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« inserito:: Febbraio 18, 2016, 11:54:20 am » |
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Ecco l’analisi politica del Festival Il Sanremone Sanremo, Italy, 13 February 2016. Fabrizio Rondolino 14 Febbraio 2016 Chi ha vinto il 66° Festival di Sanremo? Il Paese s’interroga, le opzioni non mancano. Ha vinto Pierluigi Bersani, ovviamente. E non soltanto perché gli Stadio rientrano nella categoria dell’usato sicuro. C’è di più: nel settembre del 2012, ai tempi delle prime primarie (quelle perse da Renzi), l’allora segretario del Pd tenne una manifestazione a Firenze, e proprio nella tana del lupo, dopo aver ricordato l’appena scomparso Roberto Roversi, calò l’asso: “Io dico ai giovani ‘andate avanti’, ma chiedimi chi erano i Beatles, chiedimi di raccontarti la nostra storia”. E Chiedi chi erano i Beatles divenne la canzone ufficiale della campagna, fino alla grande festa del Capranica, la sera della vittoria, quando accompagnò il trionfale ingresso di Bersani in sala. Ha vinto Matteo Renzi, perché hanno vinto la tenacia e la capacità di rinnovarsi continuamente. Sentite che cosa ha detto Gaetano Curreri in conferenza stampa, rivelando che Un giorno mi dirai, la canzone vincitrice di Sanremo 2016, era stata scartata da Sanremo 2015: “Il provino non aveva il sound Stadio. Il testo era lo stesso, ma il suono non era costruito come nella versione di quest’anno. Nel frattempo ha preso forma anche un concept album di inediti”. Se una canzone non funziona, con umiltà e tenacia puoi migliorarla. È così che Leopolda dopo Leopolda, primaria dopo primaria, Renzi ha saputo conquistare la meritata vittoria. Matteo Renzi ha perso, la rottamazione è finita: e se lo dice Sanremo, è perché lo pensa il Paese. I ragazzi dei talent show, che volevano rottamare la canzone italiana dei padri e dei fratelli maggiori, e che da anni dominano Sanremo (cinque vittorie negli ultimi sette anni), devono accontentarsi del secondo posto con Francesca Michielin (X-Factor). Gli italiani si sono stufati dei giovani e ritornano alla tradizione, premiando una band che ha debuttato – prima ancora di chiamarsi così – accompagnando Lucio Dalla in Anidride solforosa: l’anno era il 1975, l’anno di nascita di Matteo. La rottamazione non è un fatto anagrafico, ma meritocratico: è questa l’essenza del renzismo. Gli Stadio sono in campo da quarant’anni, fanno musica di qualità con la passione e lo scrupolo dell’artigiano, hanno lavorato con Roversi e con Verdone, con Dalla e con Guccini, con Vasco e con Noemi, sono un pezzo di cultura popolare alta, a Sanremo sono arrivati sue volte ultimi (nel 1984 e nel 1986), ci hanno riprovato altre due volte (nel 1999 e nel 2007), e finalmente sono riusciti a imporsi. Perché? Perché nell’Italia del merito si vince se si è bravi, non se si appartiene ad una consorteria, ad una moda o ad una lobby. Chi non molla mai, chi è in gamba e ci crede, oggi finalmente può farcela. Ha vinto Sanremo, che vince sempre ma quest’anno ancora di più: le cinque serate sono state viste da una media di 10.746.429 spettatori, pari al 49,58% di share. È la percentuale più alta degli ultimi 11 anni: per trovare un risultato migliore bisogna risalire al 2005, al primo festival condotto da Bonolis (52,79% di media). E Sanremo, lo sappiamo, è l’Italia di sempre, e l’Italia di sempre quest’anno ha il volto di Carlo Conti, cioè, nelle parole di Mario Lavia, “il lato semplificato-ottimista dell’Italia renziana”. Ma se l’Italia di Sanremo (cioè l’Italia renziana) è, come abbiamo appena detto, l’Italia di sempre, si può concludere che Renzi non sia servito a nulla. Oppure, al contrario, che abbia vinto al punto tale da fondersi, e in così breve tempo, con l’identità profonda del Paese. Il dibattito continua. Da - http://www.unita.tv/opinioni/ecco-lanalisi-politica-del-festival/
