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Autore Discussione: ALFIO SQUILLACI. DISUNITI UNITI – GIOIE E DOLORI DELL’ITALIA UNITA  (Letto 2149 volte)
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« inserito:: Settembre 25, 2017, 11:27:54 am »

DISUNITI UNITI – GIOIE E DOLORI DELL’ITALIA UNITA

ALFIO SQUILLACI
21 settembre 2017

Di fronte a processi disgregativi che stanno avvenendo davanti ai nostri occhi e in queste ore e che riguardano Nazioni europee – Spagna e Inghilterra – unificate dalle loro monarchie molto prima della nostra Penisola, avanzo qualche piccola considerazione a margine.
Lungi dall’entrare in una controversistica sterile Nord –Sud che lascia il tempo che trova, occorre fare alcune considerazioni ricognitive sull’argomento. Il processo unitario italiano fu sicuramente rapido (1848- 1866) e di natura militare. “Conquista regia” fu la dicitura utilizzata da Alfredo Oriani e ripresa da Antonio Gramsci. Piemontesizzazione? Certamente. Il dato è storico e incontrovertibile. Ma intervenendo tardi il processo di unificazione della Penisola, rispetto agli Stati di vecchia formazione – mi riferisco soprattutto all’Inghilterra e alla Spagna, non alla Francia dove lo Stato fortemente centripeto dai tempi di Colbert “inventò” praticamente la Nazione-, si vedrà che gli aspetti divaricanti sia in Spagna che in Inghilterra sono terribilmente presenti tuttora più che nello Stivale: sono in quegli Stati europei, non in Italia, che le tensioni separatistiche si sono manifestate in maniera virulenta tanto da determinare a distanza di circa cinquecento anni dal processo di unificazione di quegli stati, l’indizione dei referendum separatistici della Scozia e della Catalogna. (Detto per inciso, da noi il fenomeno separatista della Lega Nord che sembrava all’inizio travolgente, s’è prima illanguidito in una bofonchiante e sempre più flebile richiesta di Devolution e Federalismo, quindi dopo i noti “incidenti di percorso” che hanno riguardato il suo leader, tra diamanti e titoli della Tanzania, s’è del tutto spento nel movimento non più separatista o federalista ma “unitario” “Noi con Salvini”, in un processo tuttavia non chiaro nelle sue linee programmatiche, e che ha dato qualche giorno fa a Pontida, icasticamente, l’idea della transizione in atto, nei colori blu delle nuove bandiere esposte nel palco e in quelli verde padano d’antan della platea).
Paradossalmente anche da noi fu lo Stato unitario a inventare la Nazione. Tardi ma lo fece, e non fu del tutto un male il ritardo, anzi. Il “Plebiscito di ogni giorno” con cui secondo Ernest Renan si vota a favore della Nazione, ebbe dei momenti centrali successivi alla “conquista regia”. Quindi non fu il processo unitario in sé e per sé, che ebbe degli spunti di vera epopea popolare con l’Impresa dei Mille (il nostro Western, se fossimo stati in grado di saperne cogliere gli aspetti filmici, anche drammatici, delle camicie rosse), ma furono gli eventi successivi a formare la Nazione. Mi riferisco alla unificazione amministrativa crispina (certo con le sue assurdità burocratiche – separazione tra diritti soggettivi e interessi legittimi – che ci trasciniamo ancora oggi), all’industrializzazione e modernizzazione giolittiana, alla Grande Guerra che con il suo tributo di sangue pagato da tutti i Peninsulari, cementarono il nascente Stato Unitario sotto il profilo statuale; ma fu soprattutto con Poste&Ferrovie, i maestri elementari, la riforma Gentile (istituzione dei licei che formarono la classe dirigente del Paese), il nascente cinema (gli straordinari doppiatori!) e infine la televisione, che intervenendo tardi sulla risorsa prima unitaria – la lingua – paradossalmente contribuirono a formare una scena comune coesa e linguisticamente forte, inesistente prima di allora. Nonostante i ritardi e gli analfabetismi di ritorno, la lingua italiana è parlata da tutti, mentre prima era quasi solo scritta.
