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Autore Discussione: ORIANA FALLACI. L'intervista del 2 dicembre 1979 a Gheddafi  (Letto 8743 volte)
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« inserito:: Febbraio 23, 2011, 11:55:47 pm »

La Fallaci e il Colonnello

L'intervista 2 dicembre 1979

E a Oriana diceva: voi ci massacrate Hitler e Mussolini sfruttavano le masse, io non faccio che appellarmi perché il popolo si governi da solo


Pubblichiamo una sintesi dell’intervista al colonnello Gheddafi realizzata da Oriana Fallaci e uscita sul «Corriere della Sera» il 2 dicembre 1979. Il testo è tratto dalla seconda parte della conversazione, in cui Gheddafi si soffermava sulla sua politica e rispondeva alle accuse di appoggio al terrorismo che gli venivano rivolte. La prima parte riguardava invece la crisi degli ostaggi americani fatti prigionieri dagli iraniani nell’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran, perché il colonnello libico si era offerto all’epoca per un’opera di mediazione. Sulla base degli appunti di quello stesso incontro con Gheddafi, la Fallaci pubblicò un’altra intervista sul «Corriere» il 20 aprile 1986, poco dopo il bombardamento di Tripoli da parte americana

Colonnello, ho l'impressione che il suo odio per l'America e per gli ebrei sia in realtà odio per l'Occidente. Proprio come nel caso di Khomeini. Si rende conto che di questo passo si torna indietro di mille anni, si ricomincia con Saladino e le Crociate?
«Sì e la colpa è vostra: degli americani, dell'Occidente. Anche allora fu vostra, dell'Occidente. Siete sempre voi che ci massacrate. Ieri come oggi».

Ma chi vi massacra, oggi, dove?
«Fu la Libia a invadere l'Italia o fu l'Italia a invadere la Libia? Ci aggredite ora come allora. In altro modo, con altri sistemi e cioè sostenendo Israele, opponendovi all'unità araba e alle nostre rivoluzioni, guardando in cagnesco l'Islam, dandoci dei fanatici. Abbiamo avuto fin troppa pazienza con voi, abbiamo sopportato fin troppo a lungo le vostre provocazioni. Se non fossimo stati saggi, saremmo entrati mille volte in guerra con voi. Non l'abbiamo fatto perché pensiamo che l'uso della forza sia l'ultimo mezzo per sopravvivere e perché noi siamo sempre dalla parte della civiltà. Del resto, nel Medioevo, siamo stati noi a civilizzarvi. Eravate poveri barbari, creature primitive e selvagge...».

...e piangevamo invocando la luce della sua civiltà.
«Sì, la luce della nostra civiltà. La scienza di cui ora gioite è quella che vi abbiamo insegnato noi, la medicina con cui vi curate è quella che vi abbiamo dato noi. E così l'astronomia che sapete, e la matematica, la letteratura, l'arte...».

Davvero?!?
«Sì, perfino la vostra religione viene dall'Oriente. Cristo non era romano».

Era ebreo. Questa è una gaffe. Colonnello, che ne pensa delle Brigate rosse?
«Penso... penso che questi fenomeni dell'Occidente siano il risultato della società capitalistica, movimenti che esprimono il rifiuto di una società da abbattere. Questo sia che si chiamino Brigate rosse sia che si chiamino hippies o Beatles o Figli di Dio. E sebbene sia contro i sequestri di persona come contro il dirottamento degli aerei, non voglio interferire con quello che fanno».

Vedo. Ma non risponde all'accusa di aiutare le Brigate rosse.
«Si tratta di propaganda sionista, una propaganda che risale al periodo in cui il mondo non ci capiva ed eravamo ancora una repubblica. Ora siamo una Jamahiriya, cioè un congresso del popolo e...».

Ma che c'entra la Jamahiriya! Riformulo la domanda: Colonnello, da dove arrivano le armi sovietiche che puntualmente vengono trovate in possesso dei brigatisti e dei loro associati? Non sarà che una parte delle armi da lei fornite ai palestinesi si spostano altrove?
(Cercando le parole) «Ciò... ciò... ciò che lei dice non mi farà esitare un attimo dall'aiutare i palestinesi».

Colonnello, non cambi le carte in tavola per cortesia. E segua il mio ragionamento: supponiamo che lei, in buona fede, consegni le armi ai palestinesi i quali le forniscono di rimando alle Br...
«Non siamo responsabili dell'uso che può essere fatto delle armi che diamo ai palestinesi. Noi le diamo ai palestinesi perché crediamo nella loro causa e riteniamo doveroso aiutarli. Quel che succede dopo non mi riguarda. Se devo essere condannato indirettamente, preferisco le accuse dirette. Ma non ci sono prove».

Forse ci sono indizi. Eccone uno. Pochi giorni prima dell'assassinio di Moro lei offrì il suo intervento per salvargli la vita. Se non ha, non aveva contatti con le Brigate rosse, come poteva dirsi in grado di salvargli la vita?
«Dissi alle autorità italiane che se avevano bisogno di una cooperazione da parte nostra, noi eravamo pronti. Se fossimo stati in contatto con le Brigate rosse gli avremmo salvato senz'altro la vita perché Moro era nostro amico, era sostenitore della causa araba».

E va bene, passiamo a un altro argomento. Colonnello, ma come fa a essere così comprensivo coi terroristi, giudicarli fenomeno di una società da abbattere e poi mantenere ottimi rapporti con gli esponenti più rappresentativi di quella società da abbattere? A parte gli affari che fa con gli americani, pensi a quelli che fa con Gianni Agnelli.
«Gianni chi?».

Gianni Agnelli. Il presidente della Fiat.
«La Fiat? La mia azienda, my company!»

Sì, la sua azienda, la sua company. La Fiat. Agnelli.
«Non lo conosco».

Non conosce Agnelli, il suo socio?!?
«No, non è affar mio conoscerlo. È una faccenda che riguarda i miei funzionari, gli impiegati della mia banca. La Lybian Foreign Bank».

Davvero lei non sa chi è Agnelli, il suo socio?
«No, non lo so».

Mai visto la sua fotografia? Mai udito il suo nome?
«Mai. Non mi interessa, non mi riguarda. Ho altre cose da fare, io, che conoscere i nomi dei miei soci o della gente che appartiene al mondo delle banche».

Ma, a parte finanziare il terrorismo mondiale, che ne fa di tutti quei soldi che guadagna col petrolio?
«Ho già detto...».

Sì, ha già detto che l'accusa non è suffragata da prove. Quindi chiedo scusa e mi correggo: che ne fa di tutti quei soldi, a parte i miliardi che impiega alla Fiat e i terreni che compra e i regali a Malta?
«Noi non compriamo terreni, facciamo investimenti in certi Paesi attraverso la nostra banca estera. Investimenti commerciali. Quanto a Malta è un Paese amico perché è un Paese liberato e neutrale e quei soldi non li diamo al governo di Malta: li diamo al popolo di Malta affinché allarghi il campo della libertà e della neutralità. Del resto non siamo mica soltanto noi libici ad aiutare Malta. Tanti altri aiutano Malta».

E va bene, parliamo della rivoluzione. Ma cosa intende per rivoluzione? Come non mi stancherò mai di ricordare, anche Papadopulos parlava di rivoluzione. Anche Pinochet. Anche Mussolini.
«La rivoluzione è quando le masse fanno la rivoluzione. La rivoluzione popolare. Ma anche se la rivoluzione la fanno gli altri a nome delle masse esprimendo ciò che vogliono le masse, può essere rivoluzione. Popolare perché ha l'appoggio delle masse e interpreta la volontà delle masse».

Ma quello che avvenne in Libia nel settembre del 1969 non fu mica una rivoluzione: fu un colpo di Stato. Sì o no?
«Sì, però dopo divenne rivoluzione. Io ho fatto il colpo di Stato e i lavoratori hanno fatto la rivoluzione: occupando le fabbriche, diventando soci anziché salariati, eliminando l'amministrazione monarchica e formando i comitati popolari, insomma liberandosi da soli. E lo stesso hanno fatto gli studenti, sicché oggi in Libia conta il popolo e basta».

Davvero? Allora perché ovunque posi gli occhi vedo soltanto il suo ritratto, la sua fotografia?
«Io che c'entro? È il popolo che vuole così. Io che posso fare per impedirglielo?».

Beh, proibisce tante cose, non fa che proibire, figuriamoci se non può proibire questo culto della sua persona. Per esempio, questo inneggiarla ogni momento alla televisione.
«Io che posso farci?».

Nulla. È che da bambina vedevo la stessa roba per Mussolini.
«Ha detto la medesima cosa a Khomeini».

È vero. Ricorro sempre a quel paragone quando intervisto qualcuno che mi ricorda Mussolini.
«Gli ha detto che le masse sostenevano anche Mussolini e Hitler».

È vero.
«Si tratta di un'accusa essenziale. E richiede una risposta essenziale. Questa: lei non capisce la differenza che c'è tra me e loro, tra Khomeini e loro. Hitler e Mussolini sfruttavano l'appoggio delle masse per governare il popolo, noi rivoluzionari invece beneficiamo dell'appoggio delle masse per aiutare il popolo a diventar capace di governarsi da solo.
«Io in particolare non faccio che appellarmi alle masse perché si governino da sole. Dico al mio popolo: "Se mi amate, ascoltatemi. E governatevi da soli". Per questo mi amano: perché, al contrario di Hitler che diceva farò-tutto-per-voi, io dico fate-le-cose-da voi».

Colonnello, visto che non si considera un dittatore, nemmeno un presidente, nemmeno un ministro, mi spieghi: ma lei che incarico ha? Che cos'è?
«Sono il leader della rivoluzione. Ah, come si vede che non ha letto il mio Libro Verde!».

Sì che l'ho letto, invece! Non ci vuole mica tanto. Un quarto d'ora al massimo: è così piccino. Il mio portacipria è più grande del suo libretto verde.
«Lei parla come Sadat. Lui dice che sta sul palmo di una mano».

Ci sta. Dica: e quanto ci ha messo a scriverlo?
«Molti anni. Prima di trovare la soluzione definitiva ho dovuto meditare molto sulla storia dell'umanità, sui conflitti del passato e del presente».

Davvero? E com'è giunto alla conclusione che la democrazia è un sistema dittatoriale, il Parlamento è un'impostura, le elezioni un imbroglio? Vi sono cose che non mi tornano in quel libriccino.
«Perché non lo ha studiato bene, non ha cercato di capire cos'è la Jamahiriya. Lei deve sistemarsi qui in Libia e studiare come funziona un Paese dove non c'è governo né Parlamento né rappresentanza né scioperi e tutto è Jamahiriya».

Che vuol dire?
«Comando del popolo, congresso del popolo. Lei è proprio ignorante».

E l'opposizione dov'è?
«Che opposizione? Che c'entra l'opposizione? Quando tutti fanno parte del congresso del popolo, che bisogno c'è dell'opposizione? Opposizione a cosa? L'opposizione si fa al governo! Se il governo scompare e il popolo si governa da solo, a chi deve opporsi: a quello che non c'è?».

Oriana Fallaci

23 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/esteri
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 20, 2014, 04:42:57 pm »

L’incontro

Virna, il racconto a Oriana Fallaci «Non sarò la nuova Marilyn»
Lo straordinario ritratto della diva, intervistata dalla scrittrice e e giornalista nel giugno del 1964 a Beverly Hills: «Agli americani dico: siete pazzi, non si può sostituire un mito»


Di Oriana Fallaci

Lungo il Sunset Boulevard, a Hollywood, c’è un enorme cartello: sei metri per dieci. Sul cartello sta scritto: «Questo nome si pronuncia così: Virna Lisi». In inglese Virna Lisi si legge Vairna Laisi, per leggere Virna Lisi bisogna scrivere Verna Lesy: tutti invece leggono Virna Lisi e questa, mi pare, è la prima vittoria della ragazza che in Italia non abbiamo mai preso molto sul serio e che nel migliore dei casi abbiamo trattato con antipatia o sufficienza. La seconda vittoria è il contratto che ha firmato con la Paramount: due film all’anno da girare per sette anni negli Stati Uniti o in Europa, un primo film dove sostituisce la Monroe. Il film, un giallo-rosa dal titolo How to Murder Your Wife (“Come uccidere vostra moglie”), era stato scritto infatti per Marilyn Monroe e, scomparsa lei, era stato offerto a Brigitte Bardot, che non aveva avuto il coraggio di dire sì.

L’assurdo problema di sostituire la Monroe perseguita Hollywood da quasi due anni: ci provano con Carroll Baker, con non so quale svedese, e ora vogliono provarci con lei che a quanto pare il sangue freddo e la faccia tosta per affrontare un tal paragone ce l’ha. Lo affronta accanto a Jack Lemmon che insieme alla Monroe girò Some Like It Hot (“A qualcuno piace caldo”), è abituato a esigere le partner migliori, una di queste è Shirley MacLaine, e tuttavia dice: «Oh, questa Virna arriverà dove vuole. Il successo le sta come un guanto alla mano, mi creda». Pressappoco quel che dicono Richard Quine, il regista, e il settimanale «Life» che quindici giorni fa le dedicò un mucchio di pagine; le aveva dedicato anche la copertina ma questa saltò all’ultimo momento, per la morte di Nehru. Insomma una fama tanto veloce, in America, non era toc- cata nemmeno alla Loren; le facce più sorprese, in America, io le ho viste quando mi chiedevano: «Lei che è italiana, mi dica, Virna Lisi com’è?», e rispondevo: «Mah! Io che ne so?».

Il problema di sapere com’è Virna Lisi, lo ammetto, non aveva mai sconvolto la mia esistenza. Da qualche parte avevo letto che ha un marito facoltoso, Franco Pesci, e un figlio; qualche volta l’avevo vista alla Tv, in una commedia o nella réclame di un dentifricio che si conclude su un primo piano dei suoi incisivi e canini, peraltro perfetti, mentre una voce afferma: «Con quella bocca lei può dir quel che vuole». E il non conoscerla non costituiva ai miei occhi una lacuna gravissima, mentirei turpemente affermando che tale lacuna rasentava per me la morte civile, l’Inferno. E questo era il mio stato d’animo quando la incontrai. Incontrai Virna Lisi per caso, a New York, in un salotto di amici. Se ne stava in un angolo a discuter di aerei, gli aerei sono la sua grande passione, ha il brevetto di pilota e mi dicono che è una buona pilota, e la prima cosa che mi colpì fu il suo volto duro, deciso, stranamente diverso da quello che rendono le fotografie, un volto senza tenerezze o indulgenze, con due occhi freddi, attenti, maschili, gli occhi di una che sa quel che esige e non si perde in metafisiche angosce. La seconda cosa che mi colpì fu la voce: metallica, chiara, sferzante, da solitaria che non si cura di conquistare la simpatia della gente. Infine, la domanda che mi rivolse quando le sedetti accanto, un po’ incuriosita: «Oh! So che lei scrive un libro sul viaggio alla Luna ed è stata a Cape Kennedy per assistere al lancio del razzo Saturno. Mi dica: ma la guida della capsula Apollo è automatica o no?».

Ne sapeva, del sistema automatico, almeno quanto lo specialista spaziale del «New York Times» e la domanda «Ma questa Virna Lisi, davvero, com’è?» mi venne spontanea, l’intervista, ancor più spontanea. L’intervista si svolse, una settimana dopo, a Hollywood, nella casa di Beverly Hills dove abita da cinque mesi insieme a Ubaldo, il fratello che l’ha seguita in America per tenerle compagnia e per proteggerla: ammesso che una ragazza così abbia bisogno di esser protetta da un fratello o da un altro. Si tratta infatti, e come vedrete, di una strana ragazza: la quale appartiene come poche altre all’era in cui vive. Seria, matura, ambiziosa, sorda a qualsiasi fantasia o illusione, qualsiasi rischio o avventura. Una specie di calcolatore elettronico, diciamo, che non commette errori nelle sue operazioni, su tutto offre una risposta scientifica, e finisce col nascondere in sé una inconfessata, ovvia, allucinante tristezza. Ma i calcolatori elettronici chiusi a chiave dentro la loro prigione di ferro, di numeri, di formule esatte, hanno forse qualcosa di allegro?

