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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 101900 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:40:13 pm »

Se manca una strategia sull’acciaio
03/11/2014

Mario Deaglio

Nelle prossime settimane, il governo Renzi non dovrà soltanto spendersi nel sostegno in Parlamento a un ingorgo di provvedimenti legislativi relativi alla manovra economica e alle riforme. Sulle scrivanie dei ministri economici, e del presidente del Consiglio esiste di fatto un «dossier acciaio». 

Tale «dossier» potrebbe spostare l’attenzione del Parlamento e del Paese dalla finanza pubblica all’economia reale, con effetti molto significativi sull’intero sistema economico italiano. 

È basato sulla constatazione che nei Paesi avanzati l’industria siderurgica è vittima di una duplice crisi: la fase congiunturale incerta o negativa, determina una forte caduta della domanda dei prodotti siderurgici proprio quando l’innovazione tecnologica rende l’acciaio sempre più sostituibile da altri materiali. 

La combinazione di questi due elementi ha portato a chiusure su vasta scala di stabilimenti siderurgici in gran parte d’Europa, in America e in Giappone e rende indispensabile per l’Italia, dotata di un settore siderurgico ancora oggi di elevata importanza a livello europeo e mondiale, la messa a punto di una strategia o, se si preferisce, di una politica industriale del settore. Non è possibile continuare a ragionare sul filo dell’emergenza, affrontando, man mano che si presentano, le situazioni di crisi di singoli stabilimenti, da Taranto a Piombino e Terni. 

Nei principali Paesi siderurgici europei si è optato, di fatto, per una forte riduzione dell’importanza del settore: in Gran Bretagna la signora Thatcher sostanzialmente ne favorì la chiusura. I francesi e i belgi hanno adottato soluzioni più graduali, venduto i nodi siderurgici più importanti a grandi imprese dei Paesi emergenti, a cominciare da quelle indiane. Solo i tedeschi sembrano aver impostato una politica più articolata, basata su un’accentuata diversificazione verso tipi di acciaio più «moderni» in grado di competere con i nuovi materiali. L’Italia ha sostanzialmente «giocato di rimessa», senza elaborare una vera strategia siderurgica. 

Dietro quest’assenza di strategia si individua la riluttanza ad impostare una politica industriale per la priorità necessariamente accordata alla pesantissima situazione del debito pubblico italiano. Per impostare una politica siderurgica occorrere domandarsi innanzitutto verso quali settori si indirizzerebbe la futura produzione siderurgica. Si arriva così facilmente alla risposta che i principali clienti vanno ricercati nell’ampio settore dei veicoli a motore (auto, veicoli industriali, materiale ferroviario e navi) e del settore delle costruzioni, dall’edilizia residenziale alle grandi opere pubbliche. 

Per risolvere i problemi della siderurgia occorre muoversi in una prospettiva di crescita di lungo periodo di questi settori - a livello europeo e non solo italiano - e formulare ipotesi su questa crescita che coprano, almeno, l’arco di un decennio, sulla quale i politici mettano la faccia non solo in Italia ma anche in Europa. Solo così è realisticamente possibile stimare l’entità degli investimenti dell’industria siderurgica italiana, il suo fabbisogno energetico, il volume dell’occupazione da creare o mantenere. Si tratterebbe, in sostanza di rispolverare una forma leggera di «programmazione», un termine ormai dimenticato, perché odora ancora di socialismo vecchio stile. In un sistema a economia di mercato la programmazione va invece intesa come esercizio concettuale, di tipo indicativo, di messa a punto di priorità nazionali e di contributo alla determinazione di priorità europee. Come costruzione di un quadro di riferimento che consenta al mercato di muoversi meglio. 

Per la siderurgia, in altre parole, l’Italia dovrebbe fare un particolare «compito a casa», ben diverso da quelli che la Signora Merkel ci raccomanda continuamente ma che la Signora Thatcher fece molto in profondità, indicando chiaramente - e operando per realizzare - un insieme di priorità nazionali. Nel caso inglese, di queste priorità il rilancio della veneranda industria siderurgica non faceva parte. Per l’Italia, al contrario, potrebbe esserci un futuro siderurgico più o meno grande ma sarebbe assurdo limitare la discussione - come di fatto oggi sta avvenendo - al numero degli esuberi di questo o quell’impianto. 

