Intervista a Mattarella: “Europa, è l’ora della concretezza. Così l’Italia può fare la differenza”
Il Presidente della Repubblica: “L’Ue sappia legittimarsi di fronte alle attese della gente. Servono risposte comuni su economia, migranti e sicurezza. Non tergiversare su Brexit”
Sergio Mattarella è presidente della Repubblica Italiana dal 3 febbraio del 2015
28/06/2016
Maurizio Molinari
Roma
«Per l’Europa è il momento di dimostrare responsabilità e l’Italia può essere protagonista»: con toni pacati, attenzione per i vocaboli e grande determinazione il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, commenta l’impatto del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
L’incontro si svolge nel suo studio, Mattarella ha a fianco alcuni dei consiglieri più fidati e con me c’è il quirinalista Ugo Magri. Il Presidente illustra la visione della sfida che l’Unione ha davanti: «È il momento di rispondere con i contenuti» per generare «risposte comuni su economia, immigrazione e sicurezza». Esperienza nella politica estera e di sicurezza, consapevolezza del valore dell’Europa e impellenza di rilanciare il progetto comunitario portano Mattarella a vedere nell’Italia «un Paese che può fare la differenza» in questa delicata fase di transizione. «Possiamo essere noi a portare stabilità, proiettare responsabilità» in Europa. Come dire: per l’Italia è il momento di essere protagonista «come ha già dimostrato di saper fare presentando con il Migration Compact e le proposte del ministro Padoan due documenti che hanno registrato convergenze ed apprezzamento».
Signor Presidente, cosa pensa della scelta del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea?
«Il voto dell’elettorato, nazionale o di un altro Paese, va sempre rispettato, anche quando provoca rammarico e lo si ritiene un errore. Non si può tacere che quel voto cancella quasi mezzo secolo di storia britannica, quello della partecipazione alla Ue e ferisce la completezza dell’Unione. Sorprende che uno dei Paesi più aperti al futuro in tanti aspetti, finanziari, scientifici, culturali, abbia fatto una scelta che sembra proporsi di ripristinare condizioni del passato; un passato che non c’è più. Il mondo è cambiato: i problemi che presenta sono di natura globale e richiedono, quotidianamente, risposte sovrannazionali. Il suo scenario è già oggi, è sarà sempre più, influenzato da protagonisti di grandi dimensioni, da superstati: basta pensare agli Usa, alla Cina, alla Russia, all’India. Anche per questo, in diverse parti del mondo, dall’America Latina all’Asia, vi sono esperienze di collaborazione che guardano all’esempio e al successo dell’integrazione europea».
Che cosa si aspetta da questo passaggio così impegnativo per l’Europa?
«Si apre una stagione molto difficile: vengono meno alibi e abitudini consolidate nella vita dell’Unione. Dal punto di vista italiano dovrà essere l’occasione per superare ritardi e resistenze ormai inaccettabili, recuperando appieno il senso storico dell’integrazione d’Europa e la coesione dell’Unione. L’Europa è un progetto ambizioso e coraggioso, sorretto dall’aspirazione alla pace e al progresso. Costituisce la maggior garanzia di libertà per i popoli che vi appartengono. Cadevano i muri dettati dalla Cortina di Ferro e le persone applaudivano perché avvertivano la conquista della libertà. Entrando in Europa i popoli dell’Est europeo e dei Balcani ne percepivano l’immediato significato di accesso a un’area di pace e di relativa ma comunque maggior prosperità. È indispensabile impedire che si disfi questo tessuto di collaborazione e di impegno comune che garantisce pace a un Continente diviso per secoli da lotte sanguinose. Come è possibile che tutto questo possa esser dipinto come il regno della oppressione burocratica? Come è possibile che l’unico organismo sovrannazionale dotato di un Parlamento eletto direttamente dai cittadini venga percepito come antidemocratico? Riproporre muri e barriere ci renderebbe forse più liberi? Da chi dovremmo guardarci? Da austriaci, sloveni e francesi? Rinunciare alla collaborazione con i popoli e i Paesi europei che condividono gli stessi valori ci renderebbe forse più sicuri contro i rischi ed i pericoli che derivano da sfide globali come quelle lanciate dai terroristi? La risposta a questi elementari interrogativi ciascuno la cerchi usando il buonsenso del padre di famiglia, per rifarsi all’antico diritto romano e al codice civile. Bisogna porsi queste domande e sotto accusa vanno piuttosto alcune politiche europee che si sono rivelate asfittiche, e la loro gestione, non certo la prospettiva della cooperazione continentale. Ciò che è necessario, quindi, è una efficace iniziativa politica che rilanci l’Unione in conformità alle sue ragioni fondanti».
