Tra le barelle del San Camillo: “Con un cancro aspettiamo da 15 ore”
Al Pronto soccorso dove è morto Marcello Cairoli: di notte i barboni in sala d’attesa
Ogni anno al Pronto soccorso dell’ospedale San Camillo di Roma vengono assistite 90mila persone
07/10/2016
ANTONIO PITONI
ROMA
Saranno in tutto una ventina, in sala d’attesa, i familiari che aspettano notizie dei propri cari. C’è chi è lì dalla notte precedente. Altri sono appena arrivati. E’ il tempo che scorre, scandito dall’intervallo che separa le sirene di un’ambulanza che arriva e quelle di un’altra che parte, la variabile imprevedibile. «Sai quando entri, ma non sai quando uscirai». Alle due del pomeriggio la signora Angela Curella è ancora lì, su una panchina allestita all’esterno del pronto soccorso del San Camillo di Roma. «Siamo arrivati ieri sera da Civitavecchia intorno alle 22,30», racconta. «Mio marito ha un tumore alla vescica, ha avuto delle perdite di sangue e abbiamo deciso di venire qui: è ancora in attesa di un letto nel reparto di urologia», spiega con il volto provato da oltre quindici ore di snervante attesa.
Qui, in uno dei presidi ospedalieri più grandi della capitale, dove solo nel pronto soccorso vengono assistiti 90 mila pazienti ogni anno, la storia di Angela è un déjà-vu che si ripete ciclicamente. Il giorno seguente il caso di Marcello Cairoli, malato terminale di cancro, morto dopo aver trascorso le ultime 56 ore della propria vita «accanto anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti», come denunciato dal figlio Patrizio in una lettera al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, la routine ha ripreso il suo corso. Alle prese con mezzi e strutture spesso non all’altezza e le mille difficoltà che finiscono, a volte, per risucchiare ogni senso di umanità verso i pazienti, che pure non dovrebbe mai mancare, nel vortice dell’indifferenza. «Lo scriva che ieri notte qui la situazione era impossibile: nei bagni non ci si poteva entrare e poi c’erano dei barboni che si aggiravano per la sala d’attesa chiedendo soldi per comprarsi qualcosa da mangiare», insiste la signora Angela. Il giorno dopo la situazione sembra sotto controllo. In sala d’attesa si scambiano due chiacchiere, ci si racconta dei propri cari dall’altra parte della vetrata che separa la sala d’attesa dal reparto di urgenza. Un brusio tranquillo che si interrompe solo quando, di tanto in tanto, una voce chiama un nome per dare notizie e informazioni sui pazienti. Anche i bagni sono decenti: dal registro affisso sulla porta risulta che sono stati puliti due volte, alle 8 e alle 10,15 del mattino.
E’ al di là di quella vetrata che Patrizio aveva protestato. Chiedendo una stanza in reparto o in terapia intensiva. Rivendicava solo dignità per le ultime ore di vita del papà malato. Ha dovuto accontentarsi di un paravento. «Perché gli altri servono per garantire la privacy durante le visite», gli è stato spiegato. «Una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi», ha scritto alla Lorenzin.
Emanuele Guglielmelli, direttore dell’unità di medicina d’urgenza e pronto soccorso del San Camillo – quello che una volta molto più semplicemente si chiamava primario – ha passato la giornata a rispondere alle domande dei giornalisti. «Qui abbiamo a disposizione un numero di posti limitato rispetto alle richieste, che in ogni caso facciamo di tutto per soddisfare interamente – spiega –. Il problema si fa più delicato quando abbiamo di fronte due pazienti e un solo posto letto». Un dilemma quotidiano. «Tra un paziente al quale non si può fare altro che assicurare una morte dignitosa e un altro che, invece, può essere salvato siamo costretti a fare una scelta», aggiunge Guglielmelli. E nel caso del signor Cairoli la scelta è stata di lasciarlo al pronto soccorso in mezzo agli altri pazienti. «Ma gli abbiamo assicurato il massimo delle cure e delle attenzioni possibili in quella situazione», conclude il direttore del pronto soccorso.
In questa vicenda, però, non c’è solo il profilo medico. C’è anche il rovescio umano della vicenda. «Quanto accaduto al signor Marcello Cairoli non doveva succedere. In Italia il pronto soccorso non è e non deve essere l’ultima tappa della vita di un paziente oncologico», ha fatto sapere la ministra Lorenzin. Eppure è il suo stesso dicastero a fotografare una situazione disarmante: in 5 anni il sistema sanitario ha perso 24.155 posti letto. Due ore dopo, in sala d’attesa, le facce sono quasi tutte ancora le stesse. Al San Camillo, è il tempo che scorre la variabile imprevedibile. «Chissà quando finirà tutta questa attesa», allarga le braccia una signora. Già, chissà quando.
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