La «programmazione» dovrebbe essere indicativa, lasciando ai privati il compito di realizzarne gli obiettivi e fornendo loro l’ambiente e le attrezzature necessarie. Il discorso appare ragionevole anche in sede europea, dove una programmazione flessibile del settore non è certo sconosciuta, dal momento che l’industria siderurgica è vissuta per decennio all’ombra di piani siderurgici concordati a livello dell’Unione Europea. Con queste premesse, e solo con queste premesse, è auspicabile un intervento diretto e minoritario del settore pubblico - a esempio attraverso la Cassa Depositi e Prestiti - che contribuisca a scrivere un capitolo futuro di una storia già molto lunga; non tanto a salvare provvisoriamente posti di lavoro oggi, ma a creare posti di lavoro sostenibili domani.

Questo sforzo di immaginazione e di quantificazione è una delle pietre angolari dell’impegno dell’Italia a costruire il proprio futuro economico, a pensare a «che cosa vuol fare da grande» invece di procedere con risposte episodiche a sfide importanti. Può ben essere che, a conti fatti, un euro investito nell’acciaio del futuro risulti meno produttivo e meno stimolatore di occupazione di un euro investito in un settore come l’elettronica. In ogni caso, la trasparenza razionale di un discorso che coinvolga non solo le forze politiche e il governo ma anche le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori è una premessa irrinunciabile perché l’Italia economica possa avere un futuro all’altezza del suo passato.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/03/cultura/opinioni/editoriali/se-manca-una-strategia-sullacciaio-J5joQjrw5z7WwwjEItrCgN/pagina.html
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« Risposta #196 inserito:: Dicembre 14, 2014, 05:14:06 pm »

La vera riforma riguarda le coscienze

12/12/2014
Mario Deaglio

La scoperta dell’esistenza di una «cupola» mafiosa romana di dimensioni insospettate, e di organizzazioni simili in molte altre parti d’Italia, non costituisce soltanto un’ulteriore ferita alla moralità pubblica di questo Paese, ma conduce a valutazioni nuove e preoccupate sulla sua società e sulla sua economia.

Il meccanismo di corruzione e di intimidazione rivelato dalle indagini in corso risulta, infatti, di tipo nuovo, con scarsi o nessun precedente nei Paesi avanzati. Il «modello classico» della corruzione ipotizza, infatti, che la corruzione stessa sia successiva a una decisione di spesa di un’autorità di governo. 

A valle di questa decisione autonoma - di costruire un ospedale, uno stadio, un ponte, oppure di fornire o modificare un servizio pubblico - si concentrano le pressioni dei gruppi malavitosi per accaparrarsi le relative commesse, pressioni che vanno dalla corruzione all’intimidazione di chi deve assegnare i lavori. (Una variante è la concussione, ossia il procedimento inverso, con la richiesta di «tangenti» da parte degli stessi funzionari).

Tutto normale, purtroppo. Se ne lamentò già il profeta Isaia, quando affermò che l’uomo giusto «scuote le mani per non accettare regali»; Cicerone attaccò in celebri orazioni la vorace concussione di Gaio Licinio Verre, propretore romano della Sicilia di oltre duemila anni fa. Nel Settecento, lo storico inglese Edward Gibbon definì la corruzione come «il sintomo più sicuro della libertà costituzionale», ossia della libertà di interpretare le leggi come più fa comodo e quindi indizio importante di declino dello Stato.

Con le recenti vicende romane si è fatto, purtroppo, un passo in avanti. Come le cronache hanno illustrato, l’intervento corruttore-intimidatorio ha spesso preceduto e non seguito le decisioni dei politici: i mafiosi, in altre parole, dicono (impongono?) ai politici ciò che desiderano sia fatto. Decisioni apparentemente «virtuose», come la costituzione di un campo per i Rom o interventi infrastrutturali degli enti locali, sono spesso diventati poco più che un veicolo per trasferire reddito dalle casse pubbliche a organizzazioni malavitose. Si spiegano così le opere fatte male e con materiali scadenti, gli argini che non tengono, le autostrade che si logorano troppo in fretta e via discorrendo. La corruzione, in sostanza non è un baco che dall’esterno si inserisce su una mela buona; la mela della spesa pubblica è già marcia al suo interno, quando è ancora sopra l’albero.