Dunque gli americani vogliono farle sostituire Marilyn Monroe. Sostituire la Monroe! Parliamone un poco, Virna, vogliamo? Parliamone a viso aperto e... perbacco! Non le pare, questa, una impresa un po’ audace? Una responsabilità un po’ pesante?
Ma io questa responsabilità non la sento nemmeno, io non ci penso nemmeno a sostituire la Monroe. Sono mesi che glielo dico, mio Dio, siete pazzi, come si fa a sostituire la Monroe, è già assurda l’idea di sostituire una persona con un’altra persona, figuriamoci sostituire la Monroe, con me poi, con quel pochino di seno che mi ritrovo, non che sia una questione di seno, s’intende, è che sono diversa fisicamente, psicologicamente, emotivamente, mio Dio, a me piaceva da morire la Monroe, quand’era sullo schermo arrivava fino all’ultima fila della platea, anche se stavi in fondo te la trovavi accanto e ti toccava una mano, sono mesi che glielo dico, ma io che c’entro con Marilyn Monroe? Dica: che c’entro?

Guardi, nulla. Proprio nulla.
Dicessero: devi sostituire Grace Kelly. Bè, capirei. Con lei ho molte cose in comune, le assomiglio come tipo fisico, le assomiglio come carattere, vita privata ineccepibile, disciplina, una certa abitudine a tenersi in disparte, a non dar confidenza, a non provocar scandali... Lo dice anche Richard Quine, il regista del film, che assomiglio piuttosto a Grace Kelly, quando facemmo il provino a Parigi venne fuori la sorella minore di Grace Kelly, non a caso lui e il produttore hanno perfin litigato su questo argomento: una volta dinanzi ai miei occhi. «Ti dico che è una nuova Grace Kelly» ripeteva Quine. «E io ti dico che possiamo cavarne una nuova Marilyn Monroe» ribatteva il produttore. Una Kelly, no, una Monroe. Kelly, Monroe. Kelly, Monroe. E io nel mezzo, smarrita, impaurita, a guardar prima l’uno e poi l’altro mi pareva d’esser a una partita di tennis, sa, quando si gira continuamente la testa per seguir la pallina che va da destra a sinistra, da sinistra a destra, da destra a sinistra, avevo il caos nella testa, a un certo punto avrei voluto strillare, accidenti, perché non dite che io sono io, perché volete farmi diventare un’altra a ogni costo?

E glielo disse, alla fine?
No, che non gliel’ho detto. Volevo quella parte, non son mica scema. Non gliel’ho detto per niente, al contrario: quando uno diceva Grace Kelly assumevo un’aria distaccata, elegante, proprio da Grace Kelly, quando l’altro diceva Marilyn Monroe assumevo un’aria svampita, un po’ scema, proprio da Marilyn Monroe. Comunque ha vinto il produttore ed eccomi qua, a imitare la Monroe: col capello vaporoso, le ciglia finte, il trucco pesante, l’espressione tonta delle bambolone. Oh, vanno pazzi qui a Hollywood per le bambolone. Mi hanno fatto ingrassare di quattro chili perché i vestiti mi tirassero addosso, mi hanno ossigenato i capelli, mi hanno insegnato le risatine speciali, e anche quando c’è un cocktail o un pranzo o una conferenza stampa devo conciarmi così, guai se mi presento col capello tirato, la faccia pulita, il tailleur nero come piace a me. A volte mi guardo allo specchio e non mi riconosco, per qualche minuto penso sbalordita: «Ma chi è quella scema?». Dio mio, guardi, quando sono conciata a quel modo, non mi resta che il neo sopra il labbro. E naturalmente tutti lo credono finto. L’altra sera ero a un party, a un tratto uno un po’ sbronzo si alza e col tovagliolo tenta di togliermi il neo. «Signore,» gli dico «questa è l’unica cosa vera che mi sia rimasta. Lo lasci stare, per carità. » Bè... l’ha presa per una battuta di spirito.

Coraggio, Virna. Coraggio. Lei non è il primo agnello sacrificato da Hollywood.
Agnello? Paura? E chi è agnello? E chi ha paura? Certe cose fanno parte del gioco, e io sto al gioco: purché non vada un po’ troppo in là. Una volta sola è andato un po’ troppo in là: me ne sono accorta quando ho capito perché tanti mi chiedevano in moglie. Un giornalista stava intervistandomi, le solite domande sugli uomini americani e il sesso, che ne pensa degli uomini americani, che ne pensa del sesso, oh, il sesso gli dico, guardi io gli do l’importanza che ha, non di più, non sono mai stata una donna ossessionata dal sesso, quanto agli uomini americani non so, a occhio e croce mi sembrano assai rilassanti, non ti guardan neanche se giri per strada in mutande! Sempre timidi, sempre distratti, ieri ero alla partita insieme a Ubaldo e Ubaldo mi dice: «Ma Virna, hai la gonna su, Virna, ti guardano Virna», io abbasso la gonna, giro gli occhi come a chiedere scusa, e nessuno mi guarda, nessuno; in Italia quando vai alla partita lo sai bene che gli uomini si occupano più delle tue gambe che della partita, qui no, si occupan solo della partita.
Dunque parlo con questo giornalista del sesso che secondo me esiste a chiacchiere e basta, almeno qui a Hollywood, e non so come il discorso mi cade sul figlio. «Ah, dunque ha un figlio» balbetta lui imbarazzato. «Sì,» dico «un bellissimo figlio che ha quasi due anni.» «Ah, complimenti pel suo coraggio» balbetta lui ancora più imbarazzato. «Sì,» dico «anche mio marito pensa che abbia coraggio.» E lui: «Come?! Ha anche un marito?!». Conclusione: nessuno sapeva che ero sposata, gli agenti di pubblicità avevan fatto di tutto per tenerlo nascosto, ritenevano molto più sexy reclamizzarmi come una donna sola, disponibile insomma, e in questo caso non son stata al gioco, lo ammetto, ho telefonato subito al produttore gridando che il marito ce l’ho e non cerco altri mariti, oltre al marito ho anche un figlio e legittimo, basta con gli equivoci. Ma poi cosa m’importa? Non durerò mica a lungo a fare la Monroe. Richard Quine è convinto che debba rimpiazzare la Kelly e il lancio pubblicitario si rifà piuttosto al personaggio Grace Kelly.

Lo so, l’hanno presentata come un’italiana molto seria, molto sofisticata, molto ricca: insomma la tipica ragazza che non ha bisogno di lavorare perché è piena di soldi. Qualcosa di mezzo tra Gloria Vanderbilt e Barbara Hutton.
Secondo loro fa chic.

Già. E lei si guarda dallo smentire.
Perché dovrei? Anche quello fa parte del gioco.

Già. Il gioco per avere successo: perché è molto ambiziosa. Molto, molto ambiziosa. Incredibilmente ambiziosa. O mi sbaglio? Non si sbaglia affatto, lo sono. L’ambizione non è mica una colpa, non è mica un peccato. Lo sono: ma con saggezza, fi- no al punto cioè in cui so di poter arrivare da sola, senza dir grazie a nessuno, detesto dir grazie a qualcuno. Vede, io ho un orologio dentro di me e questo orologio mi dice via via dove posso arrivare. Così, se dice che posso arrivare a cento, punto su cento; se dice che posso arrivare a trenta, punto su trenta. Il mio orologio dice oggi che, travestita da Grace Kelly o da Marilyn Monroe, posso puntare su Hollywood. E io ci punto, con decisione, senza incertezze, perché, guardi, non creda che sia latte e miele come mi vede la gente. Ho i lineamenti di bambola ma non sono affatto una bambola; non se n’è accorta solo lei, se n’è accorto anche Fellini che il mio volto è assai duro, i miei occhi durissimi, una volta m’ha detto: «Virna, se dovessi farti fare una parte ti farei fare la parte della donna cattiva», e poi ho ventisei anni, ne avrò ventisette a novembre, so quel che dico e che faccio.

Nessuno ne dubita, Virna. Nessuno. E a questo punto vorrei proprio spiegare, senza tenerezze o lusinghe, lei sa che non ne sono capace, chi è lei: chi è insomma la nuova italiana giunta a Hollywood per conquistare l’America. Un’italiana che, vedi caso, non è molto amata in Italia: che è giudicata antipatica, odiosa, scostante, e...
Lo so, lo so. La Lisi si dà un mucchio di arie... La Lisi guarda dall’alto in basso... Ma chi si crede d’esser la Lisi... La gente giudica sempre gli altri senza conoscerli, senza tentar di capirli. Quelli del cinema poi. Lo so di non esser simpatica a quelli del cinema. E lo sa perché? Perché loro non sono simpatici a me: l’antipatia provoca antipatia, no? Mi sono antipatici e così non li frequento. D’altra parte, perché dovrei? Io sto bene a casa, nell’ambiente borghese al quale appartengo: sono una borghese e non vedo perché dovrei mischiarmi con chi recita l’anticonformismo facendo le sei del mattino. Nel cinema poi ci son capitata per caso, non perché lo volessi, e non ci resto per vanità o per denaro. Del denaro, malgrado non sia Gloria Vanderbilt o Barbara Hutton, non ne ho bisogno davvero; la vanità si addice poco al mio buonsenso. Non che detesti le copertine sui settimanali, sia chiaro, la notorietà: certe cose fanno sempre piacere e chi lo nega è un bugiardo. Ma di questo mestiere io considero soprattutto il lavoro: quello che si fa dinanzi alla macchina da presa e costa fatica, il lavoro-lavoro. Oh! La Lisi si dà un mucchio di arie... La Lisi guarda dall’alto in basso... La Lisi... Oh! Glielo dico io chi è la Lisi: è una ragazza che ha avuto una educazione assai rigida, addirittura severa, e non si è mai dispiaciuta di questo. Pei miei genitori vedere un film era già quasi un peccato, alle sette e mezzo di sera bisognava essere a casa, quando cominciai a lavorare nel cinema fu come affrontare l’Inferno. Avevo quindici anni nemmeno, arrivavo sul set accompagnata dal padre, la madre, la zia... e non mi son mai sottoposta a un tirocinio speciale... Mi spiego? Per forza sono antipatica, no?

No, non per quello, direi. Per la sua furbizia, direi. Per questa sua capacità di ottenere tutto senza rimetterci mai: marito, figlio, carriera, ricchezza, successo. Vogliamo parlare di questo nel nostro ritrattino? S’era ritirata dal cinema sposandosi. Aveva detto: «Non me ne importa di Hollywood», e invece eccola qua: a dimostrare che gliene importa anche troppo...
Quando mi sposai avevo ventidue anni. Lavoravo da sette, ero stanca. Mio marito disse che preferiva vedermi a casa e io lo accontentai con entusiasmo, con sollievo: per un anno rimasi a casa a fare la mogliettina. Ma non si perde l’abitudine al lavoro, a sette anni di attività, e non mi ci volle molto a capire che non riesco a vivere come una ricca borghese che la mattina va a spendere i soldi del coniuge e il pomeriggio gioca a carte insieme alle amiche. Io, se non ho cinque appuntamenti al giorno, cento cose da fare, mi sento come malata inutile sciocca, mio Dio l’angoscia di quelle giornate! Di quell’estate! La mattina al mare, sotto l’ombrellone, con le altre mogli che sferruzzavano i golfini, il pomeriggio a spettegolare del prossimo, la sera al cinema, mio Dio, c’è da impazzire, mi sembrava di giocare alle signore, non ce la facevo, nella nostra epoca una donna non può vivere così, una donna moderna è condizionata al lavoro, e quando fu chiaro che non ce l’avrei fatta, lo confessai a mio marito, lasciami andare per carità. Lui capì, e mi lasciò andare. Però non creda che non abbia pagato per questo, che per me sia tutto gratis. Non creda che sia riuscita a conciliare ogni cosa, che ci riesca. La mia famiglia io l’ho assai trascurata tornando al lavoro: se non avessi i genitori e la nurse, mio figlio sarebbe uno sbandatello. Da quando mi trovo a Hollywood, e sono ormai cinque mesi, non ho visto mio figlio neanche una volta; quanto a mio marito, è venuto solo un mese fa per dieci giorni. Se la mia famiglia resta unita, guardi, è perché sono una donna seria e non mi permetto divagazioni sentimentali. È facile per una attrice permettersi divagazioni sentimentali, quasi inevitabile spesso, ma io non me ne sono mai permesse, mai mai mai! Io ho conosciuto solo un uomo, mio marito, e a lui resto fedele perché penso che questa sia la cosa giusta da fare. Guardi, noi giovani d’oggi siamo molto saggi: molto più saggi e maturi di quanto si creda. Io non capisco perché la gente parli male di noi.

Sono saggi per calcolo, quando lo sono. Per un piano, direi, freddamente prestabilito: non per istinto o per desiderio, o per convinzione interiore. E forse mi sbaglio, ma la sua vita è una dimostrazione di questo.
E chi lo nega? La mia vita io l’ho sempre organizzata come si organizza l’orario di un treno: ho sempre saputo in anticipo ciò che avrei fatto. A questa età devo sposarmi, ho detto, a questa età devo avere un figlio, e la famiglia faceva parte del piano prestabilito. Ci vuole buonsenso, nella vita, ci vuole giudizio; e io ho sempre pensato che il successo è importante ma, se dietro non c’è la famiglia, diventa pericoloso. La famiglia è un’àncora, una ciambella di salvataggio, una è più rilassata quando ha la famiglia, più sicura, se invece una ha solo il lavoro si sente sbandata, passa il suo tempo a dire oddio la tale mi ha soffiato la parte, oddio quel contratto è sfumato, oddio non mi hanno fatto la copertina, oddio mi vengon le rughe, e quando perde il lavoro, quando perde la gioventù, non le resta più nulla. No, no, bisogna organizzarsi se si vuole un avvenire sicuro, se non ci si organizza capita sempre il momento in cui arriva la crisi, e con la crisi che fai? Ti tiri una fucilata? Io non sono tipo da tirarmi fucilate, e non lo sono perché non mi ammalo se la copertina sul l’«Europeo» non me la fanno. La copertina è importante? Ma sì, è importante, però che te ne fai se dietro di te non c’è qualcosa di solido, che te ne fai se non sei inserita dentro un sistema? Fare un film con Jack Lemmon è importante, però che fai quando il film è finito? Io, ora che il film è finito, me ne torno a casa da mio marito e mio figlio: posso tornarmene a casa perché ho saputo organizzarmi, con ostinazione. Sono rimasta a letto otto mesi per avere quel figlio, immobile, senza alzarmi nemmeno per andare in bagno, sono pronta a ripeterlo quando vorrò un altro figlio, e questa son io. Io voglio sapere cosa mi accadrà domani e dopodomani e dopodomani ancora...

Che noia, però. Non si annoia a viver così? A preveder tutto?
Neanche per sogno: mi trovo benissimo. Vede, a me non piace rischiare: detesto il rischio nella stessa misura in cui detesto lo sport. Perché fare lo sport? Magari ti rompi una caviglia, devi startene a letto due mesi e perdi un film. Vede, io di morire non ho paura: posseggo il brevetto di pilota, lo sa, e ogni volta che guido l’aereo potrei precipitare, morire, però morire rientra nel previsto; rompersi la caviglia, no. In altre parole per me è spaventoso rompersi una caviglia, una caviglia rotta interrompe l’equilibrio, ma non è spaventoso morire perché morire rientra nell’equilibrio del mondo, non è un imprevisto. Oh, detesto l’imprevisto! Detesto rischiare. E... a lei queste persone non piacciono, vero?

Non è che mi piacciano o mi dispiacciano. È che non le capisco. La vita senza avventura, senza sorpresa, senza mistero, cos’è?
Io, sono le sole che capisco. E del mistero, della sorpresa, dell’avventura non mi importa niente.

Allora l’America è proprio il paese che fa per lei. Allora si troverà molto bene in America, avrà più successo di quanto crede in America. Dica, Virna: le piace molto l’America?
Oh, sì! Molto! Tutto è così serio, qui, organizzato, previsto. Non avrei mai immaginato che un paese potesse essere così serio, organizzato, previsto. Oh, sì! Mi piace molto l’America. Mi piace tutto dell’America. Mi piace... mi piace... mi aiuti...