Cosa ha pensato dopo il voto britannico sul referendum?
Le spinte centrifughe si registrano un po’ ovunque. L’Ue sembra non riuscire più a rappresentare un polo positivo di attrazione. Come mai questo ripiegamento su se stessa?
«Ogni progetto lasciato a metà evidenzia più i difetti che i pregi che possiede. L’edificio è incompiuto. Con tenacia, in questi decenni, ci si è battuti per mettere in comune le cose che potevano unirci. Ora, dopo la Brexit, all’improvviso la pubblica opinione comprende, con allarme, che il modello di vita che abbiamo sperimentato non è scontato. Può benissimo regredire. Le nostre merci possono tornare a sostare alle frontiere invece di circolare in un mercato comune a vantaggio dei consumatori, con effetti letali per la nostra economia. I titoli di studio dei nostri figli possono tornare a valere esclusivamente nel nostro Paese, dando addio a tante opportunità e non soltanto al Progetto Erasmus. Il valore della moneta e dei risparmi, che vi sono collegati, possono tornare sull’altalena di un’inflazione a due cifre che erode la ricchezza delle famiglie, già provate dalla crisi. Si potrebbe continuare. Detto in termini disadorni, ciascuno può tornare a ritrovarsi solo di fronte alle prove del futuro. Va detto che i successi del percorso di progressiva integrazione continentale vanno spiegati e difesi giorno per giorno. L’Europa deve sapersi legittimare quotidianamente di fronte alle attese della gente. Il rischio, dopo la crisi finanziaria globale, è stato ed è quello di una Europa ripiegata sui problemi della finanza e dei conti pubblici. Questione essenziale per porre in comune risorse e fronteggiare effetti non desiderati della globalizzazione ma l’Europa è, anzitutto, quella dei diritti, di una strategia per la crescita e l’occupazione, della costruzione di un sistema di welfare condiviso, della ripresa del cammino per una effettiva Carta sociale continentale».
Che cosa accadrà ora nei rapporti con Londra?
«Il Consiglio europeo di oggi riveste importanza particolarmente grande ed è bene, quindi, che sia preceduto da incontri preparatori, come quello di ieri a Berlino tra Hollande, la Merkel e Renzi. L’esigenza è quella di far comprendere che l’Unione continua con convinta determinazione il suo percorso di integrazione. A questo scopo è importante rendere operativo il percorso conseguente alla decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione. Si tratta, del resto, di un atteggiamento di rispetto vicendevole e, anzitutto, nei confronti del voto espresso dai britannici: sarebbe poco rispettoso tergiversare sull’attuazione della decisione referendaria. Sarebbe, inoltre, un errore tenere nell’incertezza, provocata da condizioni anomale, la vita dell’Unione. Si aprono, in realtà, due negoziati, distinti concettualmente e necessariamente separati: da un lato quello sulle condizioni di uscita per risolvere i rapporti esistenti, dall’altro quello sulle successive relazioni tra l’Unione e il Regno Unito ormai esterno ad essa. Occorre concludere presto il primo negoziato anche per definire, per quanto possibile sollecitamente, la seconda trattativa con quello che rimane, naturalmente, un Paese amico e alleato e assicurare così, con chiarezza di prospettive, forme praticabili di cooperazione, anche pensando a quei giovani britannici che si sono espressi per la permanenza nell’Unione e che saranno i nostri interlocutori nei prossimi anni».
Dove rischia di portare la ripresa degli egoismi nazionali, cavalcati da movimenti di matrice populista e anti-sistema? Siamo ancora in tempo per rilanciare l’idea di Europa?