 

Questo marciume interno costringe a rivedere le stime numeriche e il concetto stesso di economia illegale. Nei processi di decisione della spesa pubblica, quanto meno a livello locale, l’illegalità risulta spesso strettamente intrecciata con la legalità e non è possibile isolarla neppure statisticamente. Vari studi attribuiscono all’economia criminale italiana - distinta dalla semplice economia sommersa, che riguarda attività legali non dichiarate o non rilevate – un’incidenza sul prodotto interno lordo dell’Italia pari al 4-6 per cento. Una recentissima revisione a livello europeo ha inserito parte di queste attività nella valutazione di tale prodotto. Il fenomeno mafioso rivelato dalle indagini romane è invece molto più difficile da valutare perché proietta un’ombra indistinta su moltissime attività che fino a poco tempo fa avremmo potuto definire «sane» e sostanzialmente rispondenti ai bisogni del Paese.

L’Italia sarebbe, insomma, parzialmente ostaggio di decisioni di spesa pubblica imposte ai politici da organizzazioni malavitose. Questa situazione può contribuire a spiegare perché gli sforzi per ridurre in maniera significativa il deficit e il debito pubblico incontrano sempre una grandissima difficoltà; perché gli investimenti pubblici non aumentano la produttività dell’economia; perché il sistema delle verifiche sulla spesa pubblica risulta complicato, farraginoso e si riveli sostanzialmente incapace di esercitare un vero controllo. 

Si comprende allora che le generiche «riforme», richieste con grande insistenza dall’Unione Europea, possano essere riassunte in una riforma sola: l’eliminazione di influenze illegali nella formazione di decisioni pubbliche. Tutte le altre riforme non sono che casi particolari di questo grande cambiamento richiesto all’Italia perché possa continuare a definirsi parte dell’Europa e Paese avanzato. 

In un simile quadro, pesantemente negativo, non va trascurato un barlume di luce: a rivelare i recentissimi casi di corruzione mafiosa sono state indagini giudiziarie molto abili. Alla Procura di Roma è stato possibile lavorare con efficacia e discrezione per due anni, accumulando prove schiaccianti, senza che – in un ambiente pettegolo come quello romano – all’esterno trapelasse alcunché. Questo significa che il «sistema Italia» ha ancora al suo interno degli anticorpi che consentono di reagire al degrado non solo con lo sdegno bensì anche con efficienti azioni di contrasto. Sdegno e azioni di contrasto non basteranno, però, senza un altro tipo di cambiamento: accanto alle riforme giuridiche e a quelle amministrative, è indispensabile anche la «riforma» delle coscienze, il recupero di una comune moralità pubblica che invece sembra sfuggita dalle nostre mani.

mario.deaglio@libero.it 

DA - http://www.lastampa.it/2014/12/12/cultura/opinioni/editoriali/la-vera-riforma-riguarda-le-coscienze-UeCw5jviYSE3JId7ZwOw0O/pagina.html
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« Risposta #197 inserito:: Febbraio 18, 2015, 07:54:44 am »

Il prezzo della pace in Europa

14/02/2015
Mario Deaglio

Giovedì mattina moltissimi europei hanno tirato un grosso sospiro di sollievo: dopo una maratona notturna a Minsk, capitale della Bielorussia, contrassegnata da molte notizie contraddittorie, si è saputo che il governo ucraino e i separatisti filo-russi avevano acconsentito al «cessate il fuoco» e posto le basi di un timidissimo processo di pacificazione. 

E forse quegli stessi europei hanno anche provato un briciolo d’orgoglio, dal momento che questa vittoria – certo reversibile – della diplomazia sull’uso della forza militare è stata ottenuta esclusivamente da statisti europei, ossia senza la presenza degli Stati Uniti al tavolo delle trattative. 