La ricchezza dell’America.
Esatto. La ricchezza. Mi piace ad esempio che la mia parrucchiera abbia un’automobile bella come la mia, che la mia domestica abbia un’automobile bella come la mia, e il tele- visore, e la macchina per lavare i piatti, e un appartamento elegante, e non me ne importa nulla che per questo siano aridi, senza fantasia, incapaci di comunicarmi qualcosa. Secondo me è più importante star bene, aver soldi, che comunicare con gli altri, e poi guardi: forse che le mie amiche di Roma mi comunicano qualcosa di più degli americani? Mi si dice: ma gli americani parlano solo di baseball, di soldi, dei prezzi al mercato. Bè? E in Italia si parla di qualcos’altro? Il mondo è tutto uguale, ormai, e allora tanto vale stare nel paese che ti offre più soldi e comodità. E poi mi piace... mi piace... mi aiuti...

Il perbenismo dell’America.
Esatto. Vede, hanno tentato di presentarmi come una ragazza disponibile e sexy, d’accordo. Però quando hanno saputo che il marito esisteva, che il figlio esisteva, sono stati tutti contenti. Agli americani piace che un’attrice abbia famiglia e sia rispettabile: avere un marito, essergli fedele, avere un figlio, amarlo, qui è una cosa che ti fa onore. Gli americani non hanno paura del perbenismo. In Italia, invece, non so: con tutto il nostro cattolicesimo sembra che il perbenismo sia come una colpa, un difetto. Nel cinema specialmente. Voglio dire che io lo so benissimo dove sta il bene e dove sta il male, ma in Italia, a volte, sono riusciti a farmene dubitare, a farmi dire: ma faccio bene dopotutto a essere una donna seria, non avranno ragione per caso quelle che non lo sono? Insomma, a un certo momento, ti mettono addosso un sospetto, il sospetto che potresti anche avere sbagliato: in America no, in America un’attrice dev’essere una donna seria, l’onorabilità te la mettono anche nel contratto, e questo a me sta proprio bene. E poi mi piace... mi piace... mi aiuti...

Non saprei. Questi fiori di plastica, dica, le piacciono?
Ecco... guardi no... naturalmente no. Voglio dire che quando sono arrivata mi hanno fatto trovare il camerino pieno di fiori, fiori meravigliosi, poi li ho annusati ed erano fiori di plastica: ho provato come una stretta al cuore. Io non capisco, ci sono giardini bellissimi qui, coltivati da giardinieri giapponesi, però entri nelle case e non c’è un fiore vero, sono tutti fiori di plastica, fiori fatti a macchina. Così ogni volta mi arrabbio o provo quella stretta al cuore, poi però ci ripenso e mi dico: well, why not? Bè, perché no? I fiori fatti a macchina sono belli a vedersi come i fiori veri e sui fiori veri hanno un grande vantaggio: non appassiscono e non hanno bisogno di acqua, e insomma sono più economici e pratici.

Oddio, Virna, che disastro. Lei è già americana: non v’è dubbio che avrà successo quaggiù. Dica: le piace anche il futuro che si prepara quaggiù?
Oh, sì, certamente. Non ho paure né fisiche né metafisiche per il futuro che si prepara quaggiù, appartengo in ogni senso all’epoca in cui sono nata. Un razzo mi eccita, l’idea di andar sulla Luna mi entusiasma, se mi chiedessero: «Virna, vuoi far l’astronauta? », direi immediatamente di sì. Non conosco l’invidia ma ogni volta che un astronauta va su provo come un’invidia, ho il brevetto di pilota, lo sa, sì, gliel’ho già detto, lo sa, comunque niente mi piace quanto volare. Uno si sente il padrone del mondo a volare, l’aereo è forse l’oggetto più bello che l’uomo ha inventato, io conosco ogni tipo di aereo, quando esce un nuovo modello vado subito a leggere quale velocità può raggiungere, e quale modifica è stata fatta al motore, se potessi cambiarmi con un’altra donna mi cambierei con la Tereshkova.

Via, no: oltretutto la Tereshkova è bruttina. Non è contenta d’esser così bella?
Intanto bisogna vedere se lo sono davvero, io non ho affatto una tal convinzione. Essere bella non significa avere lineamenti perfetti, una faccia di bambola come la mia. Bella, secondo me, è Jeanne Moreau, lo è stata Katharine Hepburn. La bellezza non viene da un volto liscio, costruito bene, privo di rughe: viene da un volto interessante, intelligente. Io ho sempre desiderato un volto interessante, intelligente, invece ho sempre avuto un volto di pupattola e ne ho sempre sofferto. Ammettiamo comunque che sia bella: lei crede davvero che la bellezza sia un grosso vantaggio, un utile strumento? La bellezza è quella cosa che fa fermare la gente ad aiutarti quando la tua automobile è in panne: per quanto incredibile possa sembrare, spesso io preferirei restar sola con la mia automobile in panne. La maggior parte delle donne belle che io conosco sono donne infelici, perseguitate oltretutto dalla fama di stupide. Se ho combinato qualcosa nella vita, se combinerò qualcosa nella vita, non è stato e non sarà perché sono bella: ma perché ho usato e intendo usare il cervello. Io attendo con impazienza le rughe, la vecchiaia: le rughe mi toglieranno questo volto di bambola, e la gente mi prenderà più sul serio, potrò interpretare ruoli più intelligenti. Oh, questa storia della femminilità, della grazia! Non me ne importa nulla d’essere femminile, graziosa: avrei dato non so cosa per nascere uomo, fare a pugni da uomo. Lo sa quali sono i film che io preferisco? I film di guerra. Quando vado a vedere un film di guerra mi illudo di essere uno di quei personaggi, quando sparano, sparo, quando muoiono, muoio, uscendo ho una carica addosso che potrei rovesciar il mondo col mignolo. I film d’amore invece non li posso soffrire, i film che faccio io: quando li vedo, sbadiglio e m’entra il nervoso.

Capisco. E dal momento che non può andare alla guerra, che non può andar sulla Luna, che non può fare a pugni, che le capita la tremenda sciagura d’essere bella, saggia, perbene, come si diverte a vivere, Virna? Voglio dire: quando non lavora, quando non vola, quando non organizza il futuro con l’orologio e il compasso, lei cosa fa?
Se glielo dico, lei non ci crede.

Sì, sì: ci credo.
Ecco... io...

Coraggio. Lei...
Vado a spasso pei...

Coraggio. Va a spasso pei...
Pei cimiteri.

Pei cimiteri?! Ho capito bene?... Ha detto cimiteri?!?
Cimiteri. Sì. Cimiteri. Mi piacciono tanto. Non so perché mi piacciono, va a vedere perché mi piacciono, so soltanto che nei cimiteri mi sento tranquilla, serena, felice. Ce n’è uno, a Roma, vicino a casa mia, dove trascorro ore e ore. Appena ho un poco di tempo libero prendo un libro e vado in quel cimitero. Lì leggo, o passeggio, o penso... Una delizia, un conforto.

Una delizia?!...
E il cimitero di New York lo ha mai visto? Sì, quello che si costeggia venendo dall’aeroporto. Non è stupendo? Così grande, sterminato, sembra una città, mezz’ora di taxi non basta a costeggiarlo. Così grigio, così triste, così fermo. Oh, è un cimitero bellissimo quello di New York.

Bellissimo?!...
E quello di Los Angeles, come si chiama, Forest Lawn, non le piace? Oh, quello è anche divertente. Io, quando son malinconica, prendo la macchina e vado a Forest Lawn. Quei recinti a forma di cuore, quella musichina che esce dalle tombe o dagli alberi, quelle cappelle incredibili. C’è anche lo spettacolo, a Forest Lawn, la crocifissione di Cristo, l’ha vista? Suona il colpo di gong, poi la voce di Giuda dice: «Adesso ti tradirò», straordinario. Oh, io capisco gli americani che vanno a fare i picnic tra le tombe.

Il picnic fra le tombe?!...
Mi affascina, che devo farci? Forse perché non ho paura di morire, ripeto, non me ne importa. Morire è normale, finire è normale, tutto muore a questo mondo, tutto finisce, allora perché averne paura? Mica che mi dispiaccia stare al mondo, intendiamoci, io son contentissima d’essere al mondo, però più di quel tanto non ci si può stare e così accetto la legge e...

Va a spasso pei cimiteri.
Vado a spasso pei cimiteri. Però questo che c’entra? Non dovevamo fare il mio ritratto?

È già fatto, Virna. È già fatto.


(Hollywood, giugno 1964. © 2010 RCS Libri S.p.A. Milano)
19 dicembre 2014 | 07:00
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Da - http://www.corriere.it/spettacoli/14_dicembre_18/virna-racconto-oriana-fallaci-non-saro-nuova-marilyn-57951536-86ec-11e4-bef5-43
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 10, 2015, 04:03:22 pm »

Il documento

Oriana Fallaci a una terrorista «Un neonato per te è un nemico?»
La giornalista e scrittrice nel 1970 intervistò Rascida Abhedo, palestinese, che fece esplodere due bombe in un mercato di Gerusalemme provocando una carneficina

Di Oriana Fallaci

Sembrava una monaca. O una guardia rossa di Mao Tse-tung. Delle monache aveva la compostezza insidiosa, delle guardie rosse l’ostilità sprezzante, di entrambe il gusto di rendersi brutta sebbene fosse tutt’altro che brutta. Il visino ad esempio era grazioso: occhi verdi, zigomi alti, bocca ben tagliata. Il corpo era minuscolo e lo indovinavi fresco, privo di errori. Ma l’insieme era sciupato da quei ciuffi neri, untuosi, da quel pigiama in tela grigioverde, un’uniforme da fatica suppongo, di taglia tre volte superiore alla sua: quella sciatteria voluta, esibita, ti aggrediva come una cattiveria. Dopo il primo sguardo, ti apprestavi con malavoglia a stringerle la mano, che ti porgeva appena, restando seduta, costringendoti a scendere verso di lei nell’inchino del suddito che bacia il piede della regina. In silenzio bestemmiavi: «Maleducata!». La mano toccò molle la mia. Gli occhi verdi mi punsero con strafottenza, anzi con provocazione, una vocetta litigiosa scandì: «Rascida Abhedo, piacere». Poi, rotta dallo sforzo che tal sacrificio le era costato, si accomodò meglio contro la spalliera del grande divano in fondo al salotto dove occupava il posto d’onore. Dico così perché v’erano molte persone, e queste le sedevan dinanzi a platea: lei in palcoscenico e loro in platea. Una signora che avrebbe fatto da interprete, suo marito, un uomo che mi fissava muto e con sospettosa attenzione, un giovanotto dal volto dolcissimo e pieno di baffi, infine Najat: la padrona di casa che aveva organizzato l’incontro con lei.

Come lei, essi appartenevano tutti al Fronte Popolare, cioè il movimento maoista che da Al Fatah si distingue per la preferenza a esercitare la lotta coi sabotaggi e il terrore. Però, al contrario di lei, eran tutti ben vestiti, cordiali e borghesi: invece che ad Amman avresti detto di trovarti a Roma, tra ricchi comunisti à la page, sai tipi che fingono di voler morire per il proletariato ma poi vanno a letto con le principesse. La signora che avrebbe fatto da interprete amava andare in vacanza a Rapallo e calzava scarpe italiane. Najat, una splendida bruna sposata a un facoltoso ingegnere, era la ragazza più sofisticata della città: in una settimana non l’avevo mai sorpresa con lo stesso vestito, con un accessorio sbagliato. Sempre ben pettinata, ben profumata, ben valorizzata da un completo giacca-pantaloni o da una minigonna. Non credevi ai tuoi orecchi quando diceva: «Sono stanca perché ho partecipato alle manovre e mi duole una spalla perché il Kalashnikov rincula in modo violento». Stasera indossava un modello francese e il suo chic era così squisito che, paragonata a lei, la monaca in uniforme risultava ancor più inquietante. Forse perché sapevi chi era. Era colei che il 21 febbraio 1969 aveva fatto esplodere due bombe al supermercato di Gerusalemme, causando una carneficina. Era colei che dieci giorni dopo aveva costruito un terzo ordigno per la cafeteria della Università Ebraica. Era colei che per tre mesi aveva mobilizzato l’intera polizia israeliana e provocato Dio sa quanti arresti, repressioni, tragedie. Era colei che il Fronte custodiva per gli incarichi più sanguinolenti. Ventitré anni, ex maestra di scuola. La fotografia appesa in ogni posto di blocco: «Catturare o sparare». La patente di eroe. Al suo tono strafottente, provocatorio, ora s’era aggiunta un’espressione di gran sufficienza: la stessa che certe dive esibiscono quando devono affrontare i giornalisti curiosi. Mi accomodai accanto a lei sul divano. Lasciai perdere ogni convenevole, misi in moto il registratore: «Voglio la tua storia, Rascida. Dove sei nata, chi sono i tuoi genitori, come sei giunta a fare quello che fai». Alzò un sopracciglio ironico, tolse di tasca un fazzoletto. Si pulì il naso, lenta, rimise in tasca il fazzoletto. Si raschiò la gola. Sospirò. Rispose.

Sono nata a Gerusalemme, da due genitori piuttosto ricchi, piuttosto conformisti, e assai rassegnati. Non fecero mai nulla per difendere la Palestina e non fecero mai nulla per indurmi a combattere. Fuorché influenzarmi, senza saperlo, coi loro racconti del passato. Mia madre, sempre a ripetere di quando andava a Giaffa col treno e dal finestrino del treno si vedeva il Mediterraneo che è così azzurro e bello. Mio padre, sempre a lagnarsi della notte in cui era fuggito con la mia sorellina su un braccio e me nell’altro braccio. E poi a dirmi dei partiti politici che c’erano prima del 1948, tutti colpevoli d’aver ceduto, d’aver deposto le armi, ma il suo era meno colpevole degli altri eccetera. E poi a mostrarmi la nostra vecchia casa al di là della linea di demarcazione, in territorio israeliano. Si poteva vederla dalle nostre finestre e penso che questo, sì, m’abbia servito. Prima di andare a letto la guardavo sempre, con ira, e a Natale guardavo gli arabi che si affollavano al posto di blocco per venire dai parenti profughi. Piangevano, perdevano i bambini, i fagotti. Erano brutti, senza orgoglio, e ti coglieva il bisogno di fare qualcosa. Questo qualcosa io lo scoprii nel 1962 quando entrai a far parte del Movimento nazionale arabo, il Fronte Popolare di oggi. Avevo quindici anni, non dissi nulla ai miei genitori. Si sarebbero spaventati, non avrebbero compreso. Del resto si faceva poco: riunioni di cellula, corsi politici, manifestazioni represse dai soldati giordani.

Come eri entrata in contatto con quel movimento?
A scuola. Cercavano adepti fra gli studenti. Poi venne il 1967: l’occupazione di Gerusalemme, di Gerico, del territorio a est del Giordano. Io in quei giorni non c’ero, ero nel Kuwait: insegnavo in una scuola media di una cittadina sul Golfo. C’ero stata costretta perché nelle scuole della Giordania c’era poca simpatia pei maestri palestinesi. L’occupazione di Gerusalemme mi gettò in uno stato di sonnolenza totale. Ero così mortificata che per qualche tempo non vi reagii e ci volle tempo perché capissi che agli altri paesi arabi non importava nulla della Palestina, non si sarebbero mai scomodati a liberarla: bisognava far questo da soli. Ma allora perché restavo in quella scuola a insegnare ai ragazzi? Il mio lavoro lo amavo, intendiamoci, lo consideravo alla stregua di un divertimento, ma era necessario che lo abbandonassi. Mi dimisi e venni ad Amman dove mi iscrissi subito al primo gruppo di donne addestrate dall’FPLP. Ragazze tra i diciotto e i venticinque anni, studentesse o maestre come me. Era il gruppo di Amina Dahbour, quella che hanno messo in prigione in Svizzera per il dirottamento di un aereo El Al, di Laila Khaled, che dirottò l’aereo della TWA, di Sheila Abu Mazal, la prima vittima della barbarie sionista.

La interruppi: anche questo nome m’era familiare perché ovunque lo vedevi stampato con l’appellativo di eroina e sui giornali occidentali avevo letto che era morta in circostanze eccezionali. Chi diceva in combattimento, chi diceva sotto le torture.

