Scenario
Addio al contratto nazionale di lavoro nel 2016? Ecco chi ci guadagna e chi ci perde
Il governo vuole abolire la negoziazione unica nazionale entro la fine dell’anno.
Per favorire l’innovazione. Ma il rischio è che i salari scendano
Di Luca Piana, Gloria Riva e Stefano Vergine03 febbraio 2016
Siete pronti a dire addio al contratto nazionale di lavoro? È proprio questo lo scenario con cui gli italiani potrebbero ritrovarsi a fare i conti in questo 2016. Al di là della cautela con cui un argomento così delicato viene affrontato, lo si può dedurre persino da una frase detta giovedì 21 gennaio dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, sul processo che il governo ha avviato per riformare i contratti: «Dobbiamo lasciare alle parti lo spazio per un confronto. Se poi dovessimo prendere atto che non sono nelle condizioni di decidere, faremo le nostre considerazioni». Parole che sembrerebbero di fiducia, se non fosse che pochi giorni prima «le parti» evocate da Poletti, e cioè industriali e sindacati, si erano quasi prese a schiaffi.
Il 14 gennaio, infatti, i massimi vertici di Cgil, Cisl e Uil si erano incontrati a Roma, dopo anni di scontri, per mettere la firma sotto una proposta unitaria di riforma dei contratti nazionali. A Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, sono però bastati 32 minuti dall’inizio della riunione per chiudere la saracinesca: «La loro è una proposta già superata», ha detto, bollando come «una foto sbiadita» le ricette dei sindacati. «Forse si è guardato allo specchio», ha replicato a muso duro il leader della Uil, Carmelo Barbagallo. E Susanna Camusso, numero uno della Cgil: «Chi dice “siete vecchi” ha paura dell’innovazione».
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Un clima bollente, dunque, che potrebbe aprire la strada a una riforma calata dall’alto, cioè dal governo di Matteo Renzi. Il quale ha già tracciato un percorso in grado di avviare la rivoluzione. La prima mossa sarebbe quella di introdurre un salario minimo legale, cioè una paga minima oraria - l’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non averla - nei settori che non sono regolati da un contratto nazionale.
La misura è già stata predisposta in una delle deleghe del Jobs Act, non ancora approvata. I sindacati la considerano come un fuoco in grado di incendiare l’intero mondo del lavoro, perché potrebbe aprire a un allargamento del minimo salariale a tutti, svuotando gli accordi nazionali di ogni confronto sugli stipendi. E spostando i veri contenuti della negoziazione ai contratti di secondo livello, da trattare a livello aziendale o territoriale.
Uno scenario che, appunto, segnerebbe la fine dei mitici “contrattoni” con cui l’Italia si è mossa finora. E che metterebbe tutti di fronte al rischio che il salario minimo sia più basso rispetto ai livelli fissati dai contratti, se gli imprenditori e i sindacati non vorranno o non sapranno mettersi d’accordo su un sistema che premi in maniera molto consistente gli aumenti della produttività, vero obiettivo ultimo della contrattazione. Giusto per dare un’idea, basta un’occhiata alla Germania: il salario minimo lo ha introdotto nel 2015, ed è pari a 8,5 euro l’ora, a fronte dei 13,5 euro previsti oggi - ad esempio - dei metalmeccanici italiani.
È dunque prevedibile che sulla riforma, se il governo deciderà di portarla avanti in questi termini, si scatenerà un’onda di proteste. Allargando lo sguardo a quel che sta accadendo nel mondo del lavoro, tuttavia, sarebbe bene che governo, imprenditori e sindacati tentassero di capire quale modello, il contratto nazionale o il salario minimo, risponde meglio alle sfide che l’Italia sta già vivendo oggi, e che diventeranno sempre più pressanti nel giro di una manciata d’anni.
ARRIVANO I ROBOT
Il lettore può farsene un’idea guardando i grafici qui riportati. Mostrano che molti mestieri tradizionali subiranno una vera e propria spallata dal processo di innovazione tecnologica che sta cambiando l’economia. E che tantissime persone rischiano di perdere a breve il posto. Anche stime recenti del centro studi Bruegel dicono che più del 50 per cento dei posti di lavoro potrebbe essere a rischio a causa dei processi di automazione nei Paesi europei, Italia compresa.
Previsioni come queste, ha scritto il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel libro “Perché i tempi stanno cambiando”, «vanno prese con molta cautela, data l’ovvia difficoltà di attribuire percentuali di rischio a lavori il cui contenuto può profondamente mutare anche grazie alla tecnologia». Secondo Visco, inoltre, «alla perdita di determinati lavori corrisponderà certamente la nascita di nuovi, con un risultato netto tutto da determinare». Un processo di transizione che, va sottolineato, potrà creare occasioni ma che, nel frattempo, rischia di creare decine di migliaia di nuovi disoccupati.