Occorre avere ben presente che dietro a questo sospiro di sollievo c’è un fruscìo di soldi: una delle strutture portanti dell’accordo è lo sblocco - per il momento non ancora ufficiale ma sufficientemente credibile, in quanto annunciato dal direttore del Fondo stesso, la francese Christine Lagarde - di un prestito del Fondo Monetario Internazionale all’Ucraina pari a circa 15 miliardi di euro in quattro anni. A quest’annuncio ha fatto immediatamente seguito un’altra notizia: la Banca Mondiale si impegna a versare altri 2 miliardi e quest’organizzazione internazionale sarebbe la prima di un gruppo di possibili finanziatori per cui è circolata la voce che si potrebbe raggiungere la quota di 40 miliardi. 40 miliardi - si potrebbe aggiungere - forse non proprio facilmente restituibili.

Si può legittimamente sostenere che questi prestiti vadano valutati dal lato politico prima ancora che da quello finanziario. Si tratta del «prezzo» dell’avvio di un processo di pace in luogo di una guerra civile di una ferocia senza precedenti nel Vecchio Continente negli ultimi settant’anni. Questo prezzo comprende anche, e forse soprattutto, la realizzazione di riforme radicali in un Paese che non è solo un disastro politico ma anche un autentico disastro economico.

La combinazione «soldi in cambio di riforme» è stata usata frequentemente, con risultati incerti, nelle aree mondiali di maggior povertà e ora arriva in Europa. Questi precedenti possono non farci piacere ma occorre valutare che i finanziamenti all’Ucraina sono poca cosa se paragonati all’aumento delle spese militari che i Paesi europei della Nato dovrebbero sostenere per un surriscaldamento delle tensioni europee. Questi finanziamenti devono avere come contropartita non solo il cessate il fuoco e il processo di pace ma anche l’avvio di una politica economica che preveda, prima di tutto, la privatizzazione di Naftogas, il colosso energetico ucraino, con oltre 175mila dipendenti, considerato l’epicentro della corruzione in un Paese che nell’indice mondiale di percezione della corruzione calcolato a partire dal Paese meno corrotto occupa il 134esimo posto.

 

Se è ragionevole che l’Europa favorisca con strumenti economici l’instaurarsi della pace e la trasformazione dell’economia ai suoi confini, perché non estendere il ragionamento alla Grecia, che ha solo problemi economici e si trova dentro ai confini dell’Unione Europea e della zona euro? Giustamente il commissario dell’Unione Europea all’economia, Pierre Moscovici, ha affermato che, riguardo alla Grecia, non ci si trova di fronte a questioni tecniche ma a un problema politico: la rapidissima estensione nell’opinione pubblica non più solo della piccola Grecia ma di una consistente porzione dell’Europa, di un rifiuto viscerale di debiti pubblici troppo gravosi e di piani di rimborso di tipo esclusivamente tecnico. 

Occorre quindi andare oltre la tecnica e dare la precedenza, come ha detto Moscovici, al problema politico; occorre valutare che una Grecia incattivita e disperata che cambiasse le proprie alleanze potrebbe provocare uno sconquasso nel Mediterraneo Orientale. Naturalmente i debiti sono debiti e vanno restituiti, ma sul quando e sul come si può e si deve discutere in maniera operativa. A cominciare dalla riunione, ovviamente tesissima, che inizierà a Bruxelles lunedì mattina

Ps In ogni caso tanto di cappello alla signora Merkel. 

mario.deaglio@libero.it

da - http://www.lastampa.it/2015/02/14/cultura/opinioni/editoriali/il-prezzo-della-pace-in-europa-EjkXbktKx7JqaRGXbquwSL/pagina.html
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« Risposta #198 inserito:: Giugno 14, 2015, 04:04:03 pm »

La partita (truccata) del capitalismo

07/06/2015
Mario Deaglio

Un sottile filo collega gli arresti di «Mafia capitale» di giovedì scorso e le sanzioni – per complessivi 12,5 miliardi di dollari - comminate poche ore prima, da un tribunale canadese a tre «grandi» del tabacco mondiale per aver occultato gli effetti nocivi del fumo. Unisce altri arresti italiani recenti, quelli per manipolazione delle partite in Lega Pro e in Serie B, i 5,6 miliardi di multa patteggiati, anch’essi recentemente, da sei grandi banche internazionali per aver manipolato le quotazioni dei mercati mondiali dei cambi, l’inchiesta sulle tangenti Fifa per i campionati mondiali di calcio e tanto altro ancora. Questo filo sottile che avvolge sia affari di quartiere sia affari del pianeta, si chiama disonestà: dobbiamo riconoscere che una disonestà diffusa e persistente caratterizza l’attuale fase del capitalismo globale. 