Rascida, come morì Sheila Abu Mazal?
Una disgrazia. Preparava una bomba per un’azione a Tel Aviv e la bomba scoppiò tra le sue mani.

Perché?
Così.

Raccontami degli addestramenti, Rascida.
Uffa. Eran duri. Ci voleva una gran forza di volontà per compierli. Marce, manovre, pesi. Sheila ripeteva: bisogna dimostrare che non siamo da meno degli uomini! E per questo in fondo scelsi il corso speciale sugli esplosivi. Era il corso che bisognava seguire per diventare agenti segreti e, oltre alla pratica degli esplosivi, prevedeva lo studio della topografia, della fotografia, della raccolta di informazioni. I nostri istruttori contavano molto sulle donne come elemento di sorpresa: da una ragazza araba non ci si aspettano certe attività. Divenni brava a scattar fotografie di nascosto ma specialmente a costruire ordigni a orologeria. Più di ogni altra cosa volevo maneggiare le bombe, io sono sempre stata un tipo senza paura. Anche da piccola. Non m’impressionava mai il buio. I corsi duravano a volte quindici giorni, a volte due mesi o quattro. Il mio corso fu lungo, assai lungo, perché dovetti anche imparare a recarmi nel territorio occupato. Passai il fiume molte volte, insieme alle mie compagne. A quel tempo non era difficilissimo perché gli sbarramenti fotoelettrici non esistevano, ma la prima volta non fu uno scherzo. Ero tesa, mi aspettavo di morire. Ma presto fui in grado di raggiungere Gerusalemme e stabilirmici come agente segreto.

Dimmi delle due bombe al supermarket, Rascida.
Uffa. Quella fu la prima operazione di cui posso rivendicare la paternità. Voglio dire che la concepii da sola, la preparai da sola, e da sola la portai fino in fondo. Avevo ormai partecipato a tanti sabotaggi del genere e potevo muovermi con disinvoltura. E poi avevo una carta di cittadinanza israeliana con cui potevo introdurmi in qualsiasi posto senza destare sospetto. Poiché abitavo di nuovo coi miei genitori, scomparivo ogni tanto senza dare nell’occhio. L’idea di attaccare il supermarket l’ebbi quattro giorni dopo la cattura di Amina a Zurigo, e la morte di Abdel. Nella sparatoria con l’israeliano, ricordi, Abdel rimase ucciso. Bisognava vendicare la morte di Abdel e bisognava dimostrare a Moshe Dayan la falsità di ciò che aveva detto: secondo Moshe Dayan, il Fronte Popolare agiva all’estero perché non era capace di agire entro Israele. E poi bisognava rispondere ai loro bombardamenti su Irbid, su Salt. Avevano ucciso civili? Noi avremmo ucciso civili. Del resto nessun israeliano noi lo consideriamo un civile ma un militare e un membro della banda sionista.

Anche se è un bambino, Rascida? Anche se è un neonato? (Gli occhi verdi si accesero d’odio, la sua voce adirata disse qualcosa che l’interprete non mi tradusse, e subito scoppiò una gran discussione cui intervennero tutti: anche Najat, anche il giovanotto col volto dolcissimo. Parlavano in arabo, e le frasi si sovrapponevan confuse come in una rissa da cui si levava spesso un’invocazione: «Rascida!». Ma Rascida non se ne curava. Come un bimbo bizzoso scuoteva le spalle e, solo quando Najat brontolò un ordine perentorio, essa si calmò. Sorrise un sorriso di ghiaccio, mi replicò).

«Questa domanda me la ponevo anch’io, quando mi addestravo con gli esplosivi. Non sono una criminale e ricordo un episodio che accadde proprio al supermarket, un giorno che vi andai in avanscoperta. C’erano due bambini. Molto piccoli, molto graziosi. Ebrei. Istintivamente mi chinai e li abbracciai. Ma stavo abbracciandoli quando mi tornarono in mente i nostri bambini uccisi nei villaggi, mitragliati per le strade, bruciati dal napalm. Quelli di cui loro dicono: bene se muore, non diventerà mai un fidayin. Così li respinsi e mi alzai. E mi ordinai: non farlo mai più, Rascida, loro ammazzano i nostri bambini e tu ammazzerai i loro. Del resto, se questi due bambini morranno, o altri come loro, mi dissi, non sarò stata io ad ammazzarli. Saranno stati i sionisti che mi forzano a gettare le bombe. Io combatto per la pace, e la pace val bene la vita di qualche bambino. Quando la nostra vera rivoluzione avverrà, perché oggi non è che il principio, numerosi bambini morranno. Ma più bambini morranno più sionisti comprenderanno che è giunto il momento di andarsene. Sei d’accordo? Ho ragione?»

No, Rascida.
La discussione riprese, più forte. Il giovanotto dal volto dolcissimo mi lanciò uno sguardo conciliativo, implorante. V’era in lui un che di straziante e ti chiedevi chi fosse. Poi, con l’aiuto di alcune tazze di tè, l’intervista andò avanti.

Perché scegliesti proprio il supermarket, Rascida?
Perché era un buon posto, sempre affollato. Durante una decina di giorni ci andai a tutte le ore proprio per studiare quando fosse più affollato. Lo era alle undici del mattino. Osservai anche l’ora in cui apriva e in cui chiudeva, i punti dove si fermava più gente, e il tempo che ci voleva a raggiungerlo dalla base segreta dove avrei ritirato la bomba o le bombe. Per andarci mi vestivo in modo da sembrare una ragazza israeliana, non araba. Spesso vestivo in minigonna, altre volte in pantaloni, e portavo sempre grandi occhiali da sole. Era interessante, scoprivo sempre qualcosa di nuovo e di utile, ad esempio che se camminavo con un peso il tragitto tra la base e il supermarket aumentava. Infine fui pronta e comprai quei due bussolotti di marmellata. Molto grandi, da cinque chili l’uno, di latta. Esattamente ciò di cui avevo bisogno.

Per le bombe?
Sicuro. L’idea era di vuotarli, riempirli di esplosivo, e rimetterli dove li avevo presi. Quella notte non tornai a casa. Andai alla mia base segreta e con l’aiuto di alcuni compagni aprii i bussolotti. Li vuotai di quasi tutta la marmellata e ci sistemai dentro l’esplosivo con un ordigno a orologeria. Poi saldai di nuovo il coperchio, perché non si vedesse che erano stati aperti e...

Che marmellata era, Rascida?
Marmellata di albicocche, perché?

Così... Non mangerò mai più marmellata di albicocche... (Rascida rise a gola spiegata e a tal punto che le venne la tosse). «Io la mangiai, invece. Era buona. E dopo averla mangiata andai a dormire.

Dormisti bene, Rascida?
Come un angelo. E alle cinque del mattino mi svegliai bella fresca. Mi vestii elegantemente, coi pantaloni alla charleston, sai quelli attillati alla coscia e svasati alla caviglia, mi pettinai con cura, mi truccai gli occhi e le labbra. Ero graziosa, i miei compagni si congratulavano: «Rascida!». Quando fui pronta misi i bussolotti della marmellata in una borsa a sacco: sai quelle che si portano a spalla. Le donne israeliane la usano per fare la spesa. Uh, che borsa pesante! Un macigno! L’esplosivo pesava il doppio della marmellata. Ecco perché negli addestramenti ti abituano a portare pesi.

Come ti sentivi, Rascida? Nervosa, tranquilla?
Tranquilla, anzi felice. Ero stata così nervosa nei giorni precedenti che mi sentivo come scaricata. E poi era una mattina azzurra, piena di sole. Sapeva di buon auspicio. Malgrado il peso della borsa camminavo leggera, portavo quelle bombe come un mazzo di fiori. Sì, ho detto fiori. Ai posti di blocco i soldati israeliani perquisivano la gente ma io gli sorridevo con civetteria e, senza attendere il loro invito, aprivo la borsa: «Shalom, vuoi vedere la mia marmellata?». Loro guardavano la marmellata e con cordialità mi dicevano di proseguire. No, non andai dritta al supermarket: dove andai prima è affar mio e non ti riguarda. Al supermarket giunsi poco dopo le nove. Che pensi? (Pensavo a un episodio del film La battaglia di Algeri, quello dove tre donne partono una mattina per recarsi a sistemare esplosivi su obiettivi civili. Una delle tre donne è una ragazza che assomiglia straordinariamente a Rascida: piccola, snella, e porta i pantaloni. Passando ai posti di blocco strizza l’occhio ai soldati francesi, civetta. Chissà se Rascida aveva visto il film. Magari sì. Bisognava che glielo chiedessi quando avrebbe finito il racconto. Ma poi me ne dimenticai. O forse volli dimenticarmene per andarmene via prima). Pensavo... a nulla.

Cosa accadde quando entrasti nel supermarket, Rascida? Entrai spedita e agguantai subito il carry-basket, sai il cestino di metallo dove si mette la roba, il cestino con le ruote. Al supermarket c’è il self-service, ti muovi con facilità. La prima cosa da fare, quindi, era togliere i due bussolotti di marmellata dalla mia borsa e metterli nel carry-basket. Ci avevo già provato ma con oggetti più piccoli, non così pesanti, coi bussolotti grandi no e per qualche secondo temetti di dare nell’occhio. Mi imposi calma, perciò. Mi imposi anche di non guardare se mi guardavano altrimenti il mio gesto avrebbe perso spontaneità. Presto i bussolotti furono nel carry-basket. Ora si trattava di rimetterli a posto ma non dove li avevo presi perché non era un buon punto. Alla base avevo caricato i due ordigni a distanza di cinque minuti, in modo che uno esplodesse cinque minuti prima dell’altro. Decisi di mettere in fondo al negozio quello che sarebbe esploso dopo. L’altro, invece, vicino alla porta dove c’era uno scaffale con le bottiglie di birra e i vasetti.

Perché, Rascida?
Perché la porta era di vetro come le bottiglie di birra, come i vasetti. Con l’esplosione sarebbero schizzati i frammenti e ciò avrebbe provocato un numero maggiore di feriti. O di morti. Il vetro è tremendo: lanciato a gran velocità può decapitare, e anche i piccoli pezzi sono micidiali. Non solo, la prima esplosione avrebbe bloccato l’ingresso. Allora i superstiti si sarebbero rifugiati in fondo al negozio e qui, cinque minuti dopo, li avrebbe colti la seconda esplosione. Con un po’ di fortuna, nel caso la polizia fosse giunta alla svelta, avrei fatto fuori anche un bel po’ di polizia. Rise divertita, contenta. E ciò le provocò un nuovo accesso di tosse.

Non ridere, Rascida. Continua il tuo racconto, Rascida. Sempre senza guardare se mi guardavano, sistemai i due bussolotti dove avevo deciso. Se qualcuno se ne accorse non so, ero troppo concentrata in ciò che stavo facendo. Ricordo solo un uomo molto alto, con il cappello, che mi fissava. Ma pensai che mi fissasse perché gli piacevo. Te l’ho detto che ero molto graziosa quella mattina. Poi, quando anche il secondo bussolotto fu nello scaffale, comprai alcune cose: tanto per non uscire a mani vuote. Comprai un grembiule da cucina, due stecche di cioccolata, altre sciocchezze. Non volevo dare troppi soldi agli ebrei.

Cos’altro comprasti, Rascida?
I cetriolini sottaceto. E le cipolline sottaceto. Mi piacciono molto. Mi piacciono anche le olive farcite. Ma cos’è questo, un esame di psicologia?

Se vuoi. E li mangiasti quei cetriolini, quelle cipolline? Certo. Li portai a casa e li mangiai. Non era un’ora adatta agli antipasti e mia madre disse, ricordo: «Da dove vengono, quelli?». Io risposi: «Li ho comprati al mercato». Ma che te ne importa di queste cose? Torniamo al supermarket. Avevo deciso che l’intera faccenda dovesse durare quindici minuti. E quindici minuti durò. Così, dopo aver pagato uscii e tornai a casa. Qui feci colazione e riposai. Un’ora di cui non ricordo nulla. Alle undici in punto aprii la radio per ascoltar le notizie. Le bombe erano state caricate alle sei e alle sei e cinque, affinché scoppiassero cinque ore dopo. L’esplosione sarebbe dunque avvenuta alle undici e alle undici e cinque: l’ora dell’affollamento. Aprii la radio per accertarmene e per sapere se... se erano morti bambini nell’operazione.

Lascia perdere, Rascida. Non ci credo, Rascida. Cosa disse la radio?
Disse che c’era stato un attentato al supermarket e che esso aveva causato due morti e undici feriti. Rimasi male, due morti soltanto, e scesi per strada a chiedere la verità. Radio Israele non dice mai la verità. La verità era che le due bombe avevan causato ventisette morti e sessanta feriti fra cui quindici gravissimi. Bè, mi sentii meglio anche se non perfettamente contenta. Gli esperti militari della mia base avevano detto che ogni bomba avrebbe ucciso chiunque entro un raggio di venticinque metri e, verso le undici del mattino, al supermarket non contavi mai meno di trecentocinquanta persone. Oltre a un centinaio di impiegati.

Rascida, provasti anzi provi nessuna pietà per quei morti?
No davvero. Il modo in cui ci trattano, in cui ci uccidono, spenge in noi ogni pietà. Io ho dimenticato da tempo cosa significa la parola pietà e mi disturba perfino pronunciarla. Corre voce che ci fossero arabi in quel negozio. Non me ne importa. Se c’erano, la lezione gli servì a imparare che non si va nei negozi degli ebrei, non si danno soldi agli ebrei. Noi arabi abbiamo i nostri negozi, e i veri arabi si servono lì.

Rascida, cosa facesti dopo esserti accertata che era successo ciò che volevi?
Dissi a mia madre: «Ciao, mamma, esco e torno fra poco». La mamma rispose: «Va bene, fai presto, stai attenta». Chiusi la porta e fu l’ultima volta che la vidi. Dovevo pensare a nascondermi, a non farmi più vedere neanche se arrestavano i miei. E li arrestarono. Non appena il Fronte Popolare assunse la paternità dell’operazione, gli israeliani corsero da quelli che appartenevano al Fronte. Hanno schedari molto precisi, molto aggiornati: un dossier per ciascuno di noi. E tra coloro che presero c’era un compagno che sapeva tutto di me. Così lo torturarono ma lui resistette tre giorni: è la regola. Tre giorni ci bastano infatti a metterci in salvo. Dopo tre giorni disse il mio nome, così la polizia venne ad arrestarmi ma non mi trovò e al mio posto si portò via la famiglia. Mio padre, mia madre, mia sorella maggiore e i bambini. Mia madre e i bambini li rilasciarono presto, mio padre invece lo tennero tre mesi e mia sorella ancora di più. Al processo non ci arrivarono mai perché in realtà né mio padre né mia sorella sapevano niente.

E tu cosa facesti, Rascida?
Raggiunsi una base segreta e preparai la bomba per la cafeteria dell’Università Ebraica. Questo accadde il 2 marzo e purtroppo io non potei piazzare la bomba, che non ebbe un esito soddisfacente. Solo ventotto studenti restaron feriti, e nessun morto. In compenso le cose peggiorarono molto per me: la mia fotografia apparve dappertutto e la polizia prese a cercarmi ancor più istericamente. Fu necessario abbandonare la base segreta e da quel momento dovetti cavarmela proprio da me. Mi trasferivo di casa in casa, una notte qui e una notte là, per strada mi sembrava sempre d’esser seguita. Un giorno un’automobile mi seguì a passo d’uomo per circa due ore. Esitavano a fermarmi, credo, perché ero molto cambiata e vestita come una stracciona. Riuscii a far perdere le mie tracce e, in un vicolo, bussai disperatamente a una porta. Aprì un uomo, cominciai a piangere e a dire che ero sola al mondo: mi prendesse a servizio per carità. Si commosse, mi assunse e rimasi lì dieci giorni. Al decimo, giudicai saggio scomparire. Ero appena uscita che la polizia israeliana arrivò e arrestò l’uomo. Al processo, malgrado ignorasse tutto di me, fu condannato a tre anni. È ancora in prigione.

Te ne dispiace, Rascida?
Che posso farci? In carcere ce l’hanno messo loro, mica io. E io ho sofferto tanto. Tre mesi di caccia continua.