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« Ultima modifica: Dicembre 20, 2016, 06:39:37 pm da Arlecchino »
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 14, 2016, 11:40:05 am » |
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Opinioni Fabrizio Rondolino @frondolino · 13 ottobre 2016 Il Noista Con la vittoria del No, non sarebbero i cittadini a decidere chi li governa La foto di gruppo scattata ieri al convegno promosso da Massimo D’Alema e Gaetano Quagliariello per sostenere le ragioni del No ha il pregio di mostrare la vera posta in gioco del referendum di dicembre. L’alternativa non è fra buona politica e antipolitica, fra establishment e populismo, fra riformisti e sfascisti: l’alternativa è fra potere degli elettori e potere dei partiti, fra alternanza di governo e consociazione. Proviamo a ragionare sulle conseguenze politiche di una vittoria del No. Il punto centrale non è la permanenza di Renzi al governo – anche se appare grottesca la pretesa della minoranza del Pd di auspicare simultaneamente la sconfitta del premier e la sua permanenza sotto tutela a Palazzo Chigi –, ma l’assesso politico-istituzionale del Paese per gli anni a venire. La vittoria del No avrebbe come conseguenza immediata la decadenza dell’Italicum, che come è noto vale soltanto per la Camera, e la definizione di una nuova legge elettorale più o meno condivisa. Questa legge esiste, e si chiama proporzionale: tutte le proposte alternative all’Italicum, dal “Democratellum” grillino all’“Italikos” dei Giovani Turchi, passando per il “Bersanellum”, hanno un impianto sostanzialmente proporzionale e di conseguenza, in un sistema politico tripolare, non sono in grado di produrre una maggioranza omogenea. Il ritorno al proporzionale significa dunque il ritorno delle coalizioni: che si fanno in Parlamento, dopo che gli elettori hanno votato, e che possono mutare a seconda delle condizioni, dei desideri, delle necessità. In altre parole, il potere si sposta dagli elettori ai partiti. Ciascuno dei quali gode di una rendita di posizione, al governo come all’opposizione, senza mai pagare il prezzo della responsabilità. Intendiamoci: per chi vede con terrore l’avanzata del M5s, una legge elettorale proporzionale è la strada maestra per bloccarne per sempre l’accesso al governo (e che i grillini stiano al gioco significa che, in fondo, del governo non importa loro nulla: meglio lucrare sui disastri altrui che provare a correggerli). In questo senso, la variegata coalizione che ieri si è raccolta intorno a D’Alema promette stabilità e offre un’alternativa reale all’ondata populista. Ma è davvero un’alternativa vantaggiosa? Tornare ad un sistema politico chiuso, dove centrodestra e centrosinistra governano insieme senza possibilità di alternativa, mentre fuori le mura gli eserciti grillini e leghisti – non l’educato Pci della Prima repubblica! – cavalcano la rabbia e il rancore, fa davvero un buon servizio all’Italia? Da - http://www.unita.tv/opinioni/foto-di-gruppo-con-dalema-perche-non-e-la-ricetta-giusta/
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 16, 2016, 11:15:25 pm » |
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Opinioni Fabrizio Rondolino @frondolino · 15 novembre 2016 I noisti vogliono il proporzionale perché preferiscono l’inciucio Il Noista Il populismo si sconfigge con la buona politica, cioè con l’alternanza di governo Alla variegata e variopinta armata che sostiene il No al referendum di dicembre si rimprovera, fra le altre cose, di non proporre alcuna alternativa praticabile – o, il che è lo stesso, di proporne troppe e tutte diverse tra loro – e, soprattutto, di avere in comune un unico obiettivo, che peraltro non è oggetto di voto: fare la pelle a Renzi. In