Visti in questa luce, gli avvenimenti italiani appaiono come varianti acute, e particolarmente incancrenite, di un fenomeno molto più generale.

Il che, naturalmente, non ne sminuisce la portata, anzi, la aumenta perché in Italia la disonestà diffusa ha contribuito potentemente a determinare una crisi più grave che in altri Paesi. Le conversazioni in romanesco sboccato tra gli indagati della «cupola» romana fanno il paio con gli scambi di posta elettronica, in gergo finanziario inglese, che compaiono in molte inchieste internazionali. 

La disonestà è divenuta «normale», si fa finta di non vederla: il tasso Libor, cardine delle contrattazioni finanziarie internazionali, il prezzo dell’oro e quello del petrolio sono tutti stati «manovrati» per anni, così come la spesa pubblica italiana è stata per anni gonfiata da pratiche come quelle che stanno venendo alla luce a Roma e altrove. In molti Paesi le autorità inquirenti accettano il patteggiamento, ossia il pagamento di multe gigantesche, lasciando al loro posto i vertici delle istituzioni che hanno operato in maniera scorretta e che considerano queste multe poco più che normali «incidenti di percorso». In realtà non si tratta di incidenti di percorso, ma di un modo disastroso di percorrere la strada della crescita, una crescita che dovrebbe portare a un benessere diffuso sul pianeta e che è stata invece distorta e, nel caso italiano, soffocata.

 

Secondo le forme più estreme di liberismo, il mercato «si pulisce da solo» e richiede poche regole trasparenti, il minore intervento possibile di regolatori esterni, per dare risultati della massima efficienza. L’evidenza empirica dice che, almeno nel caso attuale, le cose non stanno così: se non esiste una moralità pubblica condivisa tra i partecipanti al mercato, come invece succedeva abbastanza frequentemente nel capitalismo europeo «classico», il mercato stesso tende a deteriorarsi, a divenire rapidamente instabile, ad accentuare le diseguaglianze, a dare risultati perversi.

La premessa del mercato liberista è l’esistenza di un «level playing field», un «campo da gioco» pianeggiante, senza posizioni di vantaggio, con regole uniformi, informazioni note a tutti, trasparenza sulle operazioni che vi si compiono. I «campi da gioco» dell’attuale economia globale sono invece sempre meno pianeggianti: non fanno emergere i più efficienti, bensì gli amici degli amici, che si tratti di commesse pubbliche romane oppure di operazioni finanziarie internazionali di prima grandezza. Non si ricerca alcuna forma di benessere comune, ma il perpetuarsi di posizioni di vantaggio individuali o di gruppo, di «diritti acquisiti» che automaticamente penalizzano chi questi diritti non li ha e, senza un cambiamento delle regole, non potrà mai averli.

Finché dura questa situazione, il superamento della crisi mondiale è tutt’altro che garantito. L’Italia, esempio di prim’ordine della disonestà globale, sta finalmente rimbalzando dall’inferno congiunturale in cui era precipitata, ha fatto progressi lusinghieri, ma è ancora lontana da una crescita sufficiente. 

