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Autore Discussione: Fabrizio FOURQUET Paese fermo, ora Renzi deve cambiare fase  (Letto 4098 volte)
Admin
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« inserito:: Agosto 31, 2014, 09:13:44 am »

Paese fermo, ora Renzi deve cambiare fase
di Fabrizio Forquet

30 agosto 2014

Non è stato il 29 agosto che Matteo Renzi sognava. Quello che doveva essere il giorno del rilancio in pompa magna del suo riformismo è stato il giorno nero dei dati congiunturali che ritraggono un Paese senza lavoro, avvitato nella recessione e ora anche in deflazione. Dopo sei mesi di cura di ottimismo da parte del governo, quei dati sono la conferma che il cavallo non beve. Che l'impeto senza metodo e una comunicazione al magnesio non bastano a rilanciare l'economia. Possono creare consenso nel breve, ma non quella fiducia di lungo termine che è essenziale al rilancio dei consumi e degli investimenti.

Il cavallo non beve perché teme che sotto l'acqua dell'ottimismo vi siano pozzi avvelenati da scelte non fatte o, perlomeno, non attuate con lo scrupolo necessario. Scelte radicali, in grado davvero di cambiare lo scenario dell'economia, in Italia e in Europa. Possono essere questo i provvedimenti approvati ieri dal governo? Ovviamente no. Anche se ci sono interventi utili.

I n testa, tra gli interventi positivi, va messo il tentativo di riformare la giustizia civile riducendo gli arretrati e gli assurdi tempi dei giudizi, che contribuiscono non poco a indebolire la competitività del sistema economico e ad allontanare gli investimenti. Positive anche molte delle misure del decreto "Sblocca-Italia": bene lo spostamento di risorse dalle opere bloccate a quelle subito cantierabili, bene le semplificazioni per superare gli incagli burocratici, bene i meccanismi fiscali e finanziari introdotti per coinvolgere gli investimenti privati e la Cassa depositi e prestiti. Ma la distanza - come ha denunciato il direttore del Sole 24 Ore nel suo editoriale del 7 agosto e ha documentato nelle sue analisi Giorgio Santilli - tra l'attesa che si era voluta creare (i quasi 45 miliardi annunciati da Renzi un mese fa) e la realtà dei provvedimenti (ieri in conferenza stampa il premier si è attestato su cifre più realistiche) rischia di compromettere il giudizio su quanto approvato. Dopo averne tanto parlato, sono poi anche saltati dal testo finale gli importanti articoli che promuovevano la dismissione delle società partecipate. Se ne riparlerà.

Soprattutto, le norme approvate ieri possono essere un piccolo tassello, ma il lavoro da fare per portare l'Italia oltre la recessione richiede un cambio di passo all'insegna della serietà, del rigore attuativo e, soprattutto, di un lavoro di squadra che deve necessariamente coinvolgere più poteri e più livelli di governo, in Italia e in Europa. Non è un caso se, proprio ieri, il presidente Napolitano, dopo aver ricevuto il ministro dell'Economia Padoan, abbia diramato una nota ufficiale nella quale si sottolinea che «nella ricognizione si sono considerate attentamente le importanti indicazioni contenute nel discorso pronunciato dal presidente della Bce, Mario Draghi, a Jackson Hole».

Quelle "indicazioni" sono un piano a tutto campo, che coinvolge appunto la Bce, l'Unione europea, i governi nazionali, l'Italia. Perché Francoforte deve certamente fare di più per evitare che il continente scivoli nella deflazione (quanto appare lontano oggi l'obiettivo del 2% di inflazione!). Perché l'Unione europea deve rompere gli indugi sul rilancio degli investimenti a livello comunitario. Perché - aggiungiamo - la Germania deve capire che se continua a vendere senza comprare accentuerà squilibri che finiscono per danneggiare anche la sua economia. Perché Bruxelles deve allargare l'interpretazione dei trattati sulla flessibilità di bilancio in relazione agli investimenti produttivi. Perché, ultimo ma non ultimo, i governi nazionali devono fare le riforme strutturali necessarie a rendere le proprie economie più competitive. E a proposito di riforme, Draghi nel suo discorso ha sottolineato in particolare l'urgenza di quella del mercato del lavoro, con chiaro riferimento proprio all'Italia.