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Il mondo del commercio, preso nella tagliola della crisi dei consumi e del boom delle vendite on line, mostra quanto le trasformazioni possano incidere non solo su chi il lavoro l’ha perso, ma anche su chi è riuscito finora a salvarlo. In questi mesi le multinazionali tipo Ikea, Auchan, Carrefour, Metro, hanno richiesto la disdetta del contratto di secondo livello, dopo aver già stracciato da due anni quello nazionale. «I processi tecnologici stanno trasformando il settore e da tempo sappiamo che la formula dell’ipermercato è in declino. Auchan, ad esempio, ha uno stato di crisi conclamato, eppure non abbandona il suo modello distributivo. Sono realtà che faticano a interagire con l’innovazione e il pericolo è che, se non reagiscono, vengano spazzate via», dice Fabrizio Russo, segretario generale della Filcams Cgil.
COME CAMBIANO LE PROFESSIONI
Al di fuori delle aziende più tradizionali, però, l’innovazione può offrire chance di sviluppo tutte da cogliere. Maurizio Costabeber, 51 anni, due settimane fa ha inaugurato la nuova fabbrica di Vicenza della sua Dws Systems, che produce stampanti in 3D di dimensioni anche molto piccole, in grado di produrre gli oggetti più diversi in 50 materiali diversi. I clienti sono laboratori dentistici, oreficerie, designer o chiunque abbia bisogno di prototipi o oggetti in plastica. La caratteristica della Dws è realizzare tutto, l’apparecchio, il software, l’inchiostro e il dispositivo laser per il taglio dei materiali. Per ora ha 35 dipendenti e fattura poco più di 5 milioni ma le previsioni per il futuro immediato stimano una forte crescita del giro d’affari, al punto che Costabeber sta cercando altri 8 dipendenti e punta ad arrivare a 100 in un biennio. Come cambierebbe lui i contratti di lavoro? «Per fare una rivoluzione come la nostra, servono persone rivoluzionarie. Per un’azienda hi-tech le dinamiche dei contratti, le otto ore lavorative, sono questioni che suonano come molto vecchie», risponde.
Se arrangiarsi è un’arte valida da sempre e ancora più oggi, dove ci sono persone che sbarcano il lunario affittando l’appartamento su Airbnb o guidando l’automobile per Uber, il governo ha però la responsabilità di dare risposte a settori cruciali per l’industria italiana, la cui sopravvivenza è fondata sull’export.
La rivoluzione digitale ha una portata tale «che, se non saremo in grado di gestire questo cambiamento, ci ritroveremo presto con fabbriche intelligenti senza lavoratori e libere dal sindacato», dice Marco Bentivogli, segretario nazionale della Fim, come si chiamano i metalmeccanici della Cisl. Bentivogli calcola che alla Fiat di Pomigliano, dove si assembla la Panda, vent’anni fa servivano dieci persone per svolgere i compiti di un unico addetto di oggi: «Un solo operaio specializzato governa da remoto 14 robot che si occupano della saldatura delle carrozzerie. È merito del “world class manufacturing”, il modello di robotica e di efficienza adottato nelle fabbriche Fiat, che ha permesso di riportare in Italia una produzione delocalizzata in Polonia», spiega Bentivogli.
C’è un lato drammatico in quest’analisi, ed è il fatto che l’intera industria può veder crescere la propria produttività senza creare nuovi posti di lavoro, o addirittura tagliandone. Ma c’è anche un lato che fa nutrire speranze, se governo, imprenditori e sindacati sapranno favorirlo. «I posti di lavoro non si perderanno, si trasformeranno, come sta avvenendo qui», dice Andrea Biraghi, direttore dei sistemi per la sicurezza del gruppo Finmeccanica. «Da realtà principalmente manifatturiera», spiega Biraghi, «Finmeccanica si è trasformata sempre più in un gruppo ad alto contenuto tecnologico, investendo in nuovi settori che richiedono una forte presenza di personale con capacità specifiche. La divisione cyber security, ad esempio, è passata da 30 unità nel 2010 a oltre mille, e prevediamo un’ulteriore crescita».
“TORNIAMO A ESSERE I PRIMI”
Bentivogli, da suo posto di osservazione di leader della Fim-Cisl, ritiene che fenomeni come questi produrranno effetti sempre più importanti: «Assisteremo a un aumento impressionante delle competenze richieste ai lavoratori, che avranno un ruolo più importante, diventeranno analisti di big data, progettisti, responsabili di settaggio delle macchine intelligenti», dice.