Ci credo, avevi fatto scoppiare tre bombe! E come tornasti in Giordania, Rascida?
Con un gruppo militare del Fronte. Si passò le linee di notte. Non fu semplice, dovemmo nasconderci molte ore nel fiume e bevvi un mucchio di quell’acqua sporca. Sono ancora malata. Ma partecipo lo stesso alle operazioni da qui e l’unica cosa che mi addolora è non poter più mettere bombe nei luoghi degli israeliani.

E non vedere più i tuoi genitori, averli mandati in carcere, ti addolora?
La mia vita personale non conta, in essa non v’è posto per le emozioni e le nostalgie. I miei genitori li ho sempre giudicati brava gente e tra noi c’è sempre stato un buon rapporto, ma v’è qualcosa che conta più di loro ed è la mia patria. Quanto alla prigione, li ha come svegliati: non sono più rassegnati, indifferenti. Ad esempio potrebbero lasciare Gerusalemme, mettersi in salvo, ma rifiutan di farlo. Non lasceremo mai la nostra terra, dicono. E se Dio vuole...

Credi in Dio, Rascida?
No, non direi. La mia religione è sempre stata la mia patria. E insieme a essa il socialismo. Ho sempre avuto bisogno di spiegare le cose scientificamente, e Dio non lo spieghi scientificamente: il socialismo sì. Io credo nel socialismo scientifico basato sulle teorie marxiste-leniniste che ho studiato con cura. Presto studierò anche Il Capitale: è in programma nella nostra base. Voglio conoscerlo bene prima di sposarmi.

Ti sposi, Rascida?
Sì, tra un mese. Il mio fidanzato è quello lì. (E additò il giovanotto dal volto dolcissimo. Lui arrossì gentilmente e parve affondare dentro la poltrona).

Congratulazioni. Avevi detto che nella tua vita non c’è posto per i sentimenti.
Ho detto che capisco le cose solo da un punto di vista scientifico e il mio matrimonio è la cosa più scientifica che tu possa immaginare. Lui è comunista come me, fidayin come me: la pensiamo in tutto e per tutto nel medesimo modo. Inoltre v’è attrazione fra noi ed esaudirla non è forse scientifico? Il matrimonio non c’impedirà di combattere: non metteremo su casa. L’accordo è incontrarci tre volte al mese e solo se ciò non intralcia i nostri doveri di fidayin. Figli non ne vogliamo: non solo perché se restassi incinta non potrei più combattere e il mio sogno più grande è partecipare a una battaglia, ma perché non credo che in una situazione come questa si debba mettere al mondo bambini. A che serve? A farli poi morire o almeno restare orfani?

(Allora si alzò il fidanzato, che si chiamava Thaer, e con l’aria di scusarsi venne a sedere presso di me. Guardandomi con due occhi di agnello, parlando con voce bassissima, dolce come il suo viso, disse che conosceva Rascida da circa tre anni: quando lei insegnava nel Kuwait e lui studiava psicologia all’università. «Mi piacque come essere umano, pei suoi pregi e i suoi difetti. Dopo la guerra del 1967 le scrissi una lettera per annunciarle che sarei diventato fidayin, per spiegarle che l’amavo, sì, ma la Palestina contava più del mio amore. Lei rispose: “Thaer, hai avuto più fiducia in me di quanta io ne abbia avuta in te. Perché tu m’hai detto di voler diventare fidayin e io non te l’ho detto. Abbiamo gli stessi progetti, Thaer, e da questo momento mi considero davvero fidanzata con te”.» «Capisco, Thaer. Ma cosa provasti a sapere che Rascida aveva ucciso ventisette persone senza un fucile in mano?» Thaer prese fiato e congiunse le mani come a supplicarmi di ascoltarlo con pazienza. «Fui orgoglioso di lei. Oh, so quello che provi, all’inizio la pensavo anch’io come te. Perché sono un uomo tenero, io, un sentimentale. Non assomiglio a Rascida. Il mio modo di fare la guerra è diverso: io sparo a chi spara. Ma ho visto bombardare i nostri villaggi e mi sono rivoltato: ho deciso che avere scrupoli è sciocco. Se invece d’essere uno spettatore obbiettivo tu fossi coinvolta nella tragedia, non piangeresti sui morti senza il fucile. E capiresti Rascida.»)

Certo è difficile capire Rascida. Ma vale la pena provarci e, per provarci, bisogna avere visto i tipi come Rascida nei campi dove diventano fidajat: cioè donne del sacrificio. Lunghe file di ragazze in grigioverde, costrette giorno e notte a marciare sui sassi, saltare sopra altissimi roghi di gomma e benzina, insinuarsi entro reticolati alti appena quaranta centimetri e larghi cinquanta, tenersi in bilico su ponticelli di corde tese su trabocchetti, impegnarsi in massacranti lezioni di tiro. E guai se sbagli un colpo, guai se calcoli male il salto sul fuoco, guai se resti impigliato in una punta di ferro, guai se dici basta, non ce la faccio più. L’istruttore che viene dalla Siria, dall’Iraq, dalla Cina, non ha tempo da perdere con le femminucce: se hai paura, o ti stanchi, ti esplode una raffica accanto agli orecchi. Hai visto le fotografie. Ch’io sappia, neanche i berretti verdi delle forze speciali in Vietnam, neanche i soldati più duri dei commandos israeliani vengono sottoposti ad addestramenti così spietati. E da quelli, credi, esci non soltanto col fisico domato ma con una psicologia tutta nuova.

Dice che in alcuni campi (questo io non l’ho visto) le abituano perfino alla vista del sangue. E sai come? Prima sparano su un cane lasciandolo agonizzante ma vivo, poi buttano il cane tra le loro braccia e le fanno correre senza ascoltarne i guaiti. Dopo tale esperienza, è dimostrato, al dolore del corpo e dell’anima non badi più. Al campo Schneller conobbi una fidajat che si chiamava Hanin, Nostalgia. La intervistai e mi disse d’avere venticinque anni, un figlio di sei e una figlia di due. Le chiesi: «Dove li hai lasciati, Hanin?». Rispose: «In casa, oggi c’è mio marito». «E cosa fa tuo marito?» «Il fidayin. Oggi è in licenza.» «E quando non c’è tuo marito?» «Qua e là.» «Hanin, non basta un soldato in famiglia?» «No, voglio passare anch’io le linee, voglio andare anch’io in combattimento.» Poi ci mettemmo a parlare di altre cose, del negozio di antiquariato che essi possedevano a Gerusalemme, del fatto che non gli mancassero i soldi eccetera. La conversazione era interessante, si svolgeva direttamente in inglese, e io non mi curavo del lieve sospiro, quasi un lamento, che usciva dalle pieghe del kaffiah. I grandi occhi neri erano fermi, la fronte era appena aggrottata, e pensavo: poverina, è stanca. Ma poi l’istruttore chiamò, era giunto il turno di sparare al bersaglio, e Hanin si alzò: nell’alzarsi le sfuggì un piccolo grido. «Ti senti male, Hanin?» «No, no. Credo soltanto d’essermi slogata un piede. Ma ora non c’è tempo di metterlo a posto, lo dirò quando le manovre saranno finite.» E raggiunse le compagne, decisa, col suo piede slogato.

Per capire Rascida, o provarci, bisogna anche avere visto le donne che hanno fatto la guerra senza allenarsi: affrontando di punto in bianco la morte, la consapevolezza che la crudeltà è indispensabile se vuoi sopravvivere. In un altro campo conobbi Im Castro: significa Madre di Castro. Im essendo l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano per le donne, e Castro essendo il nome scelto da suo figlio maggiore: fidayin. Im Castro era un donnone di quarant’anni, con un corpo da pugile e un volto da Madonna bruciata dalle intemperie. Acqua, vento, sole, rabbia, disperazione, tutto era passato su quei muscoli color terracotta riuscendo a renderli più forti e più duri anziché sgretolarli. Contadina a Gerico, era fuggita nel 1967 insieme al marito, il fratello, il cognato, due figli maschi e due femmine. Qui era giunta dopo Karameh e qui viveva sotto una tenda dove non possedeva nulla fuorché una coperta e un rudimentale fornello con due pentole vecchie. Le chiesi: «Im Castro, dov’è tuo marito?». Rispose: «È morto in battaglia, a Karameh». «Dov’è tuo fratello?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dov’è tuo cognato?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dove sono i tuoi figli?» «Al fronte, sono fidayin.» «Dove sono le tue figlie?» «Agli addestramenti, per diventare fidajat.» «E tu?» «Io non ne ho bisogno. Io so usare il Kalashnikov, il Carlov, e queste qui.» Sollevò un cencio e sotto c’era una dozzina di bombe col manico. «Dove hai imparato a usarle, Im Castro?» «A Karameh, combattendo col sangue ai ginocchi.» «E prima non avevi mai sparato, Im Castro?» «No, prima coltivavo grano e fagioli.» «Im Castro, cosa provasti ad ammazzare un uomo?» «Una gran gioia, che Allah mi perdoni. Pensai: hai ammazzato mio marito, ragazzo, e io ammazzo te.» «Era un ragazzo?» «Sì, era molto giovane.» «E non hai paura che succeda lo stesso ai tuoi figli?» «Se i miei figli muoiono penserò che hanno fatto il loro dovere. E piangerò solo perché essendo vedova non potrò partorire altri figli per darli alla Palestina.» «Im Castro, chi è il tuo eroe?» «Eroe è chiunque spari la mitragliatrice.»

Le guerre, le rivoluzioni, non le fanno mai le donne. Non sono le donne a volerle, non sono le donne a comandarle, non sono le donne a combatterle. Le guerre, le rivoluzioni, restano dominio degli uomini. Per quanto utili o utilizzate, le donne vi servono solo da sfondo, da frangia, e neanche la nostra epoca ha modificato questa indiscutibile legge. Pensa all’Algeria, pensa al Vietnam dove esse fanno parte dei battaglioni vietcong ma in un rapporto di cinque a venti coi maschi. Pensa alla stessa Israele dove le soldatesse son così pubblicizzate ma chi si accorge di loro in battaglia se non sono una figlia di Moshe Dayan. In Palestina è lo stesso. Dei duecentomila palestinesi mobilitati da Al Fatah, almeno un terzo son donne: intellettuali come Rascida, madri di famiglia come Hanin, signore borghesi come Najat, contadine come Im Castro. Però quasi tutte sono in fase di riposo o di attesa, pochissime vivono nelle basi segrete, e solo in casi eccezionali partecipano a un combattimento. È indicativo, ad esempio, che tra i fidayin al fronte non ne abbia incontrata nessuna e che l’unica di cui mi abbian parlato sia una cinquantaquattrenne che fa la vivandiera per un gruppo di Salt. È indiscutibile, inoltre, che l’unica di cui si possa vantare la morte sia quella Sheila cui scoppiò una bomba in mano. A usare le donne nella Resistenza non ci sono che i comunisti rivali di Al Fatah i quali le impiegano senza parsimonia per gli atti di sabotaggio e di terrorismo.

La ragione è semplice e intelligente. In una società dove le donne hanno sempre contato quanto un cammello o una vacca, e per secoli sono rimaste segregate al ruolo di moglie di madre di serva, nessuno si aspettava di trovarne qualcuna capace di dirottare un aereo, piazzare un ordigno, maneggiare un fucile. Abla Taha, la fidajat di cui si parlò anche alle Nazioni Unite per gli abusi che subì in prigione sebbene fosse incinta, racconta: «Quando mi arrestarono al ponte Allenby perché portavo esplosivo, gli israeliani non si meravigliarono mica dell’esplosivo. Si meravigliarono di scoprirlo addosso a una donna. Per loro era inconcepibile che un’araba si fosse tolta il velo per fare la guerra».

La stessa Rascida, del resto, spiega che al corso di addestramento le donne venivano incluse come «elemento di sorpresa». Il discorso cui volevo arrivare, comunque, la morale della faccenda, non è questo qui. È che la sorpresa su cui gli uomini della Resistenza palestinese contavano per giocare il nemico, ha colto di contropiede anche loro. «Tutto credevamo,» mi confessò un ufficiale della milizia fidayin «fuorché le donne rispondessero al nostro appello come hanno fatto. Ormai non siamo più noi a cercarle, sono loro a imporsi e pretendere di andare all’attacco.» «E qual è la sua interpretazione?» gli chiesi. L’ufficiale non era uno sciocco. Accennò una smorfia che oscillava tra il divertimento e il fastidio, rispose: «Lo sa meglio di me che l’amore per la patria c’entra solo in parte, che la molla principale non è l’idealismo. È.. sì, è una forma di femminismo. Noi uomini le avevamo chiuse a chiave dietro una porta di ferro, la Resistenza ha aperto uno spiraglio di quella porta ed esse sono fuggite. Hanno compreso insomma che questa era la loro grande occasione, e non l’hanno perduta. Le dico una cosa che esse non ammetterebbero mai in quanto è una verità che affoga nel loro subcosciente: combattendo l’invasore sionista esse rompono le catene imposte dai loro padri, dai loro mariti, dai loro fratelli. Insomma dal maschio». «E sono davvero brave?» «Oh, sì. Più brave degli uomini, perché più spietate. Abbastanza normale se ricorda che il loro nemico ha due facce: quella degli israeliani e la nostra.» «E crede che vinceranno?» «Non so. Dipende dal regime politico che avrà la Palestina indipendente. Capisce cosa voglio dire?»

Voleva dire ciò che dice, silenziosamente, Rascida. La società araba non è una società disposta a correggere i suoi tabù sulla donna e sulla famiglia. Le tradizioni mussulmane sono troppo abbarbicate negli uomini del Medio Oriente perché a scardinarle basti una guerra o il progresso tecnologico che esplode con la guerra. Finché dura l’atmosfera eroica, lo stato di emergenza, può sembrare che tutto cambi: ma, quando sopraggiunge la pace, le vecchie realtà si ristabiliscono in un battere di ciglia. Lo si è visto già in Algeria dove le donne fecero la Resistenza con coraggio inaudito e dopo ricaddero svelte nel buio. Chi comanda oggi in Algeria? Gli uomini o le donne? Che autorità hanno le Rascide che un tempo piazzavano le bombe? Perfino gli ex guerriglieri hanno quasi sempre sposato fanciulle all’antica, senza alcun merito militare o politico. Maometto dura: dura più di Confucio. Sicché tutto fa credere che i palestinesi, pur essendo tra gli arabi più europeizzati e moderni, commettano in futuro la stessa scelta o ingiustizia degli algerini: «Brave, bravissime, sparate, aiutate, ma poi via a casa». Ma, sotto sotto, le loro donne lo sanno e, poiché la Storia non offre solo l’esempio dell’Algeria, corrono fin da ora ai ripari. Come? Buttandosi dalla parte di coloro che abbracciano l’ideologia della Cina maoista: cioè il Fronte Popolare di George Abash.

In Cina le donne non sono mica tornate a lavare i piatti; stanno anch’esse al potere, hanno vinto. Per vincere è necessario annullare ogni sentimento, incendiare le case dei vecchi, gli ospedali dei bambini, il più innocuo supermarket? E va bene. Per vincere è necessario imbruttirsi, sacrificare i genitori, credere nel socialismo scientifico, rendersi odiose? E va bene. Ciò che conta è non ricadere nel buio come le algerine, quando la pace verrà. Ciò che conta è non rimettere il velo quando gli uomini saranno in grado di cavarsela, come sempre, da soli. Può sembrare un paradosso, e forse lo è. Ma vuotando quei due bussolotti di marmellata e ficcandoci dentro esplosivo, Rascida non fece che comprarsi il domani. In fondo le ventisette creature che essa maciullò a Gerusalemme morirono perché lei si togliesse per sempre il velo e lo trasferisse sul volto dolcissimo del suo fidanzato, l’ignaro Thaer.

Amman, marzo 1970
(Tratto da Intervista con il potere, Rizzoli 2009)
10 gennaio 2015 | 01:40


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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_09/oriana-fallaci-una-terrorista-un-neonato-te-nemico-e0de2aa6-9850-11e4-bb9d-b2ffcea2bbd2.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:27:04 pm »

Le parole di Oriana
L’urlo di Khomeini: «L’Islam è tutto, la democrazia no»
La scrittrice intervistò il leader della rivoluzione iraniana nel 1979. Indossava il chador. Ma alla fine dell’incontro se lo tolse. L’ayatollah scavalcò il velo e sparì

Di Oriana Fallaci

Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista all’ayatollah Khomeini, uscita per il «Corriere della Sera» il 26 settembre 1979.