Si parla molto di riforme. In una società di mercato, la vera riforma è quella dei mercati, intesi, in senso lato: deve andare nel senso dell’uguaglianza di opportunità, oggi invece sempre più carente. Una regolazione dei mercati dall’esterno, con nuove modalità della spesa pubblica e delle transazioni finanziarie private, è fondamentale ma non sembra un elemento essenziale dei programmi di alcun governo dei Paesi avanzati. A livello internazionale, e in particolare europeo, c’è un’azione contro i «paradisi fiscali» (verso i quali erano diretti in parte anche i soldi della mafia romana). L’Europa resta però impantanata nel debito greco, diventata ingestibile precisamente per l’assenza di trasparenza; così come l’Italia si trova impantanata nella vicenda del Centro Accoglienza di Mineo. Il grande episodio europeo e il (non tanto) piccolo episodio siciliano segnalano la medesima carenza di fondo alla quale, per ora, non si pone rimedio.

mario.deaglio@libero.it 

Da - http://www.lastampa.it/2015/06/07/cultura/opinioni/editoriali/la-partita-truccata-del-capitalismo-EDvO9iFvV9mzy0Cax4wJgP/pagina.html
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« Risposta #199 inserito:: Luglio 12, 2015, 05:05:18 pm »

La fine dell’Europa burocratica

05/07/2015
MARIO DEAGLIO

Il termine «paradosso» è di origine greca. E’ quindi appropriato che l’attuale situazione greca sia descrivibile mediante non uno ma addirittura due paradossi. 

Il primo paradosso suona così: quale che sia il risultato del referendum di oggi, che attira l’attenzione spasmodica dei media di tutto il mondo, la sua influenza sulla situazione greca sarà poca o nulla. Che vincano i fautori del «no» o quelli del «sì», la Grecia rimane (secondo le dichiarazioni del ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis) un Paese con un «deficit primario» ossia così indebitato da dover contrarre nuovi debiti per pagare gli interessi sui debiti già esistenti. Di fatto non troverebbe nessuno, ma proprio nessuno, su nessun mercato finanziario al mondo, che le presterebbe un solo dollaro o un solo euro. 
 
Il primo ministro greco, Alexis Tsipras, sa benissimo che il gelido tavolo delle trattative di Bruxelles è l’unico posto al quale gli è possibile ottenere ciò che serve, ossia «regali» che assumano la forma di abbattimento del debito e annullamento degli interessi.

Sa benissimo che senza un sostegno immediato (il che significa letteralmente da lunedì o martedì mattina) dalla Banca Centrale Europea ad Atene scarseggeranno il pane, la benzina, le medicine e tutte le banche si avvieranno al fallimento. Che cosa possono offrire Tsipras e Varoufakis (o chi li sostituirà se vinceranno i «sì» e il governo darà davvero le dimissioni) in cambio di questo sostegno? Possono (devono) garantire una politica economica che impedisca la formazione del deficit primario il che fa inevitabilmente rima con «sacrifici». Questi sacrifici sono però una medicina con fortissime controindicazioni. E’ necessario svolgere un’azione parallela di finanziamento alla crescita, ossia un programma pluriennale (che copra almeno un decennio) per rimettere in piedi l’economia greca. Tale programma sarà indispensabile anche se la Grecia dovesse uscire dall’euro o dovesse passare a un regime di doppia moneta. Sarà essenziale, in ogni caso, concordare una data di rientro nell’euro al termine di questo programma.
 
Il secondo paradosso si può esprimere con un notissimo verso della seconda epistola di Orazio: «La Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore». Nel senso che, dopo l’avventura greca, l’Europa non potrà più essere la stessa. Che abbia successo, con la messa a punto del programma pluriennale di cui sopra, oppure che la situazione scivoli nel caos, questa è la fine dell’Europa «razionale» delle burocrazie. Il «caso Grecia» segna l’irrompere sulla scena di scelte politico-sociali scomode, che si era cercato per vent’anni di evitare, pone le premesse per un ritorno a un vero «far politica» a livello europeo, a occuparsi di esseri umani più che di numeri, a ragionare davvero sul futuro.
 
In questo senso, la crisi greca arriva al momento appropriato, ossia quando l’Europa ha perso la sua storica posizione centrale nell’economia globale, il cui fulcro si è spostato dall’Atlantico al Pacifico e, proprio per questo suo decentramento, rischia di guardare con troppa attenzione l’albero Grecia e di dimenticarsi della foresta Mondo. 
 