«Il processo d’integrazione europea, in maniera costante e direi quasi silenziosa, ha prodotto risultati concreti e visibili in fatto di tutela e promozione di diritti, e di progresso economico e sociale che costituiscono un patrimonio comune e indivisibile della nostra Unione. Visioni nazionalistiche miopi mettono in dubbio questi risultati proponendo scorciatoie del secolo scorso, sfociate in fallimenti drammatici. Illudersi di chiudere il mondo fuori dall’uscio di casa è la via sicura per essere sconfitti e marginalizzati sul piano della difesa degli autentici interessi nazionali. Quale sarebbe il “costo’’ della non Europa in termini economici e politici? Come si può pensare che possiamo permettercelo? Cosa accadrebbe se, accanto alla grave situazione che fronteggiamo nel Mediterraneo, alle guerre medio-orientali, al conflitto apertosi tra Russia e Ucraina, dovessimo aggiungere una ritrovata ostilità tra i Paesi dell’Unione, fuggiti da regole comuni di convivenza?».
Delle tre grandi emergenze collettive che si affacciano a livello internazionale - crisi economica, immigrazione e terrorismo - quale reputa la più insidiosa?
«Le sfide costringono a una risposta, a una reazione, ma sono ben lungi dal definire una ragion d’essere. Pensare che una realtà come l’Unione Europea esista solo per giocare in difesa sarebbe una visione profondamente errata ma, naturalmente, dobbiamo rispondere alle tre sfide parallele presenti, tutte particolarmente gravi. La sfida del terrorismo impone una maggiore integrazione, sia per affrontare la minaccia interna, sia per accrescere la capacità dell’Ue di contribuire a contrastarlo laddove nasce. La gestione dei flussi migratori richiede nel contempo maggiore solidarietà interna ed un ruolo più attivo di proiezione esterna della Ue in collaborazione con Paesi terzi e partner internazionali. A questo tende il Migration Compact presentato dall’Italia. Abbiamo accantonato in questi anni le politiche che puntavano, secondo una definizione di Prodi, a creare intorno alle Ue un anello di Paesi amici. L’Europa è apparsa spesso chiusa in una logica autoreferenziale. Completare l’Unione economica e monetaria per sbloccarne il potenziale inespresso; rafforzare l’Unione bancaria per restituire fiducia nel settore bancario, cruciale per la crescita e favorire la concessione di crediti per gli investimenti; pensare ad un meccanismo comune che contrasti la disoccupazione ciclica; usare i margini di flessibilità previsti dalle regole di bilancio per promuovere investimenti produttivi: sono queste alcune delle priorità che, se realizzate, contribuiranno a rafforzare un’Unione che appare disorientata».
L’Italia è favorevole a un allargamento dell’Ue ai Balcani, a cominciare dalla Serbia. Non è un azzardo, in considerazione delle tensioni che ancora si avvertono in quell’area?
«Così come l’Europa limitata all’Occidente non le permetteva di sentirsi realizzata appieno, così oggi non appare completa senza la presenza dei Paesi Sud-Orientali. La prospettiva europea ha già sostenuto questi Paesi nella crescita, nella soluzione di conflitti e tensioni, nello sforzo di costruire società stabili e in crescita. I progressi registrati nell’area, le riforme che sono state fatte dai Paesi dei Balcani, il rafforzamento dello Stato di diritto, sono tutti passi avanti compiuti proprio pensando all’avvicinamento all’Europa. E’ una constatazione che ho visto confermata recentemente a Sarajevo, pur senza negare il cammino che rimane da fare. Anche su questo fronte non possiamo fermarci a metà dell’opera. Il rischio di instabilità nei Balcani crescerebbe ampiamente se la prospettiva europea, per quanto graduale nel tempo, venisse a mancare. Come potremmo affrontare insieme sfide vitali condivise come i flussi migratori, o la radicalizzazione ed i “Foreign Fighters”, in assenza di una prospettiva comune? E quanto questo costerebbe ai Paesi dell’Unione sotto molti aspetti? L’Europa può permettersi Balcani senza prospettiva europea, dove rinascano tensioni nazionaliste che porterebbero instabilità? La risposta dell’Italia è: certamente no».