Nella stanzaccia, assiso con le gambe incrociate sul tappetino bianco e blu, immobile come una statua e coperto da una tunica di lana marrone, stava il padrone dell’Iran, il gran condottiero dell’Islam: Sua Eccellenza Santissima e Reverendissima Ruhollah Khomeini.

Era un vecchio molto vecchio. E appariva così remoto dietro la superbia, così vulnerabile, insieme solenne, da farti dubitare che avesse soltanto gli ottant’anni dichiarati secondo un calcolo approssimativo, comunque ipotetico, visto che lui stesso ignorava la sua data di nascita. Era anche il più bel vecchio che avessi mai incontrato. Volto intenso, scolpito ad arte, con quelle rughe che lo incidevano a colpi d’ascia in solchi legnosi, quella fronte altissima sul naso importante e ben disegnato, quelle labbra sensuali e imbronciate da maschio che ha molto sofferto a reprimere le tentazioni della carne o forse non le ha represse mai. E quella barba candida, compatta, davvero michelangiolesca. Quelle sopracciglia severe, di marmo, sotto le quali cercavi i suoi occhi con una specie di ansia. Gli occhi infatti non si vedevano perché teneva le palpebre semiabbassate, lo sguardo ostentatamente fisso sul tappetino, quasi volesse dirmi che non meritavo nessuna attenzione. O quasi che dedicarmi attenzione offendesse il suo orgoglio, la sua dignità. Traboccava dignità, questo è certo. Non potevi immaginarlo in mutande, attribuirgli il ridicolo che caratterizza i dittatori. Anzi, al posto di esso coglievi una misteriosa tristezza, un misterioso scontento che lo consumava come una malattia. E in tale scoperta registravi sbalordito i sentimenti che suscitava a osservarlo: un rispetto ineluttabile, una tenerezza inspiegabile, una scandalosa attrazione di cui provavi invano vergogna. Lo aveva scritto proprio lui il Libro Azzurro? Era stato proprio lui a scaraventare tutti nella catastrofe, dipendevano proprio da lui tante infamie, tanti obbrobri? Sì, e che non me ne dimenticassi. Che non mi lasciassi distrarre dal suo enigmatico carisma, sedurre dal suo fascino di antico patriarca. E mentre Bani Sadr si insediava al suo fianco, Salami si sistemava a riguardosa distanza, mi accucciai dinanzi al nemico: decisa ad attaccarlo subito, ignara dell’altrui viltà che all’inizio avrebbe turbato il progetto.

Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani. Ogni sua decisione, ogni suo desiderio è un ordine. E sono molti ha portato la libertà, semmai ha finito di ucciderla.
Rimase con le palpebre semiabbassate, lo sguardo fisso sul tappetino, e con voce talmente fioca da sembrare l’eco di un sussurro compilò una risposta che Bani Sadr riferì in preda a uno strano imbarazzo. «Conosciamo il suo lavoro e il suo nome. Sappiamo che lei ha viaggiato per molti Paesi e molte genti vedendo guerre, interrogando uomini forti. La ringraziamo dunque degli omaggi che ci porge e delle sue condoglianze per la scomparsa dell’ayatollah Talegani.» Stava prendendomi in giro oppure Bani Sadr non gli aveva tradotto la mia domanda? Mi rivolsi smarrita a Salami. Con un lieve cenno della testa, Salami mi fece capire che il vigliacco non aveva tradotto la domanda. «Traducila tu!» La tradusse, sia pure impallidendo. Ma le palpebre rimasero semiabbassate, le invisibili pupille continuarono a fissare il tappetino, e non un cenno di emozione incrinò la voce fioca che centellinava ogni parola. «L’Iran non è nelle mie mani. L’Iran è nelle mani del popolo. Perché è stato il popolo a consegnare il paese al suo servitore, a colui che vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente s’è riversata nelle strade a milioni e senza la minaccia delle baionette. E questo significa che in Iran c’è libertà, che il popolo segue gli uomini di Dio. E questo è simbolo di libertà.»

Bè, sapeva difendersi. Aveva perfino neutralizzato possibili provocazioni sulla natura di quella morte facendo per primo il nome di Talegani, quindi impedendo su tal soggetto un colpo alla mascella. Lanciai un’occhiataccia a Bani Sadr per avvertirlo di non combinare altri scherzi e continuai.

No, Imam Khomeini: forse non mi sono spiegata bene. Mi permetta di insistere. Volevo dire che siamo in molti, in Iran e fuori, a definirla un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo tiranno, il nuovo scià della Persia.
Ma dalla risposta che Bani Sadr mi dette fu chiaro che anche stavolta aveva inventato una domanda innocua, e per questo era venuto a Qom, s’era imposto come traduttore: per manipolar l’intervista e non correre rischi. «Sì, la sconfitta del tiranno ci ha portato un’epoca densa di valori e di moralità. Noi ce ne rallegriamo e ci sentiamo onorati di interpretar quei valori e tale moralità. Apprezziamo dunque la seconda domanda e...» «Stop!» Zittii Bani Sadr e di nuovo mi rivolsi a Salami che di nuovo confermò il tradimento con un lieve cenno della testa. Allora mi chinai su Khomeini cercando di farmi capire in qualche lingua al di fuori del farsi. «No, Imam, no! Il signor Bani Sadr non mi traduce. Il ne me traduit pas. He does not translate me. Understand, comprì? Ho detto che oggi è lei il dittatore, il tiranno, lo scià. Aujourd’hui c’est vous le dictateur, le tyran, le nouvel shah. Vous. Comprì? Today it is you the dictator, the tyrant, the new shah. Understand?» Capì. O almeno intuì. Infatti le sue palpebre si sollevarono di colpo, e mentre un lampo feroce mi trafiggeva con la violenza di una coltellata vidi finalmente i suoi occhi: intelligentissimi, duri, terrificanti. Però fu un attimo, e passato quello tornarono a concentrarsi sul tappetino. Fissando il tappetino sibilò a Bani Sadr qualcosa che doveva esser tremendo perché il visuccio malinconico diventò grigio, i baffetti parvero vibrare di panico, e rivoli di sudore presero a colare giù per le tempie, le guance, il collo. Poi una mano michelangiolesca come la barba si levò con sdegno a indicargli che era destituito dall’incarico e un indice imperioso ordinò a Salami di sedergli accanto per sostituirlo. Tremando d’emozione Salami si alzò e sedette alla sua destra. «Non aver paura, traducigli quello che ho detto. E chiedigli se ciò lo addolora o lo lascia indifferente» lo incoraggiai. Salami tradusse coraggiosamente. Khomeini restò imperterrito. «Da una parte mi addolora, sì, perché chiamarmi dittatore è ingiusto e disumano. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nemici. Con la strada che abbiamo intrapreso, una strada che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. No, non m’illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e divorarci si mettano zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, a lei risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alla donne?».

No, non mi risulta, Imam. E io non l’ho accusata di tagliare i seni alle donne. Però anche senza tagliare i seni alle donne lei fa paura. Il suo regime vive sulla paura. Hanno tutti paura e fanno tutti paura. Anche questa folla che la invoca fa paura. La sente?
Dalla finestra alle sue spalle giungeva il frastuono degli scalmanati dietro il primo e il secondo posto di blocco. «Zandeh bad, Imam! Payandeh bad!» E spesso soffocava le nostre voci. «Lo sento eccome. Lo sento anche di notte».

E che cosa prova a sentirli gridare così anche di notte? Che cosa prova a sapere che per vederla un istante si farebbero ammazzare?
«Ne godo. Non si può non goderne. Sì, godo quando li ascolto e li vedo. Perché il loro grido è lo stesso con cui cacciarono l’usurpatore, perché sono i medesimi che lo cacciarono, e perché è bene che continuino a bollire in quel modo. Finché i nemici interni ed esterni non saranno domati, finché il Paese non si sarà assestato, bisogna che bollano. Devono essere accesi e pronti a marciare quand’è necessario. E poi il loro è amore».

Amore o fascismo, Imam? A me sembra fanatismo, e del genere più pericoloso. Cioè quello fascista. Chi potrebbe negare che oggi esiste in Iran una minaccia fascista? E forse un fascismo s’è già consolidato.
«No, il fascismo non c’entra. Il fanatismo non c’entra. Io ripeto che gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, per applicare i comandamenti dell’Islam. L’Islam è giustizia, nell’Islam la dittatura è il più grande dei peccati, quindi fascismo e islamismo sono due contraddizioni inconciliabili».

Forse non ci comprendiamo sulla parola fascismo, Imam. Io parlo del fascismo come fenomeno popolare, per esempio del fascismo che gli italiani avevano al tempo di Mussolini quando le folle applaudivano Mussolini come ora applaudono lei. E gli obbedivano come ora obbediscono a lei.
«No, quel fascismo si verifica da voi in Occidente, non tra i popoli di cultura islamica. Le nostre masse sono masse mussulmane, educate dal clero e cioè da uomini che predicano la spiritualità e la bontà, quindi quel fascismo sarebbe possibile soltanto se tornasse lo scià oppure se venisse il comunismo. Gridare il mio nome non significa esser fascisti, significa amare la libertà».

Ora che le mie domande gli venivano riferite, l’attacco era facile. Però a ciascuna si difendeva meglio, con la bravura di un campione che riesce a schivare qualsiasi colpo cattivo o imprevisto, la resistenza di un incassatore che non si piega nemmeno se gli tiri un pugno nel basso ventre, e faceva questo usando due tecniche rare: l’imperturbabilità e la sincerità. Dopo avermi trafitto con quel lampo feroce non aveva più alzato gli occhi e, senza mai staccare lo sguardo dal tappetino, senza mai muovere un dito o un muscolo, senza mai cambiare il tono della sua voce fioca, rispondeva a ogni accusa o insolenza. Non riuscivo a scomporlo. E non ci riuscivo perché, ecco il punto, credeva fermamente in ciò che diceva: credendoci, non aveva bisogno di ricorrere alle furbizie o alle bugie con cui si difendono sempre gli uomini di potere. Quasi ciò non bastasse, gli piaceva il duello con la straniera che aveva viaggiato per molti Paesi e per molte genti ma ora se ne stava ai suoi piedi ingoffata da chili di cenci a lei estranei, e in segreto gioiva dei suoi assalti.

Allora parliamo della libertà, Imam Khomeini. In uno dei suoi primi discorsi lei disse che il nuovo governo avrebbe garantito libertà di pensiero e di espressione. Tuttavia questa promessa non è stata mantenuta e basta che uno vada contro i suoi precetti perché lei lo maledica e punisca. Per esempio, chiama i comunisti Figli di Satana, le minoranze curde Male sulla Terra...
«Lei prima afferma e poi pretende che io spieghi le sue affermazioni. Addirittura pretenderebbe che io permettessi i complotti di chi vuol portare il Paese alla corruzione. La libertà di pensare e di esprimersi non significa libertà di congiurare e corrompere. Per più di cinque mesi io ho tollerato coloro che non la pensano come noi, ed essi sono stati liberi di fare ciò che volevano, ciò che gli concedevo. Attraverso il signor Bani Sadr qui presente ho perfino invitato i comunisti a dialogare con noi. E in risposta essi hanno bruciato i raccolti di grano, hanno dato fuoco alle urne elettorali, hanno reagito con armi e fucili, riesumato il problema dei curdi. Così quando abbiamo capito che approfittavano della nostra tolleranza per sabotarci, quando abbiamo scoperto che erano nostalgici dello scià, ispirati dall’ex regime nonché dalle forze straniere che mirano alla nostra distruzione, li abbiamo messi a tacere.»

Imam Khomeini, ma come può definire nostalgici dello scià uomini che contro lo scià si sono battuti, che dallo scià sono stati perseguitati e arrestati e torturati, che insomma hanno tanto contribuito alla sua caduta? I vivi e i morti a sinistra, dunque, non contano nulla?
«Non contano nulla perché non hanno contribuito a nulla, non hanno servito in nessun senso la rivoluzione. Non hanno né combattuto né sofferto, semmai hanno lottato per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla nostra vittoria, non hanno avuto nessun rapporto col movimento islamico, non hanno esercitato alcuna influenza su di esso. Anzi, gli hanno messo i bastoni fra le ruote. Durante il regime dello scià erano contro di noi quanto lo sono ora, e ci odiavano più dello scià. Non a caso l’attuale complotto ci viene da loro e il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una vera sinistra ma di una sinistra artificiale, partorita e allattata dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e per distruggerci».

In altre parole, quando parla di popolo, lei si riferisce soltanto ai suoi fedeli. E secondo lei questa gente s’è fatta ammazzare per l’Islam, non per avere un po’ di libertà.
«Per l’Islam. Il popolo s’è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto, anche ciò che nel suo mondo viene chiamato libertà e democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto, l’Islam ingloba tutto, l’Islam è tutto».

Non capisco. Mi aiuti a capire. Che cosa intende per libertà?
«La libertà... Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole senza essere costretti a pensarne altre... E anche alloggiare dove si vuole... Esercitare il mestiere che si vuole...». Bè, incominciava a barcollare e con un po’ di sforzo si poteva forse colpirlo alla mascella.

Alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e nient’altro. Pensare quanto si vuole ma non esprimere e materializzare quello che si pensa. Ora capisco meglio, Imam. E per democrazia cosa intende? Perché, se non sbaglio, indicendo il referendum per la repubblica lei ha proibito l’espressione Repubblica Democratica Islamica. Ha cancellato l’aggettivo Democratica, ha ridotto l’espressione a Repubblica Islamica, e ha detto: “Non una parola di più, non una di meno”.
Si riprese subito. «Per incominciare, la parola Islam non ha bisogno di aggettivi. Come ho appena spiegato, l’Islam è tutto: vuol dire tutto. Per noi è triste mettere un’altra parola accanto alla parola Islam che è completa e perfetta. Se vogliamo l’Islam, che bisogno c’è di aggiungere che vogliamo la democrazia? Sarebbe come dire che vogliamo l’Islam e che bisogna credere in Dio. Poi questa democrazia a lei tanto cara e secondo lei tanto preziosa non ha un significato preciso. La democrazia di Aristotele è una cosa, quella dei sovietici è un’altra, quella dei capitalisti un’altra ancora. Non potevamo quindi permetterci di infilare nella nostra Costituzione un concetto così equivoco. Poi per democrazia intendo quella che intendeva Alì. Quando Alì divenne successore del Profeta e capo dello Stato Islamico, e il suo regno andava dall’Arabia Saudita all’Egitto, e comprendeva gran parte dell’Asia e anche dell’Europa, e questa confederazione aveva ogni tipo di potere, egli ebbe una divergenza con un ebreo. E l’ebreo lo fece chiamare dal giudice. E Alì accettò la chiamata del giudice. E andò, e vedendolo entrare il giudice si alzò in piedi. Ma Alì gli disse, adirato: “Perché ti alzi quando io entro e non quando entra l’ebreo? Davanti al giudice i due contendenti devono essere trattati nel medesimo modo”. Poi si sottomise alla sentenza che gli fu contraria. Chiedo a lei che ha viaggiato per molti Paesi e per molte genti: può fornirmi un esempio di democrazia migliore?».

Sì. Quella che permette qualcosa di più che alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e pensare senza esprimere ciò che si pensa. E questo lo dicono anche gli iraniani che, come noi stranieri, non hanno capito dove vada a parare la sua Repubblica Islamica.
«Se non lo capiscono certi iraniani, peggio per loro. Significa che non hanno capito l’Islam. Se non lo capite voi stranieri, non ha importanza. Tanto la cosa non vi riguarda. Non avete nulla a che fare con le nostre scelte.» Menomale: l’atmosfera incominciava a riscaldarsi. Quindi non era impossibile fargli perder le staffe. Bastava tener testa alla sua resistenza di incassatore. Rincarai la dose.