realtà, c’è un altro elemento fondamentale che unifica il fronte del No, e che è destinato a pesare nel futuro politico del Paese persino in caso di vittoria del Sì: il ritorno al proporzionale. Proporzionale “alla spagnola” è la proposta di riforma elettorale depositata dal Movimento 5 stelle; proporzionali sono le proposte che vengono dalla minoranza del Pd e dalla sinistra radicale; per il proporzionale si è schierato – a sorpresa ma non troppo – addirittura Silvio Berlusconi, il cui merito storico, da tutti riconosciuto, è l’“invenzione” del bipolarismo maggioritario. Il nesso riforma-Italicum può dunque considerarsi valido in entrambe le direzioni, ma in un significato più profondo, più strategico: l’approvazione della riforma istituzionale consolida un sistema politico fondato sull’alternanza, cioè sulla possibilità di avere governi e maggioranze politiche omogenee scelte direttamente dagli elettori (il che naturalmente non significa che l’Italicum non possa essere cambiato). Al contrario, la conservazione dell’assetto esistente porta con sé la restaurazione di un sistema politico in cui le scelte si spostano dagli elettori alle segreterie dei partiti. O meglio: agli elettori è riservata la rappresentanza, maggiore con un sistema proporzionale, ma soltanto ai partiti spetta la governabilità. Il vero argomento a favore del proporzionale, come ha candidamente e sinceramente spiegato Eugenio Scalfari domenica scorsa, è impedire che il M5s vinca le prossime elezioni: poiché in Italia, come nel resto del mondo, ci sono i barbari alle porte, gli altri che barbari non sono – tutti gli altri – devono fare fronte comune. E’ accaduto in Germania e, seppur molto più faticosamente, in Spagna, e potrebbe accadere l’anno prossimo in Francia: perché non anche in Italia? Ma se davvero così stanno le cose, a me pare che ci sia un motivo in più per votare Sì. La rappresentanza proporzionale e il governo di coalizione non sono in sé un male, ci mancherebbe: ma rischiano di diventarlo quando vengono piegati alla necessità di salvarsi dai barbari. L’antipolitica – qualunque cosa significhi questo termine – non si sconfigge alzando un muro fortificato a protezione dell’establishment di sinistra e di destra: si sconfigge con la buona politica. E l’ossigeno della buona politica è l’alternanza, cioè la possibilità di avere alla guide del Paese un governo scelto dagli elettori, politicamente omogeneo, responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte. Altro che “deriva autoritaria”: l’alternativa è fra una democrazia che funziona e un sistema politico bloccato; fra il potere degli elettori e quello dei partiti o dei loro simulacri; fra l’apertura e la chiusura: in una parola, fra la responsabilità e l’inciucio. Da - http://www.unita.tv/opinioni/i-noisti-vogliono-il-proporzionale-perche-preferiscono-linciucio/
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:40:23 pm » |
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Focus Fabrizio Rondolino @frondolino · 19 dicembre 2016 Cosa vuol dire ripartire dal Mattarellum Terza Repubblica Aprendo al Mattarellum, Renzi ha aperto anche alla possibilità (non per forza alla necessità) di una coalizione Il cuore politico della relazione di Matteo Renzi all’Assemblea nazionale del Pd è la proposta di tornare al Mattarellum. Che il partito di maggioranza relativa, nonché primo azionista del governo, scelga con nettezza un sistema elettorale maggioritario non è probabilmente una novità – il Pd, almeno formalmente, non si è mai detto disponibile ad una legge elettorale proporzionale –, ma di certo segna una svolta importante nel dibattito politico, mette un punto fermo, circoscrive l’ambito della discussione e delle scelte. Il Pd nasce dentro il maggioritario, e anzi ne è l’espressione politica più compiuta: nelle