L’albero Grecia soffre di una malattia senza precedenti che richiede rimedi senza precedenti in quanto è in pratica la prima volta nella storia in cui ci si trova in presenza di una moneta senza Stato. E’ però l’intera foresta Mondo a presentare sintomi allarmanti di cattiva salute a cominciare dall’albero Giappone. Dopo due anni di frenetica stampa di nuova moneta, la crescita è attualmente sostenuta dall’accumulo di prodotti nei magazzini, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è quasi il doppio di quello italiano ed è sostenibile solo perché i risparmiatori giapponesi si accontentano di interessi bassissimi e perché la bilancia commerciale è ancora positiva, di poco. Se il segno dovesse cambiare la crisi potrebbe esplodere improvvisamente, con conseguenze difficili da prevedere, ma comunque gravi sul piano mondiale.
 
Il secondo albero malato è la Cina. I nuovi governanti si sono trovati di fronte a una decina di città-fantasma e oltre 60 milioni di case vuote, un’enorme bolla immobiliare e cercano di farla sgonfiare lentamente senza che scoppi, ma intanto si è registrato un vero e proprio cedimento delle quotazioni di Borsa, con perdite del 15-20 per cento in un mese, e delle esportazioni (-2,8 per cento a maggio). I problemi di salute non risparmiano gli Stati Uniti, dove l’occupazione aumenta in quantità, ma perde in qualità e aumentano i divari sociali; né il Fondo Monetario che fa il duro con la Grecia, ma ha prestato senza fiatare all’Ucraina 17,5 miliardi di dollari (che probabilmente non rivedrà più). In altre parole, le ruote dell’economia girano più adagio del previsto. E non si tratta certo della (sola) Grecia.
mario.deaglio@libero.it 

Da - http://www.lastampa.it/2015/07/05/cultura/opinioni/editoriali/la-fine-delleuropa-burocratica-GVfJ9EO5Q9O7XWpfpIsZJJ/pagina.html
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« Risposta #200 inserito:: Febbraio 07, 2017, 04:13:20 pm »

Il programma più coerente del nuovo populismo

Pubblicato il 06/02/2017
Ultima modifica il 06/02/2017 alle ore 09:25

Mario Deaglio

I sondaggi indicano che Marine Le Pen, candidata del Front National alle prossime elezioni presidenziali francesi, risulterà in testa al primo turno ma sarà sconfitta al secondo. 

Poco più di un anno fa, negli Stati Uniti si diceva con uguale sicurezza che Donald Trump sarebbe riuscito a conseguire la «nomination» repubblicana ma sarebbe poi stato sconfitto alla prova decisiva. 

Questa è la prima ragione per esaminare con molta attenzione i «144 impegni» che Le Pen ha dichiarato ieri di volersi assumere con gli elettori francesi. La seconda ragione è che, a tutt’oggi, si tratta del documento più completo e coerente del nuovo populismo, ben diverso dalle contraddizioni di Trump che, di fatto, vuole favorire le esportazioni americane senza che gli altri Paesi favoriscano i propri prodotti.

Il documento di ieri ha subito «limature» rispetto a precedenti versioni parziali. Non propone più il ritorno della pena di morte ma l’ergastolo «perpetuo», ossia senza possibilità di «sconti»; invece di un aumento di 200 euro al mese dei salari più bassi, indica più vagamente un «aumento del potere d’acquisto»; invece di «uscita dall’euro» si parla di «reintroduzione di una moneta nazionale». 

L’abbinamento della moneta nazionale con l’introduzione di un’imposta del 3 per cento sulle importazioni, dovrebbe finanziare la reindustrializzazione della Francia come ha dichiarato il deputato europeo Bernard Monod, portavoce economico del Front National; il tutto nel quadro di un «patriottismo economico» che favorirebbe sia l’assunzione di lavoratori francesi da parte delle imprese sia l’aumento dei salari più bassi. 

Tutto ciò mostra che i «144 impegni» non sono una serie di slogan e rivendicazioni, bensì l’abbozzo di un programma coerente; un programma che potrebbe anche funzionare nel breve periodo ma a un alto costo economico. In estrema sintesi, dietro al muro dei dazi doganali e delle altre misure nazionaliste, i francesi nel loro insieme avrebbero maggiori occasioni di lavoro – anzi, dovrebbero, in definitiva, lavorare di più – e minori occasioni di acquisti convenienti. 