È la riforma delle regole sull'impiego, oggi, l'intervento strutturale più atteso in Europa per concedere all'Italia la flessibilità richiesta sul fronte dei conti pubblici. È su questo che Renzi e il suo governo si giocheranno la partita più importante nelle prossime settimane. Se l'Italia vuole avere più margini per investimenti e per riduzioni fiscali, ed evitare distruttive manovre correttive, deve rendere in tempi rapidi più efficiente e flessibile l'incrocio tra domanda e offerta di lavoro.

Il premier è ben consapevole di questa priorità e condivide la direzione d'intervento indicata da Draghi. Perciò proverà ad accelerare l'approvazione del Jobs act. Ma sa anche che le differenze all'interno della maggioranza su questo tema sono ampie, con Alfano e Sacconi determinati a tenere alta la battaglia sull'articolo 18, e soprattutto con il suo partito, il Pd, che è su posizioni molto più conservatrici delle sue (come ha dimostrato la vicenda Ichino).

Sarà un passaggio decisivo. Forse il più difficile per Renzi. Ma è solo così che potrà dimostrare di non essere quel ragazzetto – come lo rappresenta l'Economist – un po' leggero che si balocca con il gelato mentre la nave dell'Europa affonda. Il riformismo dell'impeto non ha portato, finora, i risultati sperati, ora è il tempo del riformismo della serietà. Tocca a Renzi dimostrare di saper interpretare questa nuova fase.

@FabrizioForquet
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-08-30/paese-fermo-ora-renzi-deve-cambiare-fase-081128.shtml
« Ultima modifica: Novembre 03, 2014, 05:34:02 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 17, 2014, 05:27:57 pm »

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Di Fabrizio Forquet
17 settembre 2014

È stato un Matteo Renzi più misurato del solito. Non il guascone che alcuni annunciavano. Ma un presidente del Consiglio consapevole del momento, che ha rinunciato - forse ben consigliato - ai toni spavaldi verso l'Europa e ha illustrato con inedito ordine il suo piano di riforme per trasformare - come è necessario - l'Italia.

Sarà stata la presa d'atto del drammatico stallo dell'economia, con una crescita che il Centro studi Confindustria ieri ha confermato ben sotto lo zero; sarà stato il pressing dell'Europa, che considera scaduto il tempo delle promesse: fatto sta che Renzi ha dimostrato nel suo discorso alle Camere di avere una nuova cognizione del cambio di fase necessario e dell'obbligo di affrontare con maggior sistematicità i nodi cruciali di un rilancio economico che continua drammaticamente a slittare.

Ci si poteva aspettare di più sui tempi delle singole riforme e sul merito dei nodi politici che vanno sciolti per trasformare il riformismo d'impeto in riformismo dei fatti. Troppe poche parole, poi, sono state dedicate alla legge di stabilità. Ma la vera novità della giornata si chiama articolo 18, ovvero superamento della reintegra obbligatoria del lavoratore.

Renzi ieri ha rotto gli indugi sull'ultimo dei tabù della sinistra e del mondo del lavoro. Il premier sa che su questo, su una maggiore flessibilità in uscita per i contratti a tempo indeterminato, si gioca una partita decisiva per la credibilità in Europa del suo governo e, sul fronte interno, per archiviare definitivamente ogni conservatorismo nel suo Pd.

Una partita difficile. Tutta ancora da giocare. Ma con i tempi stretti che l'emergenza lavoro, oltre che le attese dell'Europa, impone. Perciò ieri Renzi ha scelto di portare il suo affondo proprio sul Jobs Act, evocando anche la possibilità di un decreto. Sulla questione cruciale dell'articolo 18, però, in Parlamento si è tenuto ancora al di qua delle colonne d'Ercole. Ha incalzato sulla necessità di superare il dualismo nel mondo del lavoro, ma non ha parlato, ancora, di superamento della reintegra obbligatoria. Il dado però era lanciato.

Così in serata alla direzione del partito il superamento dell'articolo 18 è stato evocato direttamente. Renzi illustrerà il suo piano a una direzione appositamente convocata per fine mese. Ma ieri sera raccontava così il progetto: «Lo Statuto del lavoro va riscritto e il dualismo tra "garantiti e non" va superato anche con una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato, cioè con il superamento della reintegra obbligatoria prevista dall'articolo 18». Ovviamente questo deve avvenire, nel piano di Renzi, con un contestuale rafforzamento delle tutele economiche per chi perde il posto di lavoro. E qui il premier inserisce l'altra parte del discorso: «Con la legge di stabilità metteremo le risorse necessarie a rafforzare gli ammortizzatori, in questo modo anche i più scettici potranno convincersi sull'abolizione della reintegra obbligatoria».