intenzioni dei suoi fondatori – Veltroni, naturalmente: ma si potrebbero senz’altro aggiungere Arturo Parisi e Romano Prodi – il Pd rappresenta infatti il compiuto adeguamento organizzativo e politico della sinistra riformista, fino al 2008 divisa in due o più partiti, al bipolarismo introdotto per la prima volta nella Seconda repubblica proprio dal Mattarellum. E’ dunque significativo che Renzi, nel tratteggiare ieri la strategia del Pd post-referendum, si sia esplicitamente ricongiunto alla cultura politica che di quel partito ha segnato la nascita e la crescita. Scegliere di difendere il maggioritario, mentre sempre più impetuosi soffiano i venti della restaurazione proporzionale, significa difendere il meglio della storia politica di questo ventennio, e cioè la possibilità per gli elettori non soltanto di scegliere direttamente una coalizione, un leader e un programma di governo, ma anche di poterne scegliere un’altra la volta successiva. Governabilità e alternanza sono i due pilastri di una democrazia efficiente e responsabile. Riproporre il Mattarellum ha indubbi vantaggi tattici, oltreché la valenza strategica appena ricordata: si può fare molto in fretta (è sufficiente un disegno di legge composto di un solo articolo, che non necessita di emendamenti né di ulteriore lavoro parlamentare), è una legge già applicata con sostanziale successo nel corso di tre consultazioni tra il 1994 e il 2001, non può essere tacciata da nessuno di incostituzionalità, e come se non bastasse porta l’autorevole nome del Presidente della Repubblica in carica. C’è poi qualcosa in più che merita di essere sottolineato. Aprendo al Mattarellum, Renzi ha aperto anche alla possibilità (non per forza alla necessità) di una coalizione, implicitamente ammettendo ciò che alcuni osservatori, non necessariamente critici, avevano già osservato: e cioè che il Pd, per quanto grande e articolato possa essere o diventare, difficilmente riuscirebbe nel contesto attuale a raccogliere un consenso sufficientemente ampio per governare con tranquillità. Ma non è detto che ciò che è semplice, lineare e facile da fare diventi poi realtà. La prima incognita riguarda la maggioranza di governo: la preferenza della galassia centrista per il proporzionale è nota, e senza un’assicurazione sulle alleanze è difficile che Alfano accetti una legge elettorale che lo lascerebbe fuori dal Parlamento. Non è però scontato che il Pd accetti un’alleanza organica, o anche solo una desistenza elettorale, con Ncd e gli altri gruppi centristi. La seconda incognita chiama in causa Silvio Berlusconi. Mentre Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono subito detti a favore del Mattarellum – “purché si voti subito” –, da Forza Italia per ora è arrivato il no secco di Maurizio Gasparri. Che cosa dirà il Cavaliere? Dopo essere stato il campione riconosciuto del maggioritario, Berlusconi si è recentemente convertito al proporzionale, più che altro perché reputa assai difficile, allo stato, tornare a guidare una coalizione di centrodestra e preferisce dunque correre da solo. Vedremo. Quel che appare certo, è che se non ci fosse un accordo sul Mattarellum sarebbe assai difficile per questo Parlamento licenziare un’altra legge elettorale condivisa. Si andrebbe dunque al voto con un doppio Consultellum: quello già formalmente in vigore per il Senato, e quello che la Consulta ritaglierà per la Camera con la sentenza di fine gennaio sull’Italicum. L’inerzia, soprattutto nella politica italiana, ha una sua indiscutibile forza. Tocca oggi al Pd dimostrare che non sempre è così. Da - http://www.unita.tv/focus/cosa-vuol-dire-ripartire-dal-mattarellum/
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 26, 2017, 12:31:48 pm » |