Con importazioni più care, infatti, tutti i beni collegati alla globalizzazione, dall’abbigliamento all’elettronica, sarebbero più cari a causa dei dazi doganali (probabilmente destinati ad aumentare nel tempo). L’«aumento del potere d’acquisto» funzionerebbe solo in una prima fase e sarebbe successivamente seguito da una sua diminuzione. Votando per il Front National, i francesi si accontenterebbero di un uovo oggi rinunciando a una gallina domani.

Non basta, però, demonizzare Le Pen come non è bastato demonizzare Trump, né ci si può illudere che la globalizzazione risolva tutti i problemi. Precisamente perché non si tratta soltanto di slogan, i «144 impegni» di Le Pen obbligano partiti democratici – in Francia, ma anche in Italia - a scendere sul piano dei fatti e delle politiche concrete. 

Sono necessari programmi e politiche che correggano la tendenza dell’attuale economia globale, di fatto priva di regole, ad accentuare le disparità dei redditi, probabilmente introducendo un sistema di controlli - necessariamente internazionali – sul mercato mondiale dei capitali e non lasciando al Front National, e ai suoi alleati dell’estrema destra europea, il monopolio delle politiche redistributive. A livello di Unione Europea, chi è contrario a Le Pen deve riconoscere che l’Europa dei funzionari e dei regolamenti ha fatto il suo tempo. In nessun Paese europeo si vinceranno le prossime elezioni senza nuovi programmi e nuove visioni.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/06/cultura/opinioni/editoriali/il-programma-pi-coerente-del-nuovo-populismo-KDicQ9NzUiZxIqKsj5iJeL/pagina.html
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« Risposta #201 inserito:: Aprile 13, 2017, 06:00:29 pm »

La “manovrina” del governo: somma di due debolezze

Pubblicato il 13/04/2017 - Ultima modifica il 13/04/2017 alle ore 07:20

MARIO DEAGLIO

La «manovrina» o comunque la si voglia chiamare che il governo ha appena varato è il frutto di due debolezze congiunte e in qualche modo convergenti: quella della Commissione di Bruxelles e quella del governo di Roma. 

La Commissione non può accanirsi contro i conti pubblici italiani e ha usato in tempi recenti un linguaggio ormai spoglio di severità, si potrebbe dire quasi affettuoso, con ampie aperture di comprensione. Alla vigilia delle elezioni francesi, nelle quali una vittoria - difficile, ma non impossibile - degli anti europeisti sarebbe un danno gravissimo per l’intera costruzione dell’Unione, deve avere la quiete su questo fronte. E la quiete significa chiedere all’Italia soprattutto qualche segnale visibile di buona volontà.
 
Dall’altra parte del tavolo c’è un governo italiano che ha rappresentato un brillante inserimento in una difficile situazione istituzionale, nella quale, tra l’altro, l’Italia ospita importanti riunioni e deve gestire una situazione di acuta insofferenza sociale senza un chiaro orizzonte temporale. 
 
Ha delineato un interessante panorama di riforme ma non ha né i mezzi finanziari né l’orizzonte temporale per realizzarli davvero. Può dare al massimo qualche segnale «sociale» che controbilanci una sottile aria di compressione delle spese, risparmiando qua e là sugli spiccioli, con minuscoli inasprimenti e minuscole economie. 
 
Così, infatti, si costruisce, appunto, una «finanziaria degli spiccioli» nella speranza di un’accettazione da parte sia degli italiani sia della burocrazia europea di questa minestrina con poco sale, ma, proprio per questo, non dannosa.
 
In mezzo a tutto questo sta l’economia italiana della quale nessuno può dire che non stia crescendo ma la cui crescita è lenta e sofferta; è anche possibile che tale crescita sia leggermente sottovalutata dalle statistiche, in quanto il filone di transazioni via Internet sta aumentando con una rapidità impressionante che potrebbe portare a qualche decimale in più. Questi «decimali in più» abbasserebbero naturalmente tutti i coefficienti finanziari del Paese e non si può escludere, come spera il ministro Padoan non senza qualche giustificazione, che tutto questo basti a tirare avanti fintanto che gli orizzonti europei e gli orizzonti italiani non si saranno chiariti.

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