È evidente che a questo punto un passaggio decisivo sarà proprio quello delle coperture da trovare nella legge di stabilità. Una "finanziaria" che diventa sempre più complessa, per la quantità di risorse che dovrà mobilitare. Eppure Renzi ieri alle Camere ha sorprendentemente eluso il tema della manovra di bilancio e dei tagli da 20 miliardi che serviranno in gran parte (16 miliardi) a coprire misure esistenti. Tra queste il sempre più contestato bonus da 80 euro, che da solo vale 10 miliardi. Il premier ha ribadito che non tornerà indietro. Comprensibile. Per il governo, come ha ammesso lo stesso ministro Padoan, è «una priorità politica» prima che una scelta economica. Ma con questa zavorra si riuscirà a liberare le risorse necessarie a ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro, vera priorità riconosciuta anche dall'Eurogruppo a Milano la settimana scorsa? E ora anche a trovare i fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali?

Nessuno può credere seriamente che si potranno risparmiare 20 miliardi senza incidere sui grandi capitoli del bilancio pubblico, che sono le pensioni (254 miliardi, il 35% della spesa al netto degli interessi), la sanità (110 miliardi, il 14%), il pubblico impiego (164 miliardi, il 22,9%). Ma di tutto questo nel discorso di Renzi non c'è traccia.

È vero che il tema dell'intervento alle Camere era il cosiddetto "piano dei mille giorni". Ma è possibile parlare di un piano dei mille giorni senza entrare nella carne viva delle risorse necessarie a sostenere quelle riforme? È credibile un progetto di rilancio dell'economia senza delineare l'infrastruttura finanziaria necessaria a sostenerlo? Tanto più che si avvicinano le scadenze che contano. Quella della legge di stabilità, appunto, prevista tra il 10 e il 15 ottobre, ma anche quella del Consiglio europeo di fine ottobre. Per quella data l'Italia, se vorrà davvero accedere a una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dovrà aver dimostrato di aver fatto passi avanti molto concreti sulle riforme. E su una in particolare, proprio quella del lavoro.

Perciò è davvero venuto il momento per Renzi di rompere l'ultimo dei tabù. Un'ennesima riforma del mercato del lavoro annacquata dalle tante resistenze conservatrici non serve a nessuno. Non serve certamente per dare il segnale di credibilità necessario in Europa, ma soprattutto non serve a dare all'Italia un mercato del lavoro più efficiente e più giusto.

La svolta del riformismo dei fatti deve passare anche da qui.

@fabrizioforquet
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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-09-17/articolo-18-banco-prova-una-nuova-fase-063519.shtml?uuid=ABrKwUuB
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 16, 2014, 11:25:56 pm »

Obiettivo crescita: se non ora quando?

di Fabrizio Forquet
16 ottobre 2014

È certamente la conseguenza delle nuove incertezze sull'uscita della Grecia dalla crisi, forse c'entrano anche i dati negativi sulla congiuntura Usa, ma la spallata che ha coinvolto la Borsa e i titoli pubblici italiani è un monito per chiunque si fosse fatto illusioni sulla stabilità del titolo Italia sui mercati finanziari. L'Italia resta ancora un osservato molto speciale in Europa.
 
Certo, la coincidenza temporale con l'approvazione della prima legge di stabilità del governo Renzi è del tutto casuale. Ma il segnale non poteva arrivare più chiaro: bene la manovra espansiva, ottima la riduzione delle tasse, ma attenzione alla solidità dei numeri e niente salti nel buio.

Detto questo, c'era una tassa odiosa e adesso non c'è più. Una tassa sull'occupazione, che prescindeva dall'andamento dell'impresa, e quella tassa è stata cancellata per un valore di 5-6,5 miliardi. Le imprese non pagheranno più un assurdo balzello sulla loro capacità di creare o difendere l'occupazione. Una misura che si accompagna all'azzeramento dei contributi nei primi tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato. In questo modo, come dimostrato ieri da Giorgio Pogliotti sul Sole 24 Ore, il costo per l'azienda di un'assunzione stabile si ridurrà di quasi un terzo.

Significa che assumere a tempo indeterminato potrebbe davvero diventare più conveniente rispetto ad altre formule contrattuali. Soprattutto se alle misure economiche si accompagnerà una vera riforma del mercato del lavoro, con un contratto a tutele crescenti che superi definitivamente le incongruenze e le vischiosità burocratico-giudiziarie dell'attuale articolo 18. Su questo qualunque passo indietro del governo è proibito.

