Benvenuto: “La Cgil di Lama sul Jobs Act avrebbe trattato allo stremo”
Intervista all'ex segretario della Uil. "Quando un ministro si assumeva un impegno si sapeva che lo avrebbe mantenuto. Oggi parli con un ministro e subito viene smentito con un tweet"Di PAOLO GRISERI
31 maggio 2016
Racconta l'episodio con una certa ritrosia. Altra generazione Giorgio Benvenuto, 79 anni, segretario generale della Uil tra il ‘76 e il ‘92. «Per Luciano Lama la trattativa era il cuore del mestiere del sindacalista. Qualche volta io e Carniti, allora segretario generale della Cisl, eravamo più propensi a rompere. Lui ci diceva: "Rompere è facile, ricostruire molto più complicato. Noi dobbiamo trattare sempre. Anche se un imprenditore viene a proporti in cambio di andare con tua moglie tu, da sindacalista, devi rispondergli: discutiamone" . Un paradosso, naturalmente».
Benvenuto, trattare sempre è una regola facile a dirsi. Ma secondo lei Lama avrebbe trattato anche sul Jobs act o avrebbe raccolto le firme per un referendum abrogativo?
«Avrebbe trattato fino all'ultimo. Così faceva. Oggi le condizioni sono molto diverse e non invidio chi oggi fa il mestiere del sindacalista. Un tempo i nostri interlocutori erano rappresentativi. Quando si trattava con il ministro del Lavoro Donat-Cattin sapevamo che se lui si assumeva un impegno quell'impegno era mantenuto. In caso contrario si sarebbe dimesso. Oggi è molto diverso. Tratti con un ministro e cinque minuti dopo viene smentito con un tweet».
Quando conobbe Lama?
«Ero molto giovane. Mio zio era segretario generale degli statali della Cgil. Era socialista, rimase nella Cgil fino all'invasione dell'Ungheria nel 1956. Ricordo le riunioni a casa dello zio con Lama e Di Vittorio, segretario generale della Cgil».
Che sindacalista era Lama?
«Aveva il terrore delle divisioni nel sindacato. E teorizzava l'autonomia dai partiti. Oggi che i partiti non ci sono più può sembrare una discussione datata ma non lo è».
Qual l'attualità del tema?
«Noi fummo accusati di pansindacalismo. Cgil-Cisl e Uil erano forti, avevano consenso e certamente erano in grado di orientare le scelte della politica. Oggi siamo invece, mi pare, al panpoliticismo: la politica decide senza consultare nessuno. Non mi pare che la situazione sia migliore di allora».
Oggi i sindacati sono divisi...
«Lama raccontava un episodio autocritico. Quando nel 1948 ci fu la rottura tra cattolici e comunisti e i primi lasciarono la Cgil per fondare la Cisl, Lama era sollevato: "Finalmente — disse a Di Vittorio — saremo più liberi di decidere senza dover mediare sempre con quelli là". Poi però si pentì: "Non eravamo più liberi — diceva — siamo diventati più deboli". Per questo aveva l'ossessione dell'unità».
Un sindacato unito e autonomo dai partiti. Eppure fu con Lama segretario, nel 1984, che si consumò la rottura sul taglio della scala mobile. Voi e la Cisl favorevoli al provvedimento di Craxi, i comunisti della Cgil contrari.
«Fu certamente un momento difficile. Ma voglio ricordare che nei 15 anni in cui la Cgil fu guidata da Lama prima e da Trentin poi, non ci fu mai uno sciopero generale separato. La Cgil era divisa al suo interno. Ma quando ci fu l'appello finale al voto sul referendum, Lama volle in tv accanto a se Del Turco, principale esponente della corrente socialista, e ognuno dei due spiegò il suo punto di vista pubblicamente».
Non fu la Cgil a chiedere il referendum sulla scala mobile...
«Fare paragoni tra oggi e allora non sarebbe corretto. Com'è noto il sindacalista Lama non era entusiasta del referendum che fu promosso dal Pci».
Nel 1978, con un'intervista a Repubblica, Lama annunciò a Eugenio Scalfari che la Cgil era favorevole a una politica di sacrifici anche per i lavoratori. Furono quelli i prodromi della concertazione?
«Lama non la chiamava concertazione, un termine che sarebbe stato utilizzato negli anni Novanta. Lama lo chiamava scambio e in quell'intervista aveva illustrato il senso di un documento unitario che proponeva di scambiare flessibilità nell'utilizzo della forza lavoro con nuova occupazione e di ridurre la durata della cassa integrazione per evitare che si trasformasse in assistenzialismo».
Temi attuali oggi?
«Molto attuali. La principale differenza è che all'epoca i giovani erano nelle fabbriche e non fuori dai luoghi di lavoro. Ma certo l'idea che il sindacato si facesse carico non solo degli interessi dei suoi iscritti ma di quelli dell'intera società italiana, come avvenne poi anche nella concertazione, rappresentava all'epoca una svolta forte».
Oggi non sarebbe possibile?
«Oggi il sindacato ha innanzitutto il problema di riuscire a incontrare i suoi interlocutori. E spero che sia alle spalle la stagione in cui si andava in assemblea in fabbrica non per cercare di far contare i lavoratori ma per contarsi tra organizzazioni».
Qual è l'errore più grande che si rimprovera dei vostri anni?
«Di aver guardato esclusivamente all'Italia e molto poco all'Europa e a quella globalizzazione che sarebbe arrivata dopo la caduta del Muro di Berlino».
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31 maggio 2016
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