Dalla ‘questione morale’ al Giustizialismo
Pubblicato il 13-09-2017
Il duello a sinistra è uno dei caratteri che ha definito e diviso per circa un cinquantennio la sinistra italiana, ed è una chiave interpretativa imprescindibile per comprendere la parabola del craxismo.
Il conflitto tra massimalisti e riformisti risale alla scissione di Livorno del 1921, quando il Partito comunista d’Italia si staccò dal Partito socialista, originando una frattura che, nonostante sorti alterne, si è prolungata fino ai primi anni Novanta, quando il Psi è scomparso e il Pci si è trasformato in Pds.
Occhetto Craxi. La fase più intensa e fruttuosa di questo duello coincide con la segreteria Craxi che riapre ‘creativamente’ le ostilità con i compagni comunisti, sopite durante la segreteria di De Martino. Dal 1976, con la svolta del Midas, la cultura riformista vive una rinascita alimentata dai chierici di Mondoperaio che rilanciano il gradualismo della tradizione socialista democratico-liberale e polemizzano apertamente con gli intellettuali organici al Pci. I temi principali del dibattito riguardano il ruolo della cultura marxista-leninista che informa ideologicamente il Partito comunista, e più in generale la cultura politica che deve guidare una forza di sinistra.
Questa battaglia culturale assume anche un rilievo politico per l’abilità del gruppo dirigente craxiano, che la pone al centro del dibattito politico promuovendo la Grande Riforma, manifesto del riformismo socialista.
Gli eventi del 1978 fanno il resto. Con il rapimento e l’omicidio di Moro, il Pci perde la possibilità di superare la conventio ad excludendum e con la seconda svolta di Salerno si autorelega all’opposizione. Al contrario il Psi diventa il protagonista assoluto degli anni Ottanta, accogliendo le esigenze dei ceti più dinamici e rispondendo alle domande di modernizzazione che emergono dalla Terza Italia.
Tuttavia il dinamismo del Psi ha un prezzo politico, e forse anche morale, molto elevato. Craxi, infatti, è costretto a muoversi tra due partiti elefantiaci che dispongono di una gran quantità di risorse finanziarie e organizzative. In particolare il Pci è un partito massicciamente organizzato e gerarchizzato che possiede ingenti fondi – legati a finanziamenti esteri e alle varie cooperative – e di un gran numero di volontari. Il Psi invece è un partito poco organizzato, con una scarsa disponibilità finanziaria.
Craxi, per supplire a queste mancanze originarie, si muove spregiudicatamente per recuperare questo gap che lo divide dai due partiti chiesa. E non fa nulla di nuovo nella politica italiana. Perché semplicemente cerca di ottenere finanziamenti diretti senza l’intermediazione della Dc e del Pci.
Il segretario socialista, avendo visto da vicino gli stenti finanziari del primo centrosinistra in cui il Psi riceveva finanziamenti irregolari mediati dalla Dc, e ricordando l’esperienza frontista in cui i fondi sovietici passavano prima dal Pci, capì che avrebbe dovuto agire in modo spregiudicato.
In altre parole, Craxi intuì che l’indipendenza politica si poteva ottenere solamente tramite l’indipendenza economico-finanziaria, ovvero attraverso un finanziamento non mediato dai partiti concorrenti. Qualsiasi giudizio storico su Craxi non potrà dunque ignorare questo aspetto, che permette di gettare luce sull’oblio e sulla damnatio memoriae in cui è sprofondata la figura dell’ex segretario socialista.
Proprio qui sta il paradosso del craxismo e, più in generale, del duello a sinistra: il partito che più volle innovare il sistema politico degli anni Ottanta, divenne il partito che, per le ragioni stratificate e complesse sopraddette, dovette ricorrere agli elementi che più avevano delegittimato quello stesso sistema.
Questo paradosso spiega anche gli esiti del duello a sinistra. La vittoria del Pci-Pds non fu una vittoria totalmente politica, ma fu una vittoria sancita dalla magistratura. Infatti, il Pci-Pds fu il grande sconfitto degli anni Ottanta. Basti pensare alla marcia dei quarantamila e alla pesante batosta del referendum sulla scala mobile, promosso dal Pci. Anche culturalmente il Partito comunista degli anni Ottanta perse la sfida della modernizzazione con il Psi. Il moralismo del tardo Berlinguer e la fumosa formula dell’eurocomunismo ne sono la dimostrazione plastica. Alla lunga, nonostante le avventure giudiziarie, la cultura socialdemocratica forgiata dal gruppo dirigente del Midas avrebbe mandato in soffitta il vetusto marxismo-leninismo di cui era impregnato il Pci, portando faticosamente anche il futuro Pd verso il riformismo.
Tuttavia nei primi anni Novanta, il moralismo giacobino e giustizialista avrebbe trionfato, aprendo la strada a forme di populismo giudiziario estreme (leggasi Movimento cinque stelle, alluce valgo del dipietrismo).
Il Pci-Pds vinse la sfida complessiva con il Psi perché cavalcò l’onda giustizialista dei primi anni Novanta, trasformando la questione morale in programma politico. La pochezza del nascente Pds sarebbe emersa alle elezioni politiche del 1994. Nonostante il grande vuoto politico creatosi con le inchieste di Tangentopoli, il partito guidato da Occhetto sarebbe stato travolto da un nuovo e inaspettato protagonista che la furia giustizialista aveva contribuito a far emergere: si chiamava Silvio Berlusconi. Il Pds sarebbe stato inghiottito dal vuoto che aveva contribuito a generare.
Martino Loiacono
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