Complessivamente la riduzione della pressione fiscale, tra imprese e famiglie, è significativa. E va anche riconosciuto lo sforzo di coprirla il più possibile con tagli di spesa per 15 miliardi (12 nuovi più 3 già previsti). È vero però che una quota della copertura arriva ancora una volta dalla stima del recupero dell'evasione (3,8 miliardi) e che i tagli di spesa - come ha giustamente osservato Luca Ricolfi sulla Stampa - vengono per una parte riassorbiti da nuove spese. Ma soprattutto c'è il rischio che i circa 6 miliardi di tagli che gravano su Regioni e Enti locali si possano tradurre in nuove tasse. Un rischio molto concreto se si considera che dal 2000 (ultimo anno prima del nuovo Titolo V) la pressione fiscale locale è aumentata dell'80%, cioè da 47 a oltre 81 miliardi.

Renzi comunque può dire a ragione di aver portato a casa una manovra (quasi) senza tasse (con l'eccezione dell'aumento di prelievo sui fondi pensione, sulle fondazioni bancarie e sulle polizze vita). Una manovra decisamente espansiva. Portare il rapporto deficit/Pil dal 2,2 tendenziale al 2,9% permette di investire 11 miliardi in sviluppo. Può essere una scelta ardita, ma se non ora quando? L'analisi con cui Moody's ha confermato il rating all'Italia sottolinea che è il ritorno alla recessione il fattore che più pesa sui rischi di sostenibilità finanziaria. Lo stesso Fondo monetario, nel rapporto del 22 agosto, ha sottolineato che «il rilancio della crescita è essenziale per superare il pericolo di una crescita fuori controllo del debito».

L'Europa sarà sorda a queste buone ragioni? Sarebbe, va detto senza equivoci, un errore madornale. L'Italia rispetta il parametro del 3%, ha il più alto avanzo primario d'Europa e mantiene comunque un andamento in discesa del rapporto deficit/Pil. Fa tutto questo malgrado un Pil in discesa. E mette anche da parte - novità dell'ultima ora - una riserva da 3,4 miliardi per ogni eventualità. Che credibilità può avere una richiesta di Bruxelles di aumentare la correzione del deficit costringendoci a escludere diversi miliardi dal rilancio della crescita?

«Se non ora quando» vale anche per l'Europa. D'altra parte il giudizio che conta di più è quello che daranno da subito i mercati. Già stamattina la credibilità della manovra di Renzi sarà messa alla prova. Dopo la giornata di ieri c'è da tremare: la scelta della crescita attraverso il taglio delle tasse è la strada giusta, ma guai a perdere la consapevolezza di quanto la strada della stabilità finanziaria sia stretta e difficile. La giornata di ieri, se ne avevamo bisogno, ce lo ha ricordato.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-16/obiettivo-crescita-se-non-ora-quando-063610.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:30:11 pm »

La sfida a sinistra e gli orologi a cucù

Di Fabrizio Forquet
31 ottobre 2014

Puntuale come gli orologi a cucù delle case degli anni 70 la Fiom ha annunciato il suo sciopero “generale” per novembre. La Cgil ha confermato di voler andare verso la medesima scelta. Per Massimo D'Alema, poi, sul lavoro il governo rischia di violare la Costituzione. A considerare l'oggetto “ufficiale” di cotanta reazione - la legge delega che porta il nome di Jobs Act e una manovra che complessivamente dà e non toglie - ci sarebbe davvero da usare l'aggettivo “surreale” (cit.). Ma è ovvio ai più che la partita è una prova di forza tutta politica. Perciò non è surreale, ma rischia di essere peggio: un danno per il Paese, per i suoi lavoratori e per le sue imprese. Dalla crisi si esce con le riforme e con la fiducia, gli autunni caldi (manganelli compresi) meglio lasciarli ai tempi in cui gli orologi facevano cucù.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-31/la-sfida-sinistra-e-orologi-cucu--104325.shtml?uuid=ABGSDm8B
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:16:53 pm »

Senza riforme lo scudo Bce non ci salverà

Di Fabrizio Forquet
9 dicembre 2014

La tenuta dello spread BTp-Bund, dopo il declassamento di Standard & Poor's, non deve ingannare. L'Italia si giova in questa fase dell'attesa del Quantitative easing, dato ormai sui mercati come un'opzione più che concreta. E questa fiducia fa premio su qualunque altra considerazione.