Dopo le stragi di Parigi, Bruxelles e Orlando come rispondere alla sfida alla sicurezza collettiva che viene dai gruppi jihadisti? La risposta al terrorismo islamico richiede una nuova dottrina di sicurezza?
«Il terrorismo è ormai da diversi decenni una delle principali minacce con cui la comunità internazionale è chiamata a confrontarsi. Non possiamo dimenticare che, anche se Daesh e i suoi affiliati rappresentano spesso una fonte di ispirazione, gli attentati in Europa e negli Stati Uniti hanno trovato origine nella radicalizzazione di giovani che sono nati e cresciuti in queste società. Occorre affrontare questa sfida con una strategia, in cui la componente militare e securitaria rappresenta un elemento importante ma non risolutivo: va affiancato da misure di carattere politico, diplomatico, socio-economico, culturale e di cooperazione allo sviluppo. La forza serve a contrastare e prevenire la minaccia, ma la politica può tagliarne le radici. Quanto al ruolo della Nato, occorre in primo luogo ricordare che l’Europa e gli Stati Uniti hanno cooperato da subito nel contrasto al terrorismo transnazionale: le operazioni militari in Afghanistan sono nate come risposta immediata all’11 settembre. E del resto la Nato è da sempre il foro in cui il legame transatlantico si rinnova, non solo dal punto di vista politico, ma anche sotto il profilo della cooperazione concreta. Bisogna però tenere presente che qualunque apporto la Nato potrà dare, non potrà che essere parte complementare di una azione complessa di lotta al terrorismo».
L’8 e il 9 luglio si terrà a Varsavia il summit della Nato. Quale approccio dobbiamo avere come Alleanza alle guerre in Libia e Siria? Serve una nuova strategia per il Mediterraneo? Bisogna ripensare il legame con la Russia?
«Il prossimo Vertice Nato sarà un’occasione importante per dare risposte ad alcuni interrogativi. Da un lato le richieste di rafforzamento del dispositivo militare avanzate dagli Alleati baltici e orientali; dall’altro la consapevolezza che la Nato non può evadere, a Sud, le sfide non convenzionali poste dall’instabilità, dai conflitti nel Medio Oriente allargato, nell’area del Mediterraneo, cui si collega in buona misura il terrorismo fondamentalista, emergenza prioritaria nell’agenda internazionale. Il dialogo e l’inclusione sono per l’Italia un’esigenza vitale: in Libia non ci sono prospettive di perfezionamento del quadro giuridico internazionale in uno scenario di stabilizzazione post conflitto senza il coinvolgimento anche della Russia in Consiglio di Sicurezza; e Mosca è altresì divenuta essenziale nella soluzione del conflitto siriano. Il ruolo dell’Iran è altrettanto importante in Siria e Libano, mentre le prospettive di riconciliazione in Afghanistan non possono prescindere da un atteggiamento costruttivo del Pakistan. Le tensioni hanno un costo elevato per tutti: spingono al rialzo le spese militari, riducono le prospettive di crescita, aumentano le incognite sulla sicurezza non solo della regione euro-atlantica, ma anche nel Mediterraneo. Il nostro compito è favorire il dialogo e incoraggiare comportamenti responsabili di tutte le parti in causa. A partire dal conflitto russo-ucraino dove la parola deve passare davvero alla diplomazia. Rassegnarsi all’ennesimo congelamento della situazione appare dissennato. Comprendiamo e condividiamo le ragioni di preoccupazione di tanti nostri alleati ma ci chiediamo: siamo davvero convinti che caricare di ulteriori tensioni il confronto contribuisca alla sua soluzione? Il rafforzamento delle misure militari di rassicurazione per i nostri alleati dell’Europa orientale deve accompagnarsi al dialogo politico al massimo livello: per evitare ogni ulteriore escalation con la Federazione Russa riteniamo sia indispensabile mantenere aperto ogni canale di comunicazione - a partire dal Consiglio Nato-Russia - e ribadire, anche nella comunicazione pubblica, la natura strettamente difensiva dei dispositivi militari dell’Alleanza».
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