Fu l’Italia a creare gli italiani? La battuta di d’Azeglio è solo parzialmente vera. Gli italiani esistevano da prima: la loro base morale era stata formata, in precedenza, dalla Controriforma e dalla Chiesa Cattolica. Ciò avvenne ai tempi dei “Promessi sposi”, ossia ai tempi del Grande Romanzo Nazionale. Ma anche la loro base culinaria era già preesistente: se si trascura la divaricazione tra la “linea dell’olio di oliva” che riguarda tutta la Penisola (ivi comprese le regioni Liguria e Toscana) contrapposta alla “linea del burro” (la Pianura Padana e la fascia pedemontana e Alpina) c’è tuttavia un elemento unificante preesistente: il soffritto!,  esistente in tutta la Penisola, come la pasta. Si aggiunga il fenomeno aggregativo del calcio che da più di cento anni unifica (“dividendola” solo in quel fenomeno recitato e teatrale che è il tifo) la Penisola, più di qualsiasi altro collante. Completa il quadro la canzone popolare italiana irradiata da Sanremo sulla quale si fonda una sorta di identità canora fortissima e resistente al pur invasivo fenomeno del rock anglosassone.
Certo, il Risorgimento lasciò scontenti entrambi i versanti. Riprendendo in mano il vecchio testo di Walter Maturi (“Interpretazioni del risorgimento”) o anche il romanzo di Alberto Arbasino “Fratelli d’Italia” si vedrà che tensioni, sospetti e scetticismi striscianti accompagnarono, e non sono del tutto scomparsi, il processo unitario, sia nella coscienza degli intellettuali che in quella popolare. C’è tutto un filone di narrativa siciliana che va dai “Vicerè” di De Roberto ai “Vecchi e giovani” di Pirandello al “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa – non Verga che pur narrò nella novella “Libertà” la repressione cruenta di Bixio a Bronte ma che rimase sempre “unitario”. Questa narrativa isolana “scontenta” si bilancia con lo scontento del Nord che forse mai ha digerito del tutto l’inaspettato “dono” del Mezzogiorno con i suoi eterni problemi di arretratezza economica e di delinquenza organizzata.
Ma si diceva “base morale”. Ah quella sì. Esiste da sempre o meglio dai tempi della Controriforma e ha dato luogo all’Alberto Sordi che c’è in tutti noi: una certa fiacchezza d’animo, una vigliaccheria di fondo nel rifuggire dal “prendere posizione”, il familismo amorale, la raccomandazione (come forma cattolica di “salvezza vicaria”), il particulare guicciardiniano (che Carlo Tullio-Altan amava definire “morale albertiana”, dal libro “Della famiglia” di Leon Battista Alberti), il disordine amministrativo perenne, la giurisprudenza policroma, l’et ab hic e l’et ab hoc inconcludente dello “Stato introvabile” (Sabino Cassese), la prevalenza degli organigrammi informali (massonerie e consorterie varie) su quelli formali, e tanti altri vizi e difetti che ci fanno tuttora bellamente compagnia, ma che fanno tanto “Nazione” e “carattere nazionale”.
Ma “Una d’arme, di lingua e di altare” come cantava il nostro amatissimo Alessandro Manzoni, l’Italia disunitamente unita persiste e resiste. E qui va riconosciuto il ruolo unificante precedente la “conquista regia” di Camillo Benso Conte di Cavour svolto dalla Chiesa Cattolica. Non siamo papisti a caso. Benedetto Croce, il laico Benedetto Croce, nella “Storia dell’età barocca in Italia” (1929) esprimeva motivi di gratitudine alla Chiesa e ai gesuiti i quali preservarono l’unità spirituale e l’unità nazionale e che spegnendo «le faville delle divisioni religiose qua e là accese anche nella nostra terra, impedirono che gli altri contrasti e dissensi si aggiungessero tra gli italiani anche quelli di religione (per esempio di un Settentrione protestante e di un Mezzogiorno cattolico) e consegnarono l’Italia ai nuovi tempi, tutta cattolica e disposta a convertirsi tutta, reagendo al clericume, in illuministica, razionalistica e liberale».
A parte l’allucinazione finale di un’Italia pronta a convertirsi al razionalismo e al liberalismo che era solo nei voti di Croce, e altre considerazioni che si potrebbero aggiungere (per esempio un cattolicesimo più esteriorizzato e cerimoniale “padrepiesco” al Sud e più raccolto e borromaico al Nord) resta il dato di fatto della coesione nazionale garantita dalla Chiesa cattolica.
È un bene? È un male? È l’Italia!

Da - http://www.glistatigenerali.com/storia-cultura/gioie-e-dolori-dellitalia-unita/
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