Forse la cosa non ci riguarda, Imam, però il dispotismo che oggi viene esercitato dal clero riguarda gli iraniani. E, visto che siamo qui per parlare di loro, vuol spiegarmi il principio secondo cui il capo del Paese dev’essere la suprema autorità religiosa e cioè lei? Vuol spiegarmi perché le decisioni politiche devono esser prese soltanto da coloro che conoscono bene il Corano e cioè da voi preti?.
«Il Quinto Principio sancito dall’Assemblea degli Esperti nella stesura della Costituzione stabilisce ciò che lei ha detto e non è in contrasto col concetto di democrazia. Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro e del futuro presidente della Repubblica. Se io non esercitassi tale sovrintendenza, essi potrebbero sbagliare o andare contro la legge cioè contro il Corano. Io oppure un gruppo rappresentativo del clero, ad esempio cinque saggi capaci di amministrare la giustizia secondo l’Islam».

Ah, sì? Allora occupiamoci della giustizia amministrata da voi del clero, Imam. Cominciamo con le cinquecento fucilazioni che in questi pochi mesi sono state eseguite in Iran. Mi dica se lei approva il modo sommario con cui vengono celebrati questi processi senza avvocato e senza appello.
«Evidentemente voi occidentali ignorate chi erano coloro che sono stati fucilati. O fingete di ignorarlo. Si trattava di persone che avevano partecipato ai massacri, oppure di persone che avevano ordinato i massacri. Gente che aveva bruciato le case, torturato i prigionieri segandogli le braccia e le gambe, friggendoli vivi su griglie di ferro. Avremmo dovuto forse perdonarli, lasciarli andare? Quanto al permesso di rispondere alle accuse e difendersi, glielo abbiamo concesso: potevano replicare ciò che volevano. Una volta accertata la loro colpevolezza, però, che bisogno c’era dell’avvocato e dell’appello? Scriva il contrario, se vuole: la penna ce l’ha in mano lei. Si ponga le domande che desidera: il mio popolo non se le pone. E aggiungo: se non avessimo ordinato quelle fucilazioni, la vendetta popolare si sarebbe scatenata senza controllo. E i morti, anziché cinquecento, sarebbero stati migliaia».

Lo saranno, di questo passo, Imam. E comunque io non mi riferivo ai torturatori e agli assassini della Savak. Mi riferivo alle vittime che con le colpe del passato regime non avevano nulla a che fare. Insomma, le creature che ancora oggi vengono giustiziate per adulterio o prostituzione o omosessualità. È giustizia, secondo lei, fucilare una povera prostituta o una donna che tradisce il marito o un uomo che ama un altro uomo?
«Se un dito va in cancrena, che cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo, oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini. Ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette. Nell’Islam noi vogliamo condurre una politica che purifichi. E affinché questo avvenga bisogna punire coloro che portano il male corrompendo la nostra gioventù. Che a voi occidentali piaccia o non piaccia, non possiamo permettere che i cattivi diffondano la loro cattiveria. Del resto voi occidentali non fate lo stesso? Quando un ladro ruba, non lo mettete in prigione? In molti Paesi, non giustiziate forse gli assassini? Non lo fate perché, se restano liberi e vivi, infettano gli altri e allargano la macchia della malvagità? Sì, i malvagi vanno eliminati: estirpati come le erbacce».
Aveva detto questo con la solita imperturbabilità. Era venuta anche una mosca, mentre parlava, ed era andata a posarsi sulla sua mano sinistra: grattandosi il capino con le zampette e abbandonandosi a ogni sorta di capriole e di danze. Ma lui non aveva neanche fatto il gesto di liberarsene, le aveva addirittura permesso di salire fino alla sua barba dove ora giocava tutta contenta fra i peli bianchi. E mi faceva impazzire perché mi distraeva e perché stava diventando il simbolo della mia impotenza. Possibile che non barcollasse almeno un poco, che non si arrabbiasse almeno per un secondo? L’unico segno di cedimento era il respiro che di risposta in risposta diventava più fievole denunciando la debolezza del vecchio che ogni tanto ha bisogno di un sonnellino. Sicché, oltre all’irritazione, c’era l’angoscia che mi si addormentasse sotto il turbante. Bisognava impedirlo.

«Imam Khomeini, come osa mettere sullo stesso piano una belva della Savak e un cittadino che esercita la sua libertà sessuale? Prenda il caso del giovanotto che ieri è stato fucilato per pederastia...»
«Corruzione, corruzione. Bisogna eliminare la corruzione».

Prenda il caso della diciottenne incinta che poche settimane fa è stata fucilata per adulterio.
«Bugie, bugie. Bugie come quelle dei seni tagliati alle donne. Nell’Islam non accadono queste cose, non si fucilano le donne incinte».

Non sono bugie, Imam. Tutti i giornali iraniani hanno parlato di quella ragazza incinta e fucilata per adulterio. Alla televisione c’è stato anche un dibattito sul fatto che al suo amante fosse stata inflitta soltanto una pena di cento frustate sulla schiena.
«Se a lui hanno dato cento frustate e basta, vuol dire che meritava le frustate e basta. Se a lei hanno dato la pena di morte, vuol dire che meritava la pena di morte. Io che ne so. Lo chieda al tribunale che l’ha condannata. E poi basta parlare di queste cose: libertà sessuale eccetera. Non sono cose importanti. Uhm! Libertà sessuale. Che cosa significa libertà sessuale. Tutto questo mi stanca. Basta!» Ecco, succedeva. Si addormentava.

Allora parliamo dei curdi che vengono fucilati perché vogliono l’autonomia, Imam. Parliamo...
«Quei curdi non sono il popolo curdo. Sono sovversivi che agiscono contro il popolo come quello che ieri ha ammazzato tredici soldati. Io quando li catturano e li fucilano ne provo un gran piacere. Basta. Non voglio parlare neanche di questo, basta. Sono stanco. Voglio riposare».
Intervenne Ahmed, con l’aria del principe ereditario cui spetta applicare i desideri del re. «L’Imam ha ripetuto basta. L’Imam è stanco e vuole riposare. L’Imam non vuole più parlare di queste cose». «Allora parliamo dello scià». «No, deve salutarlo e lasciar che riposi. L’ora è passata da almeno mezz’ora. Lo saluti e se ne vada». Ma la parola «scià» era giunta ai divini orecchi. E aveva ottenuto quello che neanche la mosca sulla mano poi sulla barba era riuscita a ottenere con le sue danze e le sue capriole. Inaspettatamente l’immobile turbante si mosse e gli immobili occhi dimenticarono il tappetino per posarsi su Salami. «Ha detto scià?». «Sì, Eccellenza Santissima e Reverendissima». «Che cosa vuol sapere dello scià?». «Ha chiesto che cosa vuoi sapere dello scià» sospirò Salami con espressione preoccupata.

Questo, Imam. Qualcuno ha ordinato di ammazzare lo scià all’estero e ha chiarito che il giustiziere verrà considerato un eroe. Se poi morirà nell’azione, andrà in Paradiso. È lei quel qualcuno?
«No! Io non voglio che sia giustiziato all’estero. Io voglio che sia catturato e riportato in Iran e processato in pubblico per cinquant’anni di reati contro il popolo, inclusi i reati di tradimento e di furto. Furto di capitali. Se muore all’estero, quel denaro va perduto. Se lo processiamo qui, ce lo riprendiamo. No, no: io lo voglio qui. Qui! Lo voglio tanto che prego per la sua salute come l’ayatollah Modarres pregava per la salute dell’altro Pahlavi, il padre di questo Pahlavi che era fuggito anche lui portandosi dietro un mucchio di soldi. So che è malato. Me ne dispiace perché potrebbe morire di malattia. Guai se morisse di malattia e mentre sta all’estero».

Ma se vi desse quei soldi, lei smetterebbe di pregare per la sua salute?
«Se ci restituisse il denaro, quella parte del conto sarebbe saldata. Ma resterebbe il tradimento che egli ha commesso contro l’Islam e contro il suo Paese. Resterebbe il massacro del Venerdì Nero, il massacro del 15 Kordat cioè di sedici anni fa, e non si può perdonargli i morti che ha lasciato dietro di sé. Soltanto se i morti resuscitassero io mi accontenterei di riavere il denaro che lui e la sua famiglia hanno rubato».

Intende dire che l’ordine di catturarlo e riportarlo in Iran vale anche per la sua famiglia?
«Colpevole è colui che ha commesso il reato. Se la famiglia non ha commesso reati, non vedo perché dovrebb’essere condannata. Appartenere alla famiglia dello scià non è un crimine. Non mi risulta ad esempio che il figlio Reza si sia macchiato di colpe verso il popolo, quindi non ho nulla contro di lui. Può rientrare in Persia quando vuole e viverci come un normale cittadino. Che venga».

«Io dico che non viene».
«Se non vuol venire, non venga».

E Farah Diba?
«Per lei deciderà il tribunale».

E Ashraf?
«Ashraf è la gemellaccia dello scià, ladra e traditrice come lui. Per i crimini che ha commesso dev’essere processata e condannata come lui. Sì, voglio anche la gemellaccia».

E l’ex primo ministro Bakhtiar? Bakhtiar dice che ha già pronto un governo per sostituire il governo di Bazargan. E aggiunge che presto tornerà.
«Che torni, che torni. Magari a braccetto del suo scià. Così in tribunale ci vanno insieme. Se Bakhtiar dev’essere fucilato o no, ancora non posso dirlo. Però so che dev’essere processato, e devo ammettere che mi piacerebbe molto vedermelo riportare insieme allo scià, mano nella mano. Lo aspetto».

A morte anche Bakhtiar, dunque. A morte Ashraf la gemellaccia, a morte Farah Diba, a morte tutti. Imam Khomeini mi permetta una domanda che naturalmente esula dalla morale di una rivoluzione: è noto che le rivoluzioni non perdonano, non conoscono la pietà. Lei come uomo, anzi come prete, ha mai perdonato nessuno? Ha mai provato pietà, comprensione per un nemico?
«Che cosa, che cosa?»

Ho chiesto se sa perdonare, provar pietà, comprensione. E, visto che ci siamo, le chiedo anche questo: ha mai pianto?
«Io piango, rido, soffro. Sono un essere umano. O crede che non lo sia? Quanto al perdono, ho perdonato la maggior parte di coloro che ci hanno fatto del male. E quanto alla pietà, ho concesso l’amnistia ai poliziotti che non avevano torturato, ai gendarmi che non s’eran resi colpevoli di abusi troppo gravi, ai curdi che hanno promesso di non attaccarci più. Ma per coloro di cui abbiamo parlato non c’è perdono, non c’è pietà, non c’è comprensione. Ora basta. Sono stanco. Basta». Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo.

La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador?
E allora i terribili occhi che fino a quel momento mi avevano ignorato come un oggetto che non merita alcuna curiosità, si levarono su di me. E mi buttarono addosso uno sguardo molto più cattivo di quello che m’aveva trafitto all’inizio. E la voce che per tutto quel tempo era rimasta fioca, quasi l’eco di un sussurro, divenne sonora. Squillante. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene.»

Prego?
Credevo d’aver capito male. Invece avevo capito benissimo. «Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno a uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. «Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo». E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero. Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.

12 gennaio 2015 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_10/urlo-khomeini-l-islam-tutto-democrazia-no-d69e9e9c-98e4-11e4-8d78-4120bf431cb5.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:39:12 pm »

Le parole di Oriana
Non ci si arrabbia con la Francia
Nel 2002 la traduzione di «La Rabbia e l’Orgoglio» andò a ruba nelle librerie di Parigi, ma intanto l’autrice veniva aspramente criticata per le sue posizioni


Di Oriana Fallaci

Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono — a distanza di anni — una forza, un valore e un fascino straordinari. Dopo l’intervista a una terrorista palestinese ripubblicata venerdì, ecco l’articolo sulla Francia uscito sul «Corriere» l’8 giugno 2002.

Il moscardino è una grave malattia del baco da seta. Se sei un baco da seta e ti viene il moscardino, muori nel giro d' una sola notte. È anche il nome di un avido roditore che appartiene alla famiglia dei gliridi e che si nutre di qualsiasi lerciume: il Muscardinus Avallanarius o Topuccio d' Oro. Inoltre è il nome d' un piccolo mollusco, per l’esattezza d' un piccolo polpo, buono a mangiarsi fritto come un nemico di terza qualità. (Basta marinarlo nell' uovo sbattuto, infarinarlo, gettarlo nell' olio che bolle a 280 gradi). Infine è il nome d' un antico chewingum, d' una pasticca a base di spezie, che nel Settecento si masticava per nascondere l' alito cattivo. Ma, storicamente, è la traduzione della parola Muscadin: termine affibbiato ai nouveaux-riches della Jeunesse Dorée che nella seconda metà del 1794 e nel 1795 cioè dopo la caduta di Robespierre spopolavano nei salotti di Parigi. In particolare, nel salotto di Madame Tallien. E che cantando la Reveille du Peuple cioè il Risveglio del Popolo (l’inno dei controrivoluzionari), bastonavano i giacobini. I Muscadins erano tipi eleganti, leziosi, soignés. Non a caso nel linguaggio corrente la parola ha lo stesso significato di zerbinotto, bellimbusto, dandy. Portavano i capelli lunghi e sciolti sulle spalle, le cravatte verdi e annodate con un fiocco grottesco, i pantaloni attillati e le scarpe a punta. Parlavano con l’erre moscia, usavano l’occhialetto, si profumavano fino alla nausea con l’essenza di muschio, e per bastonare i giacobini si servivano d' un manganello simile al manganello con cui negli anni Venti e Trenta del Millenovecento le squadracce di Mussolini avrebbero bastonato gli antifascisti. (Lo definivano Le Notre Pouvoir Executif, Il Nostro Potere Esecutivo).

Finirono presto. Il popolo li disprezzava, il Direttorio li detestava, e la stessa Madame Tallien si stancò alla svelta di loro. Ma, finché durarono, di male ne fecero parecchio. E non a caso. A guidarli c' era, col suo giornale l' Orateur du peuple, il famigerato Stanislaw Louis-Marie Fréron. Figlio del Fréron nemico di Voltaire e degli Enciclopedisti, opportunista e voltagabbana congenito, Stanislao aveva fondato l' Orateur du peuple quando collaborava con Danton e Marat. Quale membro della Convention aveva votato per mandare alla ghigliottina il povero Louis XVI. Quale servo del Terrore aveva partecipato di persona ai massacri dei girondini e dei monarchici a Tolone e a Marsiglia. E del 9 Termidoro ossia della caduta di Robespierre era stato artefice insieme all' infame Barras. Finì presto anche lui. E in maniera squallida. Scomparsi i Muscadins cercò di tenersi a galla seducendo Pauline Bonaparte, la sorella minore del sorgente astro Napoléon, e non essendo riuscito a sposarla dovette accontentarsi di diventare Sottoprefetto a San Domingo. Qui nel 1802 si spense all' improvviso, non so per quale malattia ma spero per la malattia del baco da seta.

Ed eccoci al punto. Lo scorso marzo molti mi chiesero se fossi arrabbiata con la Francia dove, senza che la polizia intervenisse e senza che la Ministra della Cultura muovesse un dito per impedirlo, i fascisti rossi avevano aggredito con sconci insulti i rappresentanti del governo italiano alla Fiera Internazionale del Libro. Fiera alla quale l' Italia partecipava come Ospite d' Onore. E rimasero molto stupiti a sentirmi rispondere: «No. Con la Francia non sono arrabbiata. No». Rimasero ancor più stupiti quando mi videro esplodere d' indignazione per l' articolo che un quotidiano italiano aveva dedicato all' imperdonabile episodio col titolo «La merde de Paris». Ogni paragrafo di tale articolo, infatti, incominciava con la turpe frase «Dio stramaledica i francesi»: plagio del turpe motto «Dio stramaledica gli inglesi» coniato dal fascista nero Mario Appelius durante la Seconda guerra mondiale, e inciso sul distintivo che le Camicie Nere esibivano sul risvolto della giacca. Le loro mogli, sul risvolto del tailleur. Bè: ora molti mi chiedono se sia arrabbiata con la Francia dove, allargando sproporzionatamente il sentiero tracciato mesi fa dalle cicale italiane, il novantacinque per cento della stampa parigina attacca e denigra La Rage et l' Orgueil. Ossia La Rabbia e l’Orgoglio tradotto in francese e pubblicato da Plon.

