La Turchia dal presidente al sultano
01/06/2016
Giuseppe Cucchi
Tre anni fa, allorché ad Istanbul iniziarono le dimostrazioni di piazza Taksim contro la trasformazione in complesso commerciale dell’area di Gezi Park, la traiettoria politica di Erdogan sembrava destinata a continuare senza ostacoli la propria crescita, apparentemente irresistibile.
In patria la contrapposizione fra l’impostazione confessionale del Partito della Giustizia e Libertà e la laicità della costituzione di Atatürk, di cui le forze armate erano state per circa ottanta anni gelose custodi, appariva definitivamente superata grazie anche ad alcuni processi che avevano stroncato, con inflessibile decisione, l’opposizione dei militari più anziani.
Continuava nel frattempo, malgrado la generale sfavorevole congiuntura mondiale, il «miracolo economico» turco.
Il Paese era arrivato a fruire per anni di tassi di sviluppo estremamente elevati: un ciclo che soltanto ora appare definitivamente concluso.
Il modello anatolico veniva così percepito pressoché ovunque come un modello ideale di islamismo moderato, capace di coniugare armoniosamente religiosità, tolleranza e sviluppo.
Come tale esso veniva indicato quale un esempio a tutti i paesi islamici percorsi da fermenti di cambiamento e di progresso, primi fra tutti quelli che, usciti dalle «primavere arabe», esitavano fra differenti destini. Il maggiore problema di sicurezza interno della Turchia, consistente nella gestione della minoranza curda, sembrava in via di superamento attraverso la costituzione di un partito politico intenzionato a entrare nella competizione elettorale ed a cercare di superare la soglia del dieci per cento dei consensi necessaria ad inviare propri rappresentanti in Parlamento.
In politica estera poi, anche se la speranza di poter un giorno accedere all’Unione Europea si era rivelata per la Turchia del tutto illusoria, il paese manteneva intatto il suo sistema di amicizie e di alleanze, continuando a rimaner fedele alla massima del ministro degli Esteri e massimo ideologo turco, Davutoglu, che proclamava l’indispensabilità di non avere «alcun nemico ai confini».
La brutale repressione di piazza Taksim, ove la polizia ha proceduto contro i dimostranti con durezza del tutto sproporzionata uccidendone nove, ferendone più di ottomila e mandandone circa novecento sotto processo alla conclusione di un lungo periodo di scontri, ha segnato però un tornante, una chiara virata del regime in senso maggiormente autoritario.
Da quel momento in un certo senso Erdogan ha gettato la maschera, procedendo senza alcuna esitazione a personalizzare quanto sino ad allora era stato contrabbandato solo come aspirazione politica e di partito e cercando di concentrare nelle proprie mani il controllo assoluto del Paese.
Un tentativo che per fortuna ha trovato almeno per il momento un ostacolo nella Costituzione di Atatürk e nella impossibilità di Erdogan di modificarla in senso maggiormente presidenziale senza disporre di una maggioranza assoluta in Parlamento. Essenziale in questo processo è risultato il ruolo del Partito Curdo, anche se una recente iniziativa di legge presidenziale tenta ora di rimuovere l’ostacolo togliendo ai deputati curdi l’immunità parlamentare ed in tal modo invalidando l’elezione di decine di essi.
La continua crescita del controllo di Erdogan sulla Turchia si sta inoltre evidenziando anche in altre forme, prima fra tutte l’eliminazione dalla scena politica di chiunque si ostini a pensare con la propria testa e non accetti l’idea di dover fornire al Presidente «una obbedienza cieca, rispettosa ed assoluta», come si diceva un tempo.
La prima vittima di questa epurazione interna è stato non a caso Davutoglu, divenuto nel frattempo primo ministro e colpevole, fra l’altro, di godere di una considerazione tale da potergli consentire un giorno di essere considerato come una possibile ragionevole alternativa ad Erdogan.
Nel frattempo anche in ambito internazionale la politica di Erdogan si è fatta più azzardata, alienandogli le simpatie di Washington, che lo accusa di eccessiva disinvoltura nel creare incidenti con i russi operanti in Siria, nonché quelle di una Unione Europea che ha pagato il ricatto per frenare l’invasione dei migranti lungo la rotta balcanica ma non ha certo gradito il modo in cui la Turchia ha strumentalizzato e monetizzato le sue paure.
A fattor comune per tutto l’Occidente giocano poi anche il ruolo ambiguo di Erdogan e della sua famiglia nei riguardi dell’Isis, nonché quello che i turchi rivestono nella lotta per il predominio in atto, senza esclusione di colpi, nel mondo sunnita.
Un complesso di fattori che in altri tempi avrebbe già portato a una presa di posizione in senso anti presidenziale, spontanea o indotta, da parte di quei militari turchi che invece ora continuano ad obbedire tacendo.
Ma sino a quando?
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