Perdere di vista, però, che il nostro Paese resta fortemente a rischio nei giudizi degli investitori internazionali sarebbe un errore madornale. Era la seconda metà del 2010, quando in un'intervista al Sole 24 ore l'allora ministro dell'Economia osservava: «La curva dei tassi italiani è da tempo nella media europea. Oggi è a un tranquillo 127. Detto per inciso i debiti sovrani non sono più tanto di moda sui mercati finanziari». Dopo meno di un anno i tassi italiani avrebbero cominciato la loro corsa fino a portare lo spread al drammatico 575 dell'autunno 2011.

Ieri i decennali hanno chiuso con uno spread a 122, molto vicino a quel 127 che dava tranquillità a Giulio Tremonti, ma oggi come allora non c'è alcuno spazio franco su cui poter contare. C'è il possibile scudo del Qe, ma comprare titoli italiani a dieci anni con un rendimento sotto il 2 per cento resta una scelta tutt'altro che scontata. Perché non scontata è la sostenibilità del nostro debito, senza crescita economica e con una deflazione divenuta ormai realtà.

Al di là della scarsa credibilità delle agenzie di rating, che ormai non muovono più i mercati come una volta, il declassamento da parte di S&P's ha evidenziato un tema che è ormai sulla bocca di tutti nel mondo finanziario: la mancata crescita rischia di rendere davvero il debito pubblico italiano poco sostenibile, malgrado gli avanzi primari e gli esercizi di rigore. Sarebbe un grave errore se, in questa situazione, la politica italiana si adagiasse sotto lo scudo del possibile Qe.

Si adagiasse e pensasse di potersi permettere di girare a vuoto per mesi tra tatticismi e agguati parlamentari sui temi del Quirinale e delle riforme istituzionali.

Al contrario vanno fatti subito e bene i decreti attuativi del Jobs act. Tenendo molto presente che l'obiettivo di creare posti di lavoro si centra se si rende davvero più agevole alle imprese assumere, in termini di costi e di regole. Allo stesso modo non va sprecata l'attuazione della delega fiscale per rendere, se non più amico, almeno meno persecutorio il fisco italiano. Vanno portate a casa le modifiche alla manovra con un pacchetto di misure in favore degli investimenti e dell'economia reale, a cominciare dal trattamento fiscale dei grandi macchinari imbullonati (presse, forni...) che solo la irragionevolezza del fisco italiano (e soprattutto locale) può equiparare a beni immobili.

Piuttosto che organizzare manipoli di guastatori pronti ad affossare candidati al Colle, sarebbe un grande messaggio verso il Paese se ogni forza politica contribuisse ad affrontare il nodo delle 8mila società partecipate intorno alle quali ogni giorno si alimenta il malaffare e muore un pezzo di economia italiana. È il buco nero della spending review, tocca interessi trasversali, anche vicini al governo dei sindaci, ma come dimostra l'inchiesta romana è un cancro di cui non può non occuparsi la politica prima che debba farlo la magistratura. Se Renzi davvero non vuole «lasciare Roma - e non solo Roma - ai ladri», sarebbe ora di passare ai fatti sulla dismissione, l'accorpamento e il risanamento di queste società.

Se però la politica italiana è chiamata oggi più che mai a dimostrare responsabilità, c'è davvero da domandarsi sulla ragionevolezza di chi ci guarda da Bruxelles. La rigidità con cui ieri l'Italia è stata richiamata alla correzione dello 0,5% del rapporto deficit/Pil per il prossimo anno è un'offesa al buon senso. Tanto più stridente nel momento in cui è la stessa Banca centrale europea ad aprire a una politica più espansiva.

Non basta, dice la Commissione, la correzione prevista dello 0,1%, e già portata un mese fa allo 0,3%: bisogna centrare lo 0,5%. Come dire che va tolta un'altra manciata di miliardi dal rilancio della crescita. E poco importa se alla fine in questo modo si finirà per danneggiare lo stesso obiettivo della sostenibilità dei conti pubblici.

Ottusità, che sono ancora più gravi proprio nel momento in cui può aprirsi per l'Europa e per l'Italia una finestra di opportunità. Il rilancio della crescita americana, lo stesso quantitative easing, i margini di competitività offerti da un'opportuna svalutazione dell'euro, i bassi prezzi del petrolio sono tutti fattori che potrebbero dare una spinta all'Europa nei prossimi mesi. Tocca alla politica, europea e italiana, cogliere quei segnali e accompagnarli con politiche e azioni utili a ricreare quell'ambiente di fiducia senza il quale non ci sarà né crescita né stabilità finanziaria.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-12-09/senza-riforme-scudo-bce-non-ci-salvera--074447.shtml?uuid=ABois3NC
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