Lo definisce «abominevole», «detestabile», «abbietto». Spesso urlando che non avrebbe dovuto essere pubblicato mi paragona a Céline. Mi diffama, mi ingiuria, mi dà di «razzista». Per darmi di razzista finge addirittura d' ignorare ciò che in aprile ho scritto sull' antisemitismo. Testo che è andato letteralmente in tutto il mondo, per cui il Wall Street Journal mi ha definito «la Coscienza d' Europa» e il New York Post «l’unica voce che in Europa si sia levata a difender gli ebrei», doloroso sermone per cui gli ebrei d' ogni Paese mi hanno inondato di messaggi Thank-you-Oriana, e in seguito al quale le minacce alla mia vita si sono moltiplicate nonché intensificate. Il quotidiano Le Monde ha addirittura osato rivolgersi alla Lega contro il Razzismo e l’Antisemitismo per chiedere al suo presidente se fosse pronto a denunciarmi, condannarmi. Eppure alla fatale domanda ho risposto con un altro no.

No. Con la Francia non mi arrabbiai lo scorso marzo e non mi arrabbio ora. Perché i fascisti rossi che in marzo si comportarono in modo tanto spregevole coi rappresentanti del governo italiano e che ora si comportano in modo tanto spregevole con me (alcuni hanno perfino oltraggiato la memoria di mio padre, brutti vigliacchi, razza di mascalzoni) non sono la Francia. Sono i Moscardini. I nuovi Moscardini che coi capelli lunghi e sciolti sulle spalle, la cravatta verde, i pantaloni attillati, le scarpe a punta e l' erre moscia spopolano nei salotti delle nuove Madame Tallien. I nuovi zerbinotti, i nuovi bellimbusti, i nuovi Topucci d' Oro che guidati dal nuovo Fréron (un petulante vanesio che non meriterebbe nemmeno di finir sottoprefetto a San Domingo) cantano di nuovo la Reveille du peuple. E cantandola bastonano i giacobini. Li bastonano col manganello della menzogna e della malafede, stavolta, col Pouvoir Executif del terrorismo pseudointellettuale, con la dittatura del Politically Correct cioè con la presunzione degli sfacciati che pretendono di insegnare la democrazia a chi per la democrazia si batte fin dall' infanzia. Ma i giacobini d' oggi non sono ex tagliateste che credono o credevano in Robespierre: sono gente come me.

Gente che crede alla Libertà e che di conseguenza non si lascia intimidire dai manganelli, dai ricatti, dalle minacce. Gente che ragiona con la propria testa e che di conseguenza dice pane al pane e vino al vino. Gente che non lecca i piedi a nessuno e che di conseguenza strilla come il fanciullo della fiaba di Grimm : «Il re è nudo!». Gente che ha la coscienza pulita e che di conseguenza può permettersi il lusso di combatter sia i fascisti neri sia i fascisti rossi: affermare che oggi la Destra e la Sinistra sono i due volti della medesima faccia. La faccia del cinismo e dell’ipocrisia. Gente, infine, che ha il coraggio di difendere la propria terra. La propria patria, la propria cultura, la propria identità. E non vuole invasori che approfittandosi della nostra tolleranza, delle nostre leggi, della nostra ospitalità, mirano a imporci il burkah o il chador. A conquistarci, a dominarci, come conquistarono e per otto secoli dominarono il Portogallo e la Spagna. Invasori che in Italia (anche in Francia?) vanno alla televisione per ordinarci di togliere i crocifissi dalle scuole sennò «quel cadaverino in croce spaventa i nostri scolari musulmani». E che in Italia pubblicano sgrammaticate sconcezze per invitare i loro correligionari a uccidermi in nome del Corano. L' Islam-castiga-Oriana-Fallaci, la-vecchia-mai-cresciuta. Musulmani-andate-a-morire-con-la-Fallaci.

I Moscardini stanno con loro. Ci stanno in barba al laicismo, al progresso, alla civiltà. E sappiamo bene perché. Perché gli forniscono l' elettorato perduto dacché le «masse proletarie» li hanno respinti, li hanno rifiutati. Ma guai a identificare i Moscardini con la Francia. Guai! A farlo si rischierebbe di chiederci se in Francia esiste ancora la libertà di pensiero e di opinione, se la Francia è ancora la République Française della Marianna o se è diventata la République Française dell' Islam. E ciò sarebbe ingiusto, anzi nefando. Occhi negli occhi, petulanti e vanesi Fréron: la Francia non è l' immaginario Popolo di cui vi riempite la bocca quando dai vostri Orateur du peuple cantate la Réveille du Peuple. È il popolo che non vi ascolta. Il popolo che tiranneggiato da voi e ricattato dalle lugubri lusinghe del rancido Le Pen non ha più una Bastiglia da abbattere, sicché per non votare Le Pen deve votare Chirac... È anche il popolo che non mi ingiuria. Non mi diffama, non mi denigra, non oltraggia la memoria del mio splendido padre. E mi legge. Leggendomi si riconosce in me, si sente meno solo, mi ringrazia. Come gli ebrei mi manda messaggi «Thank you Oriana», «Merci Oriana». In meno di tre giorni varie librerie di Parigi hanno esaurito La Rage et l' Orgueil. In meno di sette, La Rage et l' Orgueil è entrato nella classifica dei libri più venduti. L' editore Plon ha dovuto ristamparlo, continua a ristamparlo, in tipografia lavorano perfino il weekend. Ciò significa che in Francia la libertà di pensiero e di opinione esiste ancora, che la Francia è ancora la République Française della Marianna, e che per il popolo voi non contate un bel nulla.


Dai voltagabbana al suicidio dell'Europa
La pubblicazione in Francia de «La Rabbia e l’Orgoglio» (edito da Plon) provocò tra gli intellettuali e i critici parigini un’ondata di reazioni pari all'eccezionale successo che il libro riscosse tra il pubblico. L’8 giugno 2002 il «Corriere» pubblicò tre inserti inediti in Italia da «La Rage et l’Orgueil».

I VOLTAGABBANA
Dio, quanto mi fanno schifo i voltagabbana! Quanto li odio, quanto li disprezzo! D’accordo, i voltagabbana non sono un’italica specialità, un’italica invenzione. Tale caratteristica appartiene alla Francia. Perfino il termine (che in francese è Girouette cioè Giravolta) è nato in Francia. Nel Medioevo aveva già un significato politico e si sa: dalla Rivoluzione Francese e il Direttorio e il Consolato e l' Impero e la Restaurazione, nessun Paese al mondo ha avuto un patrimonio altrettanto cospicuo e fastoso di girouettes. Di voltagabbana. Pensa al loro Esemplare Supremo ossia all' uomo che Napoleone definiva «une merde dans un bas de soie, una merda dentro una calza di seta», cioè Talleyrand. (N.d.a.: Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord: prima sacerdote e vescovo di Autun, poi deputato agli Stati Generali e difensore del Clero, poi rivoluzionario nonché nemico del Clero e in quanto tale scomunicato dal Papa, poi servo di Napoleone, poi nemico di Napoleone e sostenitore del ritorno dei Borboni, poi nemico dei Borboni e sostenitore degli Orléans. Grazie a tutto ciò morto nel suo letto a ottantaquattr' anni, più ricco di quel che fosse mai stato e di nuovo devoto al Papa. Ossia in odore di santità). Pensa allo stesso Napoleone che da giovane venerava Marat e Robespierre, «Marat e Robespierre, ecco i miei dei», e che dopo un simile debutto si fece imperatore. Da imperatore si mise a distribuire troni e principati ai fratelli, alle sorelle, agli amici... Pensa a Barras, a Tallien, a Fouché: i commissari del Terrore, i responsabili dei massacri compiuti dalla Rivoluzione a Tolone e a Bordeaux e a Lione, i farabutti che dopo aver tradito ed eliminato Robespierre presero a fornicare con gli aristocratici scampati alla ghigliottina e il primo inventò Napoleone, il secondo lo seguì in Egitto, il terzo lo servì fino alla caduta. Pensa a Jean-Baptiste Bernadotte che divenuto (grazie a Napoleone) re di Svezia, si alleò con lo Zar e (applicando la tattica napoleonica) nel 1813 decise le sorti della battaglia di Lipsia. Pensa a Gioacchino Murat, il cognato di Napoleone, da Napoleone fatto re di Napoli, che nel 1814 lo tradì alleandosi con gli austriaci... E non dimentichiamo che nel 1815 furono i francesi, non gli italiani, a compilare lo stupefacente e delizioso Dictionnaire des Girouettes, il Dizionario dei Voltagabbana. Libro che da allora continuano a stampare, ben aggiornato, senza alcuna difficoltà perché attraverso i secoli l' elenco s' è allungato in maniera affascinante. (Petain incluso, bien sur). E non dirmi che tutto ciò dovrebbe consolarmi, confermarmi che ho ragione a vedere nei nostri peccati i peccati degli altri europei. Perché allora ti rispondo: «A ciascuno le sue lacrime». E accidenti: se c' è un Paese che ha imparato a puntino la lezione francese, questo è proprio l’Italia. Pensa al girouettismo, pardon, al voltagabbanismo col quale tra il 1799 e il 1814 i sindaci toscani saltavano dal granduca Ferdinando d' Absburgo-Lorena a Napoleone, da Napoleone di nuovo al granduca, dal granduca di nuovo a Napoleone. Pensa al «Brindisi di Girella», la poesia satirica con la quale nel 1848 Giuseppe Giusti schiaffeggiò i nostri più modesti esemplari. Cioè introdusse nel vocabolario italiano la parola «girella», versione toscana del termine girouette, voltagabbana...

IL POLITICALLY CORRECT
Queste creature patetiche, inutili, questi parassiti. Questi falsi sanculotti che vestiti da ideologi, giornalisti, scrittori, teologi, cardinali, attori, commentatori, puttane à la page, grilli canterini, giullari usi a leccare i piedi ai Khomeini e ai Pol Pot, dicono solo ciò che gli viene ordinato di dire. Ciò che gli serve a entrare o restare nel jet-set pseudointellettuale, a sfruttarne i vantaggi e i privilegi, a guadagnar soldi. Questi insetti che hanno rimpiazzato l' ideologia marxista con la moda del Politically Correct. La moda o meglio la viscida ipocrisia che in nome della Fraternité (sic) predica il pacifismo a oltranza cioè ripudia perfino la guerra che abbiamo combattuto contro i nazifascismi di ieri, canta le lodi degli invasori e crucifigge i difensori. La moda o meglio l' inganno che in nome dell' Humanitarisme (sic) assolve i delinquenti e condanna le vittime, piange sui talebani e sputa sugli americani, perdona tutto ai palestinesi e nulla agli israeliani. E che in fondo al cuore vorrebbe rivedere gli ebrei sterminati nei campi di Dachau e Mauthausen. La moda o meglio la demagogia che in nome dell' Égalité (sic) rinnega il merito e la qualità, la competizione e il successo, quindi mette sullo stesso piano una sinfonia di Mozart e una mostruosità chiamata «rap». La moda o meglio la cretineria che in nome della Justice (sic) abolisce le parole del vocabolario e chiama gli spazzini «operatori ecologici». Le domestiche, «collaboratrici familiari». I custodi delle scuole, «personale non insegnante». I ciechi, «non vedenti». I sordi, «non udenti». Gli zoppi, (suppongo), «non camminanti». La moda o meglio la disonestà, l'immoralità, che definisce «tradizione locale» e «cultura diversa» l' infibulazione ancora eseguita in tanti paesi musulmani. Cioè la feroce pratica con cui alle giovani donne, per impedir loro il piacere sessuale, si taglia il clitoride e si cuciono le grandi labbra della vulva. Gli si lascia soltanto una piccola apertura per urinare. (Sicché immagina la sofferenza d' una deflorazione e poi d' un parto...). La moda o meglio la farsa che in Italia usa come portavoce un marocchino secondo il quale gli occidentali hanno scoperto la filosofia greca grazie agli arabi. Secondo il quale la lingua araba è la lingua della Scienza e dal nono secolo la più importante del mondo. Secondo il quale, scrivendo le sue Fables, Jean de La Fontaine non si ispirò a Esopo: plagiò certe novelle indiane tradotte da un arabo di nome Ibn al-Muqaffa. (*) La moda, infine, che permette di stabilire un nuovo terrorismo intellettuale: quello di sfruttare a proprio piacimento il termine «razzismo». Non sanno che cosa significa eppure lo usano lo stesso, con tale impudenza che è inutile riferirgli l' opinione degli intellettuali afro-americani i cui antenati erano schiavi e i cui nonni hanno subito gli orrori del vero razzismo: «Speaking of racism in relation to a religion is a big disservice to the language and to the intelligence. Parlar di razzismo in rapporto a una religione è far torto alla lingua e all' intelligenza»... (* Nota d' Autore) Mi riferisco al marocchino che in un articoletto pubblicato in Italia ha scritto che la mia mancanza di simpatia verso l' Islam è dovuta agli smacchi che avrei avuto con gli uomini arabi. (Da un punto di vista sessuale e sentimentale, s' intende). A questo signore rispondo che, graziaddio, io non ho mai avuto a che fare con un uomo arabo. A parer mio v' è qualcosa, negli uomini arabi, che disgusta le donne di buon gusto. Gli rispondo anche che la sua volgarità prova in pieno il disprezzo che gli uomini arabi vomitano sulle donne. Un disprezzo che contraccambio di tutto cuore.

IL SUICIDIO DELL' EUROPA
Quando ero molto giovane, diciassette o diciotto anni, sognavo talmente l’Europa! Venivo da una guerra dove gli italiani e i francesi, gli italiani e gli inglesi, gli italiani e i russi, gli italiani e i greci, gli italiani e i tedeschi, i tedeschi e i francesi e gli inglesi e i russi e i polacchi e gli olandesi e i danesi e i greci eccetera s' erano ammazzati tra loro senza pietà: ricordi? La fottuta Seconda Guerra Mondiale. Immerso fino al collo nella nuova lotta, mio padre predicava il federalismo europeo. Il miraggio di Carlo e Nello Rosselli. Teneva comizi, parlava al popolo, urlava: «L' Europa, l’Europa! Bisogna fare l’Europa!». E piena d' entusiasmo io lo seguivo come lo avevo seguito quando urlava Libertà-Libertà. Con la pace incominciavo a conoscere quelli che erano stati i miei nemici e vedendo i tedeschi senza uniforme, senza mitragliatori, senza cannoni, mi dicevo: «Sono come noi. Si vestono come noi, mangiano come noi, ridono come noi, amano la pittura e la scultura e la letteratura e la musica come noi. Come me. Possibile che ci abbiano fatto tanto male, terrorizzato, arrestato, torturato, ucciso?». Poi mi dicevo: «Ma anche noi li abbiamo uccisi. Anche noi...». E con un brivido di orrore mi chiedevo se durante la Resistenza anch’io avessi contribuito alla morte di qualche tedesco, cioè se li avessi in un modo o nell' altro uccisi. Me lo chiedevo e, rispondendomi forse-sì-anzi-sicuramente-sì, provavo una specie di vergogna. Mi sembrava di aver combattuto nel Medioevo, quando Firenze e Siena si facevano la guerra e l’acqua dell’Arno diventava rossa di sangue. Il sangue dei fiorentini e dei senesi. Con un brivido di stupore contestavo la mia fierezza d' esser stata un soldato della mia patria, per la mia patria, e concludevo: «Basta! Basta! Il babbo ha ragione! L' Europa, L' Europa! Bisogna fare l’Europa!». Bè: gli italiani delle Italie che non sono la mia Italia dicono che abbiamo fatto l’Europa. I francesi, gli inglesi, gli spagnoli, i tedeschi che gli assomigliano dicono lo stesso. Ma questo Club Finanziario che mi ruba il parmigiano e il gorgonzola, che sacrifica la mia bella lingua e la mia identità nazionale, che mi rompe le scatole con le sue scemenze e le sue bestialità, che cioè parla di Identità-Culturale-col-Medioriente e fornica coi nostri veri nemici, non è l’Europa che io sognavo. Non è l’Europa. È il suicidio dell’Europa.

11 gennaio 2015 | 08:32
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