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Focus Fabrizio Rondolino · 24 gennaio 2017 L’Ulivo? Già c’è, si chiama Partito democratico Quelli che lo ripropongono oggi in realtà vorrebbero la restaurazione partitocratica L’Ulivo esiste già, e si chiama Partito democratico. E’ sufficiente uno sguardo al simbolo per averne contezza: il ramoscello che fa capolino fra “Partito” e “Democratico” è lo stesso che adornava il simbolo della coalizione guidata da Romano Prodi nel 1996. E proprio Prodi, il 27 ottobre 2007, quando per la prima volta si riunì a Milano l’Assemblea Costituente Nazionale del Pd, fu eletto presidente della nuova formazione politica nata dalla fusione dei Ds e della Margherita, cioè delle due principali forze politiche che avevano dato vita proprio all’Ulivo (la Margherita, com’è noto, era nata a sua volta nel 2001 dalla confluenza del Partito popolare, dei Democratici di Prodi e di Rinnovamento italiano, la formazione di Lamberto Dini). Il Manifesto dei valori del Pd, approvato all’inizio del 2008, esplicitava l’origine del nuovo soggetto politico con queste parole: “Il Partito democratico rappresenta lo sviluppo e la realizzazione dell’Ulivo, come soggetto e progetto di centrosinistra nel quadro di un bipolarismo maturo”. Ma, diversamente dall’Ulivo e soprattutto dall’Unione (l’alleanza elettorale che portò nel 2006 alla seconda vittoria di Prodi, salvo poi sfarinarsi in meno di due anni), il Pd s’impegna fin dall’inizio nella “costruzione di un bipolarismo nuovo, fondato su chiare alleanze per il governo e non più su coalizioni eterogenee, il cui solo obiettivo sia battere l’avversario”. Il Manifesto è una lettura tutt’ora attuale, e vale la pena soffermarcisi ancora un po’: “Il Partito democratico si presenta agli italiani come un partito aperto, uno spazio concreto di dialogo costruttivo e propositivo; un laboratorio di idee e di progetti, in cui le diverse storie politiche, culturali ed umane che sono venute a formarlo diventano fattore di arricchimento e fecondazione reciproca”. Poco prima il Manifesto sottolineava che “nel Partito democratico confluiscono grandi tradizioni, consapevoli della loro inadeguatezza, da sole, a costituire un nuovo quadro politico di riferimento. […] Tuttavia il problema di oggi, se vogliamo far rivivere questo patrimonio, non è mettere insieme i resti di storie passate, ma elaborare una visione condivisa del mondo, costruendo su questa base il progetto di una nuova Italia”. Un’Italia, scrissero i fondatori del Pd, saldamente bipolare: “Nasce un partito che è determinato ad affrontare il nodo che sta soffocando il Paese: la mancanza di una democrazia forte, in grado di decidere”. Dunque, ricapitolando: dieci anni dopo la nascita dell’Ulivo, il Pd nasce per dare forma e continuità politica a quell’esperienza, eliminandone tuttavia gli aspetti più critici (a cominciare dalla frammentazione esasperata), e ancorandosi saldamente nella democrazia del maggioritario, giudicata ormai un approdo irrinunciabile. Perché dunque alcuni protagonisti di quella stagione, a cominciare da Prodi, l’indiscusso fondatore e leader storico tanto dell’Ulivo quanto del Pd, vagheggiano oggi un “ritorno all’Ulivo”? “L’esperienza del centrosinistra unito non è irripetibile”, ha infatti detto il Professore nei giorni scorsi fra gli applausi di Pier Luigi Bersani (“Penso che siano parole sacrosante e che sia l’ora, per chiunque la pensi così, di metterci impegno e generosità”), che già aveva annunciato di essersi messo alla ricerca di “un giovane Prodi”. La politica italiana non è nuova a contorcimenti lessicali, impennate retrograde, manipolazioni semantiche e, più banalmente, solenni prese in giro. Il silenzio di Matteo Renzi dopo la catastrofe referendaria ha riacceso le speranze dei suoi molti nemici, dentro e fuori il Pd, e la parola d’ordine del “ritorno all’Ulivo” sembra unificarne