione monetaria. In Italia la tragedia è iniziata con il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, che ha causato l’esplosione del debito pubblico, per raggiungere l’acme sotto il governo “tecnico” di Monti il quale, non solo si è impegnato a contribuire nella misura del 18% al fondo salva stati laddove le nostre banche erano esposte al 5% (il che significa che non abbiamo contribuito a salvare i Paesi in difficoltà bensì le banche francesi e tedesche che ne avevano finanziato i debiti), ma è anche è riuscito a far crollare il Pil del 5% fra il 2011 e il 2014 (e la produzione industriale del 10).
Questi scenari hanno innescato, scrive Spannaus, “un’insurrezione della ‘gente normale’ contro le strutture del potere politico e mediatico”. Annunciate dal movimento Occupy Wall Street e dallo slogan “noi il 99%” (contro l’1% dei super ricchi), sono nate dovunque inedite forze “populiste” mentre il sistema ha dovuto subire una serie di choc: dalla Brexit inglese, all’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, alla disfatta di Renzi nel referendum del 4 dicembre 2016 (elenco cui andrebbe aggiunto il recente dimagramento elettorale dei due maggiori partiti tedeschi, che ha certificato lo scontento dei cittadini nei confronti della Grande Coalizione fra Popolari e Socialdemocratici).
Queste forze, pur muovendo da posizioni ideologiche diverse, presentano alcune caratteristiche simili: Trump e Sanders condividono una serie di rivendicazioni (pur attribuendovi pesi diversi: Trump insiste su dazi e investimenti strutturali, Sanders su sanità e istruzione) ma soprattutto lanciano lo stesso messaggio: le élite stanno imbrogliando il popolo americano. Marine Le Pen ha presentato un programma “di sinistra” che Mélenchon potrebbe in parte sottoscrivere, benché i due siano divisi da un abisso sui temi identitari. Del resto, argomenta Spannaus, proteste economiche e rivendicazioni identitarie tendono a marciare insieme e anche i populismi di sinistra annunciano la fine della globalizzazione come marcia inarrestabile e irreversibile verso la scomparsa dei confini, recuperando il tema della sovranità nazionale come base necessaria di democrazia e sovranità popolare.
E la reazione delle élite? Negazionismo puro! Si serrano i ranghi e ci si oppone alle proteste senza ammetterne le ragioni; si professa una fede incrollabile (in barba ai suoi fallimenti) nella religione del libero mercato e del rigore monetario; si bolla l’opposizione come un rigurgito reazionario, ripetendo il mantra che non si può regredire al nazionalismo, al protezionismo, all’industria manifatturiera, alla chiusura dei confini; si condanna la democrazia referendaria perché solo gli esperti sanno affrontare i problemi. Ma soprattutto si evocano le regole del politicamente corretto contro la rozzezza degli avversari senza capire: 1) che la gente considera l’insistenza sui diritti individuali e civili come un modo per non parlare dei problemi reali; 2) che la familiarità di una Clinton con Goldman Sachs pesa di più (negativamente) del machismo di un Trump. Oppure si agitano argomenti retorici sul tipo di quelli mobilitati a sostegno della Ue: l’Europa garantisce la pace; è un baluardo a tutela dei diritti civili, deve unirsi per fronteggiare la concorrenza americana e cinese. Peccato che questi argomenti siano falsi: la pace in Europa c’era già da mezzo secolo, quando è entrato in vigore l’euro (dopodiché i conflitti sono cresciuti piuttosto che diminuiti); l’Europa promuove i diritti civili ma demolisce quelli sociali; l’economia di molti Paesi membri è peggiorata dopo l’unione, per cui è diminuita la loro capacità di competere sul mercato globale.
Sarebbe interessante applicare l’analisi di Spannaus al caso catalano che stiamo vivendo in questi giorni, ma il discorso diverrebbe troppo lungo. Tuttavia qualcosa mi sento di anticipare: quanto succede in Catalogna mette in crisi la “pars costruens” del discorso di Spannaus (che qui ho trascurato). Il giornalista americano pensa, o almeno spera, che prima o poi le élite dovranno cambiare rotta, ammettere l’insostenibilità del processo di globalizzazione, riconoscere le ragioni dei più deboli e restituire agli stati nazione il ruolo di garanti della democrazia. Invece le scelte del governo di Rajoy, sostenute da un’Europa cui gli indipendentisti chiedono inutilmente di svolgere un ruolo di mediazione, non lasciano dubbi: ogni deviazione dalla linea imposta dalle élite globaliste dev’essere punita con la repressione (e con il terrorismo economico: vedi il caso greco). Da questa situazione non si esce con appelli al buon senso e alle riforme, ma solo attraverso un processo rivoluzionario.
Carlo Formenti
(9 ottobre 2017)
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