LETTERATURA
Scrittori più social che letterati
Di Gianluigi Simonetti
26 agosto 2017
Molta letteratura circostante, notavamo domenica scorsa, vive e lavora sul confine tra il finto e il vero. Certo non smette di inventare situazioni e personaggi, ma li puntella col massiccio ricorso a storie vere, raccontate se possibile in prima persona. Vanno forte, in generale, le cosiddette «scritture del sé»; la testimonianza diretta, che produce sul lettore un effetto immediato di verifica, è diventata la forma più naturale per esprimersi. E questa nuova abitudine comincia a provocare conseguenze sullo statuto stesso dell’autore.
A questo proposito un discorso diverso s’impone per poeti e narratori. Mentre il romanzo è abituato tradizionalmente a identificarsi col punto di vista degli altri, la poesia fa spesso i conti con una prospettiva egocentrica; la lirica, in particolare, tende da sempre a far coincidere io poetico e io autobiografico, voce letteraria e persona fisica. Proprio per questo la prima persona che parla in poesia si presenta da almeno un secolo a questa parte sempre più incerta di sé. Molti poeti attivi oggi, affezionati al Novecento, continuano a raffigurarla come fragile, scissa, balbettante, tutta aggrappata ai propri sparsi frammenti esistenziali. Altri, più smaliziati, scelgono invece di affidarsi a personaggi, o maschere, che è difficile o impossibile ricondurre allo scrittore in carne e ossa: è il loro modo per sottrarsi alla dittatura poetica dell’io. Altri ancora, più sperimentali e più depressi, puntano su un terzo tipo di prima persona, poco o nulla individuata, che parla un linguaggio banalissimo e vive esperienze generiche: un io che potremmo definire seriale, simile a un topo di laboratorio più che a un individuo vero e proprio. Insomma nella poesia di oggi soggetti deboli o debolissimi, che non sanno più chi sono, sono assai più numerosi dei soggetti forti, dotati di sentimenti e pensieri profondi. Il tasso di soggettivismo mediamente resta alto, ma tende a mettersi al servizio di una visione critica dell’io lirico tradizionale; così critica da renderlo sempre più inconsistente e sempre meno autobiografico.
Nella narrativa circostante, invece, il massiccio ricorso alla prima persona tende a produrre l’effetto contrario. Qui a parlare è di solito un soggetto estroflesso, individuato bene, simile o coincidente a quello dell’autore. L’io di Gomorra, per intenderci: testimone diretto o protagonista indiscusso delle vicende che racconta. Alcune affermazioni di Saviano - «Io vado nei posti non per vedere le cose, ma perché le cose vedano me» - suggeriscono che stiamo assistendo, nella narrativa di questi ultimi anni, al recupero di un io che ricorda quello della poesia, proprio mentre i poeti cercano di emanciparsene.
Simmetricamente, mentre una volta era la banalità del quotidiano ad attrarre l’attenzione dei romanzieri più ambiziosi, oggi è sempre più importante la presenza di un ’gancio’ narrativo, un elemento singolare capace di sintonizzarsi col costume o con la cronaca e di mettere la cultura letteraria in contatto con altri e più eccitanti campi del sapere. Questo è vero soprattutto se l’obiettivo consiste nell’ottenere un ascolto vasto e trasversale (e quindi entrare nelle classifiche di vendita). Efficaci, in questo senso, gli scrittori capaci di farsi riconoscere evocando modi, fenomeni o eventi che poi ramifichino nel sistema della comunicazione. Molti dei più fortunati casi editoriali degli anni Zero, indipendentemente dalla diversa qualità artigianale, hanno in comune questo epicentro, all’incrocio tra due estroversioni: un tema legato al costume affrontato da un outsider della letteratura (Gomorra come libro sulla mafia scritto da un giornalista d’assalto, La solitudine dei numeri primi come romanzo sull’anoressia scritto da un giovane fisico; eccetera).
Sensibile a queste stimoli, l’industria culturale si mette più volentieri all’ascolto di un certo tipo di storie e di un certo tipo di autore, facili da riassumere e da comunicare. La storia, dicevamo, è bene che sia forte: un conflitto, un dolore, una malattia, un’esperienza a qualche titolo eccezionale e ricca di spirito del tempo. L’autore è bene che venga da fuori, cioè dall’esterno del campo letterario. Che abbia talento e cultura multitasking; che sia capace di esibirsi su palchi e immaginari diversi. Una vocazione solo letteraria ormai è troppo e insieme troppo poco. La fede nella letteratura, proclamata a parole da tutti, è smentita dall’evidenza dei fatti: le sole armi dello stile non bastano e non possono bastare, se il vero terreno su cui tutto si decide è quello della contiguità, del mescolamento e della proliferazione.