il campo. Ma l’Ulivo cui pensano i suoi nostalgici somiglia molto al suo contrario, o per meglio dire allude a tutto ciò che ha contribuito al fallimento di quell’esperienza, e che è stato giustamente messo da parte proprio con la nascita del Pd: la frammentazione esasperata del quadro politico, il moltiplicarsi dei “cespugli”, le “coalizioni omnibus” che prendono i voti ma non riescono a governare, la debolezza di un leader sena partito prigioniero dei partiti che lo sostengono, una certa aria di proporzionale, le sante alleanze contro qualcuno (ieri Berlusconi, oggi Grillo) anziché per il Paese, e una cronica, strutturale incapacità a decidere per via dei veti reciproci. In altre parole, l’Ulivo cui pensano oggi i nemici di Renzi è, sic et simpliciter, la restaurazione dell’oligarchia partitocratica. Non proprio un passo avanti, onestamente. Da - http://www.unita.tv/focus/lulivo-gia-ce-si-chiama-partito-democratico/
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 23, 2017, 11:19:53 am » |
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Opinioni Fabrizio Rondolino · 20 marzo 2017 Renziani scettici? Leggete Visco sul Fatto e si dissolverà ogni dubbio Il Fattone Anche il più tiepido dei renziani fuoriesce dalla lettura renzianissimo Può capitare anche ai più convinti sostenitori di Matteo Renzi di avere, a volte, qualche dubbio. Può capitare che questa o quella scelta dell’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pd, soprattutto dopo la sconfitta referendaria, appaia discutibile o lasci perplessi anche i simpatizzanti più generosi. Può capitare che persino a qualche fedelissimo venga un dubbio per di così universale, esistenziale, cosmico sul futuro politico di Renzi: in fondo, la botta è stata davvero dura e i nemici non hanno smesso di accanirsi. Poi uno legge l’intervista di Vincenzo Visco al Fatto di oggi e ogni perplessità, ogni dubbio, ogni distinguo si dissolve magicamente senza lasciare traccia alcuna: e anche il più tiepido dei renziani fuoriesce dalla lettura renzianissimo. L’ex ministro delle Finanze del governo Prodi (“Riempie le casse ma svuota le urne”, diceva di lui Massimo D’Alema) si lancia a testa bassa in un’invettiva che, per colpire Renzi, trascina nella polvere tre anni di governo, un ventennio almeni di storia politica italiana e l’intero Pd, al punto per persino l’intervistatore – l’educato Antonello Caporale – è costretto a chiedersi, e a chiedere a Visco, se la sua “severità” non sia in realtà “velata di rabbia”. Tanto per cominciare, Renzi è un deficiente: ha infatti spostato il Pd a destra “inconsapevolmente”, cioè senza alcuna riflessione, senza neppure volerlo, “a sua insaputa”. Un perfetto cretino. Un “incompetente”, come tutta la generazione venuta alla ribalta in questi anni, capace soltanto di “disastri”, posseduta dalla “fregola del potere” e naturalmente “di assoluta inconsistenza”. Mica come Visco che – parola di Visco – a soli trent’anni “arrivava in politica già ‘imparato’, aveva una competenza”, eppure “ha aspettato altri quindici prima di avere responsabilità di governo”. Imparate, idioti, imparate. Che cosa poi sia la destra e che cosa la sinistra, Visco lo spiega con queste parole: “La sinistra mette al centro la società e le dinamiche sociali. La destra l’individuo”. Neanche Amedeo Bordiga – non diciamo quei menscevichi di Tony Blair o Walter Veltroni – avrebbe potuto sottoscrivere una sintesi così rozza, scolastica e politicamente inservibile del pensiero politico contemporaneo. Ma Visco ne è a tal punto convinto da bocciare persino la legge sulle unioni civili: “Un governo che ha più attenzione per i diritti civili che per quelli sociali non è un governo che rispecchia i valori e le politiche di sinistra”. Manca soltanto la citazione sull’insignificanza della “sovrastruttura” e