Il modello, a suo giudizio, dev’essere la Germania, perché l’aumento della produttività e la diminuzione dei costi di produzione potrebbe far tornare in Italia le fabbriche migrate all’estero: «La cancelliera Merkel stima che 400 mila posti di lavoro potrebbero rientrare grazie a quella che viene chiamata “industria 4.0”». Tuttavia, avverte Bentivogli, «questo avverrà solo nei Paesi che sapranno formare le persone mettendole in grado di affrontare i cambiamenti». E il contratto? Il sindacalista dice di non disprezzare novità: «Con le imprese dovremmo discutere del gap di competenza dei nostri operai. E dobbiamo parlare di smart-working, che alla General Motors Powertrain di Torino utilizzano già. Le otto ore non sono più una misura del lavoro credibile, perché tutto quello che un lavoratore fa a casa, grazie allo smartphone, non viene retribuito».
«Decentrare la contrattazione serve per non inchiodare quelle aziende che hanno le gambe abbastanza muscolose per andare per conto loro. Portare l’attenzione a livello d’impresa, favorire la partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione e la nascita di gruppi di ascolto fra manager e dipendenti, instaurare una logica collaborativa è un percorso che ci viene richiesto dall’Europa proprio per intercettare il cambiamento che è in atto nelle fabbriche, specialmente metalmeccaniche», sostiene l’economista Carlo Dell’Aringa, oggi deputato del Pd. Dell’Aringa vede addirittura in positivo la perdita di appeal della contrattazione a livello nazionale, se questa riesce ad affermarsi a livello locale: «Attenzione però, perché la partecipazione nelle imprese, in Germania, non è uno scontro tra sindacato e aziende. Serve invece un rapporto collaborativo fra le parti: ciascuno deve metterci del proprio e giocare a carte scoperte. È passata la stagione del confronto tra poteri contrattuali, serve una sintesi».
Formazione, produttività, welfare: le sfide del governo Renzi, se vorrà davvero rilanciare l’economia italiana, sono dunque numerose, senza considerare i macigni che pesano di più, dalle tasse troppo alte alla burocrazia impossibile. Ma c’è anche un’altra questione, che riguarda invece da vicino industria e sindacati: il loro livello d’ambizione.
Lo sostiene con schiettezza Giordano Torresi, 41, titolare di Manuelita, un’azienda con 65 dipendenti che a Grottazzolina, nelle Marche, produce scarpe per marchi di spicco della moda mondiale. Lavora per Armani, Versace, Giambattista Valli, Cesare Paciotti ed è l’unico produttore di calzature della maison Azzedine Alaïa. «Le statistiche dicono che l’Italia è il terzo esportatore al mondo di scarpe. Ebbene, mi domando perché non possiamo puntare a diventare i primi», dice Torresi. L’imprenditore negli ultimi anni ha lavorato per adottare una nuova linea di produzione robotizzata che, oggi, gli permette di realizzare 300 paia di scarpe al giorno con nove persone, mentre prima si fermava a 250 con dodici persone. «Stiamo parlando di scarpe di altissima qualità, dove scegliamo noi quali passaggi della lavorazione fare a mano e quali, invece, affidare alla macchina, che può trattare punti dove le dita di un operaio non arrivano. Ma i numeri, per scarpe meno complesse delle nostre, sono ancora più interessanti e permettono a un’azienda italiana di avere costi competitivi con la Cina», sostiene Torresi.
La riorganizzazione ha avuto due effetti. Il primo è che Torresi ha iniziato a progettare tecnologie anche per terzi, aprendo una nuova divisione d’ingegneria. Il secondo è che gli operai tolti al lavoro manuale sono stati formati per svolgere compiti più complessi. «Abbiamo anche assunto una neo-laureata in Design industriale all’università di Camerino, presa il giorno dopo che aveva finito gli studi, per lavorare sui modelli in 3D. Ce ne servirebbero altri tre ma non li troviamo», dice. E aggiunge che in Germania, dove l’Adidas ha riportato produzioni dall’estero, il problema di formare i tecnici che all’industria servono come il pane se lo sono posti al massimo livello: la risposta è stata l’istituto Fraunhofer, che con i suoi 23.800 addetti è dedicato a favorire l’innovazione tecnologica dell’industria e la formazione di personale qualificato. Spiega Torresi, che a luglio inaugurerà un marchio tutto suo: «Noi invece abbiamo dovuto fare tutto da soli. Ma vuol mettere il fascino delle scarpe fatte in Italia?».
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03 febbraio 2016
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