Nella fase che stiamo descrivendo, un’attenzione particolare sembra riservata a due tipologie di autore, entrambe di solito legate al racconto in prima persona. La prima è quella del giovane scrittore (se possibile esordiente, o seminuovo): perché rappresenta un investimento a basso costo, perché parte da zero e di solito è malleabile e ricettivo. Molto meglio, come detto, se non è, o non sembra, soltanto un letterato; se possiede talenti non solo e non tanto culturali (per esempio fa lavori strani, pratica sport estremi, frequenta teatri di guerra, gestisce un blog); se si muove fuori dalle biblioteche o dai salotti (perché vive nei boschi, o sui mari, o nei ghetti, o nelle rete sociali); se è in grado di performare, e performarsi, oltre la scrittura. Nulla di tutto questo basta naturalmente a garantire un risultato, ma il fatto che l’alchimia ogni tanto si realizzi non cancella la contraddizione culturale. Reclutato negli spazi di mezzo tra letteratura e comunicazione, il giovane scrittore di successo spesso non è che un caso fortunato (e quasi mai organizzato) estratto tra decine, anzi centinaia di scrittori-massa, molti dei quali consacratisi alla letteratura a scopo più sociale che estetico. Talvolta per impegno civile più o meno sincero; talvolta per appartenere a un gruppo, o conquistare uno status; talvolta per ripiego, e in mancanza di meglio.
La seconda tipologia rientra nel novero delle cosiddette scritture «di categoria», brand narrativi costruiti proprio intorno alla specifica identità sociale di chi scrive. I generi innescati possono variare - dall’autobiografia all’intervista, dalla raccolta di barzellette al romanzo vero e proprio; l’importante è che a essere coinvolti siano «personaggi» dalla solida professionalità in qualche campo culturale cool che non sia la letteratura. Campioni dello sport (Agassi, autore di un classico «di categoria» come Open), artisti della televisione, del cinema o della musica pop (come Jovanotti, appassionato lettore di Open); ma anche cuochi, politici, giornalisti di costume, eccetera. Qui l’editoria può lavorare senza mezzi termini «su commissione»: identifica l’autore potenziale, lo recluta, gli suggerisce un percorso narrativo e un sostegno redazionale. La filiera è inversa rispetto a quella dell’esordiente: scrivere è il punto di arrivo, non quello di partenza. E se il giovane scrittore rappresenta una scommessa (eventualmente da perdere, ma senza danni), quello di categoria è investimento più consistente e insieme più sicuro: la casa editrice ci guadagna in copie vendute e visibilità, il personaggio soprattutto in capitale simbolico. L’opera scritta è di solito un residuo che non conta per nessuno, forse nemmeno per il lettore, perché non importa cosa si racconta, e come, ma quel che si è, o si è stati, o (in minor misura) si potrebbe essere. Anche se quel che si è socialmente finisce con l’incidere con ciò che si scrive: nei libri dei personaggi televisivi, ad esempio, ricorrono temi e strutture abbastanza precise, come ad esempio il senso di colpa, o la morte, o la critica stessa della comunicazione. Tutti elementi che ritornano nella scrittura dopo essere stati rimossi dalla televisione vera e propria.
L’autore ideale non esiste in natura, come non esiste il best seller costruito a tavolino nei laboratori dell’industria culturale. Però possiamo divertirci a delineare, a titolo di esempio, l’identikit immaginario dell’autore integrato, o personaggio-opera, artefice di tanti successi della letteratura circostante. Ne risulta la fisionomia di uno scrittore socialmente visibile, fotogenico e glamour (o all’opposto sconosciuto e appartato, protetto da un anonimato a sua volta carismatico); indipendente da scuole e movimenti, sgravato da ingombranti ascendenze culturali, ma in compenso circondato e sostenuto da «amici» (il supporto redazionale e il giornalismo embedded; i ringraziamenti fluviali nei paratesti dei libri; la presenza nel web, funzionale a una immagine vivace, iperconnessa, in continuo movimento). Uno scrittore meno letterato possibile, che somiglia a tutti e non somiglia a nessuno, dall’opinione pronta e dalla cultura onnivora. Aggiornato e aggiornabile, come un profilo social.
Quinto di una serie di articoli.
I precedenti sono stati pubblicati il 30 luglio, il 6, il 13 e il 20 agosto
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