sui pericoli dell’“individualismo borghese” e il tuffo negli Anni Trenta della Russia sovietica è completo. Le conclusioni di Visco sono lapidarie: il Pd “si scomporrà e tutto ritornerà al giusto punto di origine”. Vale a dire che “la sinistra deve fare la sinistra, quelli di centro rifaranno una nuova Margherita”. Per riunirsi poi in un’alleanza di governo? Boh. Visco non si esprime. Del resto, chissenefrega del governo. L’importante è ritrovarsi con gli amici, e meno siamo e meglio stiamo, e in ogni salotto, mi raccomando, non dimentichiamoci mai di parlare con trasporto e viva emozione dei “diritti sociali” negletti da quel cialtrone di Renzi. Da - http://www.unita.tv/opinioni/renziani-scettici-leggete-visco-sul-fatto-e-si-dissolvera-ogni-dubbio/
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 22, 2017, 09:23:50 am » |
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Opinioni Fabrizio Rondolino · 21 aprile 2017 Zagrebelsky evoca il compromesso ma la Casaleggio non gli ha detto con chi Il goffo tentativo di dare la linea al M5S All'insaputa degli attivisti e dei dirigenti (sic!) del Movimento 5 Stelle, la Casaleggio Associati srl e il suo giornale di riferimento, il Falso Quotidiano, stanno preparando a modo loro lo sbarco – ipotetico, possibile, probabile? – a palazzo Chigi. E per farlo non c’è che una strada: la vecchia, classica, intramontabile politica delle alleanze. Casaleggio il Giovane, il principe ereditario divenuto re, aveva avviato la pratica a Ivrea, con il convegno in memoria del padre affollato – ma non troppo, nonostante l’entusiasmo dei media – di professori, manager, intellettuali e soprattutto giornalisti (i primi, per professione, ad annusare l’aria che tira). Il senso del convegno non stava tanto nei contenuti – a dir poco gassosi – quanto nel parterre: per la prima volta il mondo grillino si apriva al mondo reale. Meno riuscito l’affondo sulla Chiesa: l’asse teo-grillino (e ruiniano) Avvenire-Corriere, con la doppia e simultanea intervista a Beppe Grillo che parlava bene dei cattolici e a Marco Tarquinio che parlava bene dei grillini, è stato prontamente stroncato dall’episcopato italiano, fortunatamente indisponibile ad un ruinismo 2.0. Sul Falso Quotidiano di oggi Marco Casaleggio Travaglio compie un passo in avanti e, come si suol dire, mette i piedi nel piatto: e per farlo – le strade del grillismo sono a quanto pare infinite – recluta nientepopodimenoché l’Emerito Gustavo Zagrebelsky, il difensore senza macchia né paura della Costituzione, del diritto e della verità. Il richiamo in prima pagina è ammiccante: “Proposta anti-inciucio: ‘M5S chieda prima del voto un’alleanza su pochi punti’”. Nell’intervista a Silvia Truzzi, l’Emerito si esibisce nel tentativo, invero intellettualmente un po’ goffo, di riabilitare tanto il “populismo” (“Non appena appare qualcuno o qualcosa che incontra un vasto consenso di popolo c’è qualcuno che non è d’accordo e allora sventola il pericolo populista”) quanto il “sovranismo” (“L’obiettivo [della Costituzione-ndr] si è di fatto rovesciato in cessione di sovranità politica a favore di sovranità senza popolo”). Opportunamente istruito da Marco Casaleggio Travaglio, l’Emerito si spinge oltre, e acutamente distingue fra “inciucio di potere nelle segrete stanze tipo Patto del Nazareno” e “accordo programmatico” su “cinque, sei punti chiari e concreti”. Per impedire il primo – cioè l’accordo “di potere” fra Pd e Forza Italia – l’Emerito invita i grillini a perseguire il secondo, cioè “un compromesso non inciucista”. Con chi? Boh. L’Emerito su questo non si pronuncia: alla Casaleggio Associati non hanno ancora deciso. Da - http://www.unita.tv/opinioni/zagrebelsky-evoca-il-compromesso-ma-la-casaleggio-non-